Tanti i conventi spariti lungo il Po sulle due sponde. E le campane di Pieve d'Olmi arrivano da quello di Zibello
Le terre del fiume, sull’una e sull’altra riva, un tempo pullulavano di monasteri e conventi, maschili e femminili. Non è un mistero che molte delle attuali cascine cremonesi sparse nelle vaste campagne lombarde, un tempo ospitavamo ordini religiosi. Come non è un mistero il fatto che, specie i benedettini, furono i protagonisti, in tutta la Pianura Padana di importanti opere di bonifica di cui beneficiamo tuttora. Procedettero, per anni ed anni, ad una sistematica bonifica, abbattendo selve e dissodando terreni. Costruirono anche eremi lungo le principali vie di comunicazione e presso il corso dei fiumi per poter ospitare i pellegrini, assistere i malati ed i poveri. Ciò avvenne,per citarne uno, anche a Motta Baluffi, dove nel XII secolo esisteva un importante ospedale per il ricovero e la cura degli infermi, dei pellagrosi ed in genere dei poveri, detto San Cataldo della Motta dal titolo della parrocchiale (ancora oggi dedicata a San Cataldo). Ancora oggi, all’occhio del buon osservatore non possono sfuggire particolari architettonici che rimandano, appunto, ad antiche realtà monastiche e conventuali, in qualche caso anche di ordini soppressi (come nel caso degli Umiliati a Solarolo Monasterolo). Soltanto Cremona città pullulava di conventi; tanto per citarne alcuni basti pensare a quelli di San Domenico, San Benedetto, Sant’Angelo, Corpus Domini e Santa Monica; a Casalmaggiore quello di Santa Chiara dove dimoravano le clarisse di clausura; a Stagno Lombardo, nell’antica pieve di san Martino al Lago Scuro, il monastero dei benedettini di Nonantola prima e degli olivetani poi. C’erano i frati anche a Cà de Staoli (dove sorge la chiesa di San Geatano); a Sommo Con Porto (dove oggi sorge la cascina Palazzina); a Solarolo Monasterolo (di cui si è già scritto qualche riga fa) mentre al museo Galileo di Firenze è custodito un orologio del periodo compreso tra il XV ed il XVI secolo che apparteneva a un monastero di Torricella del Pizzo. Sulla sponda emiliana, quella parmense, c’era un convento di frati francescani a Santa Franca di Polesine; c’erano i domenicani a Colorno (nella struttura che ha poi ospitato l’ospedale psichiatrico) ed i benedettini a Sanguigna di Colorno (dove oggi sorge l’Antica Grancia benedettina) mentre a Sorbolo l’ex convento di san Cristoforo ha visto alternarsi diversi ordini religiosi. Una “mappa” di sedi di ordini religiosi tra le due rive del tutto parziale, ma sufficiente per lasciar intuire quanto fossero frequenti, un tempo, tra i due territori, conventi e monasteri. A Zibello, terra del culatello, c’erano i domenicani e nell’ex convento che li ha a lungo ospitati, nel tempo si sono susseguite diverse attività: dapprima l’ospedale, poi la scuola media ed infine, oggi, i musei della civiltà contadina e dei reperti bellici dedicati al fondatore, il dottor Giuseppe Riccardi, e il museo del cinema “Il Cinematografo”. Il complesso fu costruito fra il 1494 e il 1510 per volere di Gianfrancesco I Pallavicino, primo signore del marchesato di Zibello. La struttura fu ultimata dalla nuora, la marchesa Clarice Malaspina, che donò al cenobio una tenuta agricola per il proprio sostentamento. Nel 1510 i frati Domenicani si insediarono nel convento, facendo prosperare le attività, creando una ricca biblioteca interna ed ampliando la struttura. Le leggi ducali del 1769 e i decreti napoleonici del 1805 espropriarono i frati della proprietà, che quindi lasciarono definitivamente Zibello. La chiesa ed il lato nord-ovest del convento furono abbattuti ma, fortunatamente, nel 1822 Maria Luigia salvò il complesso, trasformandolo in un ospedale civile per l’accoglienza dei poveri. La struttura è attualmente al centro di importanti lavori di sistemazione e recupero che la porteranno a diventare, ancora di più, un centro culturale ad ampio raggio. Non potrà essere invece recuperata la chiesa, rasa appunto al suolo da decenni. Ma di quella chiesa restano diverse “testimonianze”, compresa una in terra cremonese. Infatti le sue campane suonano oggi sulla torre della chiesa parrocchiale di Pieve d’Olmi. A svelarlo è una ricerca condotta da Gaetano Mistura, ex sindaco di Zibello per tre legislature ma, soprattutto insigne storico locale, da sempre protagonista di importanti ricerche e studi sulla storia del territorio. Proprio Mistura ci ha messo a disposizione una pagina importante di storia, quella legata alla soppressione dell’ex convento domenicano di Zibello, in cui si parla anche delle campane finite a Pieve d’Olmi. Una ricerca che, ben volentieri, si pubblica per esteso, ringraziandolo per la sensibilità e la disponibilità:
“Nella notte tra il 15 e 16 giugno del 1804 – anzi dell’11 “fruttidoro”, Anno XIII dell’Era Napoleonica – (210 anni orsono) il Dott. Angelo Gobbi facente funzioni di “maire” (ossia di sindaco), su incarico dell’Amministratore Generale degli Stati Parmensi, Moreau de Saint-Méry che in loco rappresentava lo Stato Napoleonico, assistito da un segretario e da due testimoni, si recò presso il Convento dei Padri Domenicani di Zibello per ordine del governo imperiale. Dal Padre Priore si fece consegnare i titoli delle rendite, nonché la nota dei sacri arredi. Il convento e la chiesa che vi era annessa vennero spogliati di ogni avere, i monaci (al momento dell’espulsione ve ne risiedevano 11 allontanati ed inviati presso il loro Ordine a Parma donde poi verranno nuovamente espulsi nel 1810. Altro personale al servizio della comunità monastica era costituito da: un cuoco, un campanaio, un cameriere, un carrozziere (conduttore di carrozze), un guattero, un ortolano. Ma perché questo accanimento del governo napoleonico nei confronti degli ordini religiosi? A dire il vero già il Du Tillot, una trentina d’anni prima, aveva intrapreso una drastica riduzione degli ordini claustrali. Poi però, dopo il suo repentino allontanamento da Parma, il duca Don Ferdinando di Borbone restituì ai religiosi il mal tolto ed essi poterono fare rientro nei loro rispettivi conventi. [Il Du Tillot, primo ministro del Ducato di Parma e Piacenza sotto i Borbone, era stato allontanato perché, nonostante i suoi molti meriti, era inviso da una parte alla duchessa Maria Amalia alla quale cercava di frenare le spese pazze che non si risparmiava, ma dall’altra parte era inviso anche alla nobiltà, perché per far fronte alle spese della corte (i Borbone, con in testa la Duchessa sempre avida di denaro), doveva imporre nuovi carichi fiscali, a chi, se non ai nobili? Ma questi non ci stavano e ce la misero tutta per farlo allontanare. Insomma il Du Tillot, che lottava per far quadrare i conti, bastonato da destra e da sinistra e costretto alla fuga, anche se, nel suo periodo migliore, era riuscito a fare di Parma «la piccola Atene», come all’epoca venne definita la città. Un duro giudizio sul Du Tillot lo traccia Don Bartolomeo Zerbini, il parroco di Zibello nel periodo 1866-1874 che nelle sue “Memorie” del primo ministro scrive: «… fu un manutengolo del Filosofismo francese che sotto la maschera di combattere il dispotismo della chiesa tendeva a compiere il suo voto infernale di “strangolare l’ultimo dei re con le budella dell’ultimo dei preti”». Chiusa la parentesi]. Ma torniamo alle leggi napoleoniche in materia di soppressione degli Ordini religiosi, La ragione di tali provvedimenti, ai quali si aggiungeranno in seguito anche le “leggi d’incameramento” del neonato stato italiano volute in particolare dai Savoia per arredare le loro regge, emanate tra il 1866 e il 1867, risiedeva nel fatto che la Chiesa e gli ordini religiosi possedevano, tra l‘ingente patrimonio di vario genere, enormi possedimenti terrieri, andati sempre più aumentando nel corso dei secoli, anche in virtù del fatto che si trattava di immobili inalienabili, in quanto pervenuti loro a seguito di donazioni e lasciti, affrancati peraltro dal pagamento allo Stato di qualsiasi tributo. Un patrimonio immobiliare ingente. Basti pensare che i Monaci benedettini del convento annesso alla chiesa di San Giovanni a Parma potevano raggiungere la loro residenza di campagna presso il convento di S. Maria della neve a Torrechiara senza uscire dalle loro proprietà. I beni mobili ed immobili degli enti ecclesiastici spogliati, venduti - anzi - più spesso svenduti, avrebbero fornito le risorse necessarie per rimpinguare l’erario statale immiserito dalle guerre frequenti e dal mantenimento di eserciti voraci e di corti tanto sfarzose quanto, in larga misura, inutili. I conventi poi potevano essere riconvertiti in caserme, in istituzioni pubbliche e, fortunatamente, anche in scuole e/o collegi e ospedali. A Zibello i Padri Domenicani arrivarono nel 1510 ed andarono ad occupare il convento che Giovan Francesco Pallavicino, marchese di Zibello, aveva iniziato a far costruire, senza tuttavia avere avuto il tempo di vederlo ultimato a causa della morte prematura. Egli però aveva dato disposizione al figlio Federico di completarlo e di dotarlo di una rendita adeguata per i monaci e utile per consentire anche l’elargizione, da parte dei monaci stessi, di una dote annuale a due fanciulle indigenti e la distribuzione giornaliera di un pane ai poveri. Per trecento anni quella fu per i monaci domenicani la loro casa, che essi amministrarono con oculatezza e con saggezza. In essa eseguirono lavori di ampliamento e di abbellimento, come un ciclo pittorico nelle lunette del chiostro, del quale ancora oggi è possibile intravedere qualche lacerto. Nel 1512, poi, un gruppo di quattro monaci di quello che era chiamato il convento di Santa Maria delle Grazie di Zibello andò a fondare la comunità domenicana di Fontanellato, tuttora ben viva ed attiva presso il Santuario della B. V. del Rosario. Al convento era annessa anche una bella e vasta chiesa, vi si celebravano quattordici messe al giorno, era ad unica navata con otto cappelle laterali tra le quali una, ricca di ornati, dedicata a Maria SS.ma del Rosario. Il verbale di requisizione dei beni appartenuti ai monaci è di una meticolosità persino ossessiva. Dapprima vengono elencati tutti i fondi e i poderi di proprietà, nonché gli appezzamenti sparsi, ubicati tra Santa Croce, allora sotto il comune di Zibello e Fontanelle in comune di Roccabianca. Da un memoriale diretto al Principe di Parma si rileva che nel 1634 la proprietà fondiaria era di 279 biolche; al momento della soppressione ne furono confiscate 450. Successivamente vengono elencati tutti gli oggetti rinvenuti nelle stanze interne al convento, elencate una per una. Oggetti legati al vivere quotidiano: botti, tini, damigiane, bigonci, legna da ardere, fascine e poi tavole, tavolini, biancheria, cassettoni, credenzoni. Ancora: pentole, una caldaia in rame, una padella per castagne, una gramola, un buratto. Pagine e pagine dove si trovano annotati, tra altre cose, un letto su d’una lettiera a cinghie consistente in un pagliericcio, due materazzi (sic), due cuscini, un capezzale, una coperta di cotone ed un panno da letto; oppure: un canterano con tre cassetti a forma di scrivania, con finiture d’ottone e serrature, un credenzone di pioppo contenente l’Archivio del convento e perfino “un ordegno con due ruote e tamburini di lamine di ferro da seminare il frumento” e molto altro. Povere cose che si erano andate stratificando nel corso dei trecento anni di vita del convento. Povere cose quali avrebbero potuto trovarsi, all’epoca, nelle case dei nostri avi, prima che la super tecnologia e tutte le diavolerie legate al consumismo giungessero ad invadere le nostre dimore e le nostre vite. Nel corso dell’ispezione si rinvenne anche una cassaforte in ferro. Il Gobbi chiese al Padre priore, che lo stava accompagnando, di consegnarne le chiavi. Il Priore, dopo aver asserito che era vuota, affermò che le chiavi non erano disponibili perché le aveva portate con sé un frate che si era allontanato dal convento. Venne chiamato un fabbro, aprì il forziere, era vuoto! Venne anche minuziosamente redatto l’elenco dei libri asportati dalla biblioteca. E’ difficile dire se fra essi ve ne fossero dei rari o comunque di pregio, dai titoli si evince che si trattava di volumi legati alla vita monastica e sacerdotale, alla vita dei santi, e alla predicazione. Più desolante ancora è l’elenco di quanto asportato dalla chiesa. Paramenti sacri, arredi, quadri, statue, candelieri; persino tende e tovaglie d’altare vengono minuziosamente elencate cappella per cappella. Sappiamo così che la chiesa, oltre alla cappella della Vergine del Rosario di cui si è già detto, era dotata delle cappelle del Crocifisso, del nome di Gesù, di San Domenico, di San Giuseppe, dove si trovava un presepio con statue di legno, di San Vincenzo, di Sant’Antonio di Padova e di Sant’Antonio Abate; vi erano due cantorie, delle quali una con l’organo. Sulla torre un bel concerto di campane, poi acquistato dalla chiesa di Pieve d’Olmi nel cremonese. Vennero nominati dei periti per assegnare ad ogni oggetto il corrispondente valore: un falegname per i manufatti in legno e per il legname da ardere, un sarto per le telerie, gli abiti, i paramenti, le tappezzerie, le tende, le tovaglie ecc. Venne nominato anche un perito orafo per la valutazione della ingente argenteria asportata: complessivamente 827 once. Se, come attualmente, l’oncia all’epoca corrispondeva a 28,34 grammi, si può dedurre che finì nei cesti dell’imperial governo un quantitativo rapportato all’oggi di 23,43 chilogrammi di argento. È lungo l’elenco degli oggetti sacri prelevati: calici, pissidi, turiboli, navicelle, cucchiaini, croci, ostensori, reliquiari, “ammasso di voti d’argento (ex voto offerti per grazie ricevute) di varie qualità trovati qua e là nella chiesa del peso di once ventotto” ed ancora adesso addolora il pensiero che di lì a poco tutto questo sarebbe stato irrimediabilmente perduto, destinato alla fusione per ottenerne moneta sonante. Della chiesa e del convento dei frati domenicani ben poco si è salvato: alcuni quadri e l’altare della Madonna del Rosario che ora si trovano nella chiesa parrocchiale di Zibello e due statue, una di San Pio V° ed una di S. Rosa da Lima che prima ornavano la facciata della chiesa distrutta e che ora si trovano sulla facciata della parrocchiale. Pochi anni dopo la soppressione, la chiesa venne venduta e successivamente abbattuta nel 1812. Il convento invece venne in parte demolito perché diroccante; la parte restante venne dapprima adibita ad alloggio delle Guardie di Finanza incaricate di vigilare il fiume Po, confine di Stato tra l’Impero e la Lombardia. Successivamente, con beneplacito di Maria Luigia venne destinato ad ospedale ed a ricovero dei vecchi. Entrato poi nella disponibilità del comune di Zibello negli anni ’60 dello scorso secolo. Dopo un delicato lavoro di recupero e restauro conservativo, con opportuni adattamenti negli anni ’80 e fino a pochi anni orsono vi trovò sede la scuola media. Ora è in gran parte occupato da spazi museali e un’altra parte è in corso di ristrutturazione e in attesa di nuove destinazioni. Ma alla fine di tutto non si può non pensare ai poveri frati che dopo trecento anni nei quali il convento fu la loro casa, dall’oggi al domani si trovarono privati di ogni cosa, del loro tetto in primis, sotto il quale erano passate, nel corso di trecento anni intere generazioni di confratelli. Già, trecento anni, se ognuno di noi in vita in questo Anno Domini 2025 ripensasse a trecento anni indietro si ritroverebbe nel 1725, sessantaquattro anni prima della rivoluzione francese. Trecento anni fatti di una normalità quotidiana, ma anche di tanto bene morale e materiale donato. Trecento anni nel corso dei quali anche il convento era cresciuto ed era stato dotato di tutto quanto poteva servire per la vita di ogni giorno, piccole, semplici cose, come abbiamo visto, ma dai monaci gelosamente custodite, accudite, che improvvisamente venivano loro tolte e disperse, vendute all’asta, nella migliore delle ipotesi o altrimenti miseramente distrutte. E loro, allontanati, senza un minimo di riconoscenza, di gratitudine per il tanto bene dispensato, allontanati ed inviati al loro Ordine a Parma, da dove poi saranno di nuovo allontanati. Per non parlare della chiesa, il bene più sacro e prezioso per una persona consacrata, alla quale i frati avranno certamente dedicato ogni loro cura e attenzione, dove quotidianamente avranno celebrato messa e pregato, ad ogni ora del giorno e della notte. Non solo spogliata, ma dissacrata, venduta e demolita. Deve essere stata una pagina molto triste per Zibello la soppressione del convento con la chiesa annessa. A noi è pervenuta una parte consistente di questa struttura, che ha avuto nel tempo una sua sacralità, anche successivamente quando è stata destinata alla cura e all’assistenza come ospedale e ricovero con personale religioso ad occuparsene; anche quando è diventata scuola, luogo di formazione, di educazione e di studio per tanti giovani del luogo che serbano ancora un nostalgico ricordo di quel luogo e di quei tempi. C’è da augurarsi che quanti sono e saranno chiamati ad occuparsi della cosa pubblica tengano conto di ciò che l’antico convento è stato ed ha rappresentato per la comunità locale e sappiano utilizzarlo al meglio nel rispetto della sua lunga tradizione. Sic transit gloria mundi. Gaetano Mistura”.
Eremita del Po
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti