28 dicembre 2024

A Pessina Cremonese la storia della 'Barricata Sant'Antonio' del 1945 rivive nei monumenti e nelle lapidi in memoria dei caduti per la Liberazione

Il 2025 che si sta per aprire porterà alla celebrazione dell’ottantesimo della Liberazione. Un anniversario importante che, ovunque, sarà celebrato con numerose iniziative. A Pessina Cremonese, tuttavia, l’anniversario assume un significato particolare perché rievoca quella grande pagina di storia della Barricata di Sant’Antonio del 1945.  Una pagina tragica che costò la vita ad Andrea Boccoli (classe 1921 di Isola Dovarese), Rosolino Gosi (classe 1922 di Pescarolo), Claudio Leonida Magrini (classe 1918 di Milano) e Aristodemo Orlandi (classe 1921 di Piadena). Tutti sono ricordati sia nel monumento eretto in loro ricordo nel centro del paese (voluto da Amministrazione comunale e sezione Anpi “Le Barricate” di Pessina), realizzato dal professor Flavio Melani in cui si legge “Caduti il 25 aprile 1945 sulle Barricate di S.Antonio lottando per darci libertà e democrazia, tramandandoci un impegno di civiltà e memoria nei valori della Resistenza”.

Altro tangibile ricordo è quello posto sulla targa marmorea sulla facciata del municipio in cui si legge “Non mercenari né faziosi ma volontari della morte qui sulle sacra Barricate di S.Antonio a te la vita donammo o patria per la libertà, la giustizia, l’avvenire”. Per entrare maggiormente nelle pieghe, o meglio nella cronaca, di quei fatti è sufficiente mettere mano al libretto, datato 2005, dedicato al “60esimo della Liberazione – La Barricata di Sant’Antonio” promosso dall’Amministrazione comunale e curato dal comitato pessinese per la celebrazione del primo decennale della Resistenza Italiana. Proprio in questa pubblicazione si ricorda che in paese era già sorto, nel settembre del 1943 “un primo nucleo di resistenza al fascismo, con intenti di lotta contro il regime e contro l’oppressione straniero: Giuseppe Brunelli, Ernesto Signorini, Mario Carnevali, Enrico Bosio e poi, Giuseppe Barbieri, Angelo e Alberto Bodini, Donnino Ghisolfi, Giuseppe e Florindo Ronchi, Rosolino Guarneri, Emilio Bricchi, sono gli uomini che hanno formato questo primo nucleo, costretto presto alla vita clandestina, ma presto ingrossato da quei giovani che, rifiutandosi di aderire ai bandi d’arruolamento fascisti, si ponevano automaticamente in posizione di “ribelli”. Passa un anno intero nella lotta sorda contro l’illegale “Repubblica Sociale” – si legge ancora - lotta animata dai capi, ma alla quale poco a poco partecipa tutta la popolazione. Distribuzione di stampa clandestina, cattura di armi, distruzione di attrezzature tedesche, furono nell’anno 1944 il compito dei gruppi più attivi e audaci, mentre le donne badavano alla protezione dei giovani renitenti e a compiti di umanità come dare nascondiglio e cibo a prigionieri alleati e russi fuggiti dai campi di concentramento.

Durante questo anno di resistenza si temprano le forze, si chiariscono i fini ideali e politici della lotta, si suddividono gli uomini in reparti organizzati militarmente, si attuano coraggiosi colpi di mano. Le vicende della guerra volgono verso la fine, il mostro hitleriano comincia a subire ferite mortali, l’Unione Sovietica ha sconfitto il nemico a Stalingrado e sta liberando il suolo della patria con una marcia che diventa travolgente e che sarà di determinante aiuto agli sforzi degli alleati per la fine della guerra. "Da noi – si evidenzia nel libretto - il Corpo Volontari della Libertà, e in primo luogo le Brigate Garibaldine, stanno diventando abbastanza forti per potersi misurare con le forze naziste. Brigata Garibaldi “Guerrino Cerioli” il cui Comandante è Arnaldo Uggeri (Manno) e il Giuseppe Brunelli (Cesare), mentre è in funzione il Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), organo clandestino con compiti civili e politici, al quale appartengono: Donnino Ghisolfi, comunista, nominato Sindaco del paese dal Governo Bonomi, Gaetano Rossi, indipendente, Ottorino Pasetti, indipendente, Giuseppe Barbieri, del P.C.I., Antonio Filippi del Partito d’Azione, e Dante Cippelli della Democrazia Cristiana".

La Barricata di S. Antonio fu eretta il giorno 25 Aprile. I nostri colpi di mano erano diventati sempre più audaci. Due giorni prima, al comando di Brunelli attacchiamo il Castello di S. Lorenzo, trasformato il Presidio dei fascisti e disarmiamo 15 uomini. La mattina del 25 Aprile – si ricorda - il Partigiano Donnino Ghisolfi disarma 18 fascisti sulla stradale di Cremona, nella stessa mattina egli, con un altro partigiano, con un colpo audacissimo disarma e fa prigionieri il Comandante della terza Brigata mobile fascista, Pagliani, e il suo Ufficiale di ordinanza. Gravi azioni di rappresaglia contro il paese erano prevedibili. D’altro canto era sopravvenuto l’ordine di insurrezione. Fu su consiglio dell’anziano Professor Luciano Magrini, di Milano, sfollato con i figli a Pessina, che verso mezzogiorno cominciammo a costruire la barricata. Spacconi di legna, destinati all’ammasso a Cremona, caricati su diversi carri ferroviari fermi a S. Antonio, ci servirono per interrompere la strada all’ingresso Est e all’ingresso Ovest della frazione. Tutta la popolazione contribuì con slancio alla costruzione.

Il comando della barricata verso Cremona fu affidato al figlio maggiore del prof. Magrini, al giovane ingegnere Claudio Leonida Magrini. Il padre e il fratello minore Sandro imbracciano il fucile al suo fianco. L’altra barricata è comandata dal Partigiano Emilio Bricchi. Partigiani, contadini, popolani, di Pessina, di Stilo, di Isola Dovarese, di Piadena, armati la maggior parte con fucili da caccia, ma anche con armi moderne catturate nelle azioni precedenti, sono sulle barricate. Alle 18 un drappello di tedeschi e di fascisti viene disfatto alla barricata Est. Alle 19 viene arrestata una macchina della Wermacht e gli occupanti posti in fuga. Alle 20 un autocarro di tedeschi viene fermato e alcuni uomini fatti prigionieri.

Ma gli attacchi più pericolosi avvengono alla Barricata ovest, verso Cremona. Di notte si disarma un gruppo di tedeschi montati su un autocarro Krup. Verso le due di notte, sotto una luna chiarissima, si presenta un forte nucleo tedesco. La battaglia diventa furente. I tedeschi tentano in ogni modo di superare la barricata per guadagnarsi il passaggio del ponte sull’Oglio di Isola Dovarese. Fu qui che Leonida Magrini fu colpito a morte cercando di sorprendere il nemico sulla destra. Con le poche forze che gli rimangono riesce a rientrare ma cade gridando al fratello Sandro «Resistete!». Fu questa la sua ultima parola. I compagni della barricata resistettero, e dopo più di un’ora di lotta videro i tedeschi a ripiegare. Assalti alla barricata continuarono il giorno dopo, ma furono tutti sanguinosamente respinti. E finalmente venne la notizia della resa delle truppe tedesche in Italia”.

E’ qui che la pubblicazione ricorda che   il giovane Magrini, caduto il 25, non fu solo. Altri tre giovani compagni della barricata persero la vita in quei giorni: “Aristodemo Orlandi, contadino, di Piadena, che era di pattuglia con altri dodici partigiani lungo la stradale, fu colpito a morte durante una scaramuccia. Andrea Boccoli, venditore ambulante di Isola Dovarese, fu fucilato di giorno perché trovato armato mentre andava in perlustrazione, così Rosolino Gosi, contadino, di Pescarolo, che fu assassinato per la strada mentre portava gli ordini andati a prendere al Comando di Brigata. Così l’ingegnere e i contadini, affratellati nella difesa della libertà e dell’onore della Patria, sono caduti da fratelli a S. Antonio di Pessina. Giovani ardenti e generosi, che non hanno atteso l’arrivo della libertà in comodi rifugi, essi insegnano a noi di Pessina e a tutti gli italiani, quanto ancora oggi sia necessario avanzare fraternamente uniti sul cammino delle lotte per l’indipendenza del Paese e per il benessere di tutto il popolo”.

Si è scritto del monumento in centro al paese e della lapide sul municipio, ma c’è anche un altro ricordo, forse meno conosciuto, che proprio nell’ottantesimo di quella pagina di storia merita di essere restaurato e valorizzato: si tratta della lapide posta sulla facciata esterna della chiesa di Sant’Antonio d’Anniata, proprio nel luogo della Barricata. Chiesa che è in disuso da diversi anni ma, sul muro esterno appunto, c’è questa lapide che rischia di cancellarsi e merita invece un recupero e, magari, un ricordo in occasione delle celebrazioni per l’ottantesimo della liberazione. “Alla memoria di Claudio Leonida Magrini – si legge nell’iscrizione – che il 26 aprile 1945 qui immolò la giovane vita ricca di tante promesse. Perché nel suo sangue e nel suo esempio la patria avvilita ritrovasse la coscienza del dovere presente e la fede nell’avvenire”. Magrini, giusto ricordarlo, faceva parte della Brigata Garibaldi “F.Ghinaglia” che, durante la lotta di liberazione, si estese a gran parte del cremonese, del casalasco e del cremasco. Sulla stessa facciata si trova un’altra lapide che nulla ha a che vedere con la Liberazione ma narra la storia ed anche per questo meriterebbe a sua volta di essere salvata. “S. Antonio d’Anniata – vi si legge - ebbe un castello che fu dei Dovara eretto dai cremonesi nel 1163 e distrutto da Gabino Fondulo ebbe di poi un’abbazia ed una chiesa consacrata nel 1350 dal Vescovo di Cremona Ugolino Ardengherio trasformata nel XVI secolo in commenda ultimo titolare della te….a fu il conte monsignore don Carlo de Villana Perlas abate in S. Antonio d’Anniata 1788… Alfonso Negri banchiere ed agricoltore nel 1797 acquistò queste terre dal pubblico demanio e dal di lui figlio Ing. architetto Giuseppe Negri Senatore del Regno… furono riordinate e livellate convogliando le acque stagnanti costruendo un apposito cavo per l’irrigazione delle terre asciutte iniziando pel primo nella provincia di Cremona la coltivazione dei prati marcitori. Il paese di S. Antonio d’Anniata e la cascina Fienile furono da lui completamente ricostruiti ed ampliati con mirabile preveggenza dei tempi e dello svilippo dell’agricoltura moderna. Il 22 gennaio 1899 il Comune per volontà dei popolo volle quale segno di imperitura riconoscenza fosse denominato S. Antonio Negri. A perenne memoria il Comune pose 1928 anno VI E.F.”.

A proposito di storia, nel 1451 Sant’Antonio d’Anniata è elencato, con la denominazione Villa Daniata, tra le “terre” del territorio cremonese e godeva di esenzioni fiscali, in quanto “tenuta” dal precettore dell’abbazia di Sant’Antonio (Elenco comuni contado di Cremona, 1451). Sant’Antonio d’Anniata è elencato tra i comuni del Contado di Cremona nel 1562 (Repertorio scritture contado di Cremona, sec. XVI-XVIII) ed elencato sempre tra i comuni del Contado nel 1634 (Oppizzone 1644). Nel “Compartimento territoriale specificante le cassine” del 1751 Sant’Antonio d’Anniata era una comunità della provincia inferiore cremonese, dato confermato anche dalle risposte ai 45 quesiti della giunta del censimento, datate 1751 (Compartimento Ducato di Milano, 1751; Risposte ai 45 quesiti, 1751; cart. 3058). Dalle risposte ai 45 quesiti emerge che la comunità, non infeudata, era amministrata dal fittabile dell’abbazia di Sant’Antonio d’Anniata, proprietaria di quasi tutto il perticato, che svolgeva le funzioni di deputato al governo del comune; unico ufficiale del comune era il console. Alla metà del XVIII secolo il comune era sottoposto alla giurisdizione del podestà di Cremona e il console, tutore dell’ordine pubblico, prestava giuramento alla banca criminale della provincia inferiore della curia pretoria. All’epoca la comunità contava meno di 100 anime (Risposte ai 45 quesiti, 1751; cart, 3058) Nel compartimento territoriale, pubblicato con editto datato 10 giugno 1757, risulta aggregato a Pessina (editto 10 giugno 1757).

L’oratorio del piccolo centro, che svetta sulla via Mantova, fu costruito verso la metà del XIV secolo da alcuni frati antoniani della regola di S. Agostino di Cremona che vi possedevano dei fondi. Trasformato sul finire del ‘500 in commenda, fu conferito a cardinali e grandi personaggi. La riforma amministrativa della Lombardia decisa dall’imperatrice Maria Teresa nel 1757 soppresse il comune annettendolo a Pessina Cremonese, ma una speciale dispensa continuò a configurarlo separatamente ai fini censuari, con confini ufficialmente definiti. Dieci anni più tardi, nel 1767 il conte monsignor Carlo de Villana Perlas lo fece riedificare nelle forme attuali e la chiesa fu restaurata nel 1846. Molte, infine, le notizie che si possono ricavare in quella “pietra miliare” di storia locale che è la “Descrizione dello stato fisico-politico- statistico-storico-biografico della Provincia e Diocesi di Cremona” di don Angelo Grandi che ricorda che il luogo era definito anche come “Sant’Antonio della Mata o Matha” e, parlando dei restauri dell’oratorio avvenuti nel 1846 grazie all’iniziativa del proprietario terriero Giuseppe Negri da Milano, ed evidenzia che nel timpano è effigiato il santo titolare mentre l’aula a navata unica è impreziosita da finestre a vetri colorati e la volta fregiata a chiaroscuro con medaglie eseguite dal Longhi e l’altare in marmo bianco. Inoltre, la sagrestia con belle suppellettili e pregevoli abiti sacerdotali. In più il campanile dotato di orologio. In particolare don Grandi esalta l’opera munifica di Giuseppe Negri, nella cura e nell’organizzazione anche dei fabbricati esterni.

“L’esistenza di questo villaggio – scrive ancora il sacerdote – risale per lo meno al XIV secolo, risultando da una lapide posta nell’antica facciata dell’attuale oratorio sacro à s.Antonio abate, ictata in una memoria mss. di G.Battaglia parroco in Pessina circa l’ultima metà dello scorso secolo, esistente presso l’archivio parrocchiale di detto luogo, che l’oratorio e chiesa che fosse venne costrutta a tre navi dai frati, detti Ospitalieri di S.Antonio abate o Antoniani sotto la regola di S.Agostino, che avevano convento con ospitale in Cremona, ed un ospizio per 6 od 8 monaci in questo villaggio di loro proprietà in un col latifondo, e che l’accennata chiesa fu nel 1350 consacrata da Ugolino Ardengherio vescovo di Cremona. Vuolsi parimenti che questa chiesa fosse costituita in parrocchia diretta dagli stessi monaci, a cui presiedeva un abate, ed avesse soggetti alla parrocchiale sua giurisdizione i villaggi di Pessina e di Stilo dè Mariani”. Don Grandi ricorda quindi che a Pessina si trovava anche i frati Carmelitani con un oratorio privato, dove successivamente sorse la proprietà del nobile cavaliere signor Baroli. “Soppressi i monaci Antoniani sul declinare del secolo XVI – scrive di nuovo don Grandi – la chiesa abaziale di S.Antonio abate venne mutata in commenda e conferita a cardinali e gran signori, e forse a quest’epoca cessò di essere anche parrocchia, ridotta a frazione della nuova eretta parrocchiale di Pessina. A tempi dell’imperatore Carlo VI ebbe a commendatore monsignor Carlo de Villana Perlas, di nazione spagnuolo e figlio del gran cancelliere del detto imperatore. Per ordine di monsignor Perlas nel 1767 la chiesa di S.Antonio abate venne sotto diverso disegno costrutta e ridotta com’è di presente ad una sola nave col titolo di oratorio. Dell’antica chiesa sussiste ancora una traccia nei pilastri compresi nella nuova parete, che veggonsi nell’interno della bella ed elegante casa del signor Negri.

Ripetendo il villaggio la sua denominazione del Santo che quivi è venerato – si legge ancora – sembra che niuna relazione si abbia l’aggiunto nome d’Anniata a quello di Sant’Antonio, e siamo tentati a crederlo piuttosto un travisamento di parola, che, invece della vera applicata in antico della Mata, col progredir del tempo corrompendono la voce sia erratamente pronunciato d’Anniata per della Mata. Ciò che ci appaja non inverosimile lo si deduce dall’uso che mai sempre s’è praticato per distinguere un luogo dall’altro, di aggiungere cioè una denominazione qualunque d’un paese il nome del fondatore o del proprietario, ed a quella di un Santo, come nel nostro caso, applicare il nome del casato da cui deriva, o del luogo ov’ebbe la culla, o quello in cui si segnalò per integrità di vita o sapere, oppur del luogo ove avvenne la morte, ed in fine ove trasportare furono le sacre ceneri. Nessuna cronica pertanto ci pone sott’occhio che esistito abbia una famiglia per nome Anniata; né il nobile ed illustre casato di S.Antonio abate ebbe così nomavasi, non la terra in cui ebbe i natali, chiamata Coma, vicino ad Eraclea città d’Egitto; non il luogo ove fondò un monastero o spirava l’anima, appellato Colzin, monte vicino al golfo arabico o mar Rosso; sibbene il luogo ove per ultimo venner collocate le sacre di lui spoglie chiamasi Mata o Matha, terra presso a Vienna di Francia. Ce ne porge di ciò fede il cremonese Merula nel suo libro portante il titolo ‘Santuario di Cremona’, il quale narrando in compendio della gesta di S.Antonio abate, dice: ‘Che certo Jocelino gran barone della città di Vienna nel Delfinato, trasportò intorno al 1070 da Costantinopoli le sacre ceneri del Santo alla predetta città, e nel 1096 recandosi in Francia il pontefice Urbano II per animare i principi cristiani a mover guerra contro i Turchi, ordinò che quel sacro corpo fosse con maggior onore e riverenza posto in alcuna chiesa, ed essendo morto il detto Jocelino, che lo possedeva, gli eredi elessero per quest’effetto una lor terra detta la Mata, che poi del Santo ne prese il nome, innalzando a di lui onore una chiesa’. Dell’esposto appare facile il poter ammettere che a questo villaggio gli convenga meglio l’applicazione di S.Antonio della Mata, dal luogo ove riposte sono e venerate le insigni reliquie del Santo anacoreta”. Alla fine la denominazione non è mai mutata ed ancora oggi la località si chiama Sant’Antonio d’Anniata: con la speranza che almeno le due lapidi in facciata, nell’ottantesimo della Liberazione, siano restaurate e abbiano la giusta valorizzazione.

Eremita del Po

Paolo Panni


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