"L'inchiesta sul Covid? Non mi stupisce". Così Antonio Cuzzoli primario al Pronto Soccorso nella pandemia. "Grave errore aver chiuso l'ospedale di Codogno, i malati dirottati a Cremona"
"Un'inchiesta sulla pandemia? Non mi stupisce. Da subito mi lamentai pubblicamente di misure sottostimate per il contenimento dell'infezione da Sars-Covid2". Così Antonio Cuzzoli, direttore scientifico della "Città di Parma" e direttore del Pronto Soccorso dell'Ospedale di Cremona durante la pandemia, in una intervista apparsa ieri sulla "Gazzetta di Parma".
L'errore più grave? Probabilmente è stato la chiusura dell'ospedale di Codogno che ha spostato tutti i pazienti della zona verso l'ospedale di Cremona favorendo la diffusione del contagio, dice Cuzzoli. Il medico era in prima linea a Cremona e chi lo ha seguito durante i mesi terribili della pandemia, conosce bene la competenza, l'umanità e lo slancio con cui ha dedicato giorni e notti (27 senza mai uscire dal Pronto Soccorso) in quella lotta impari contro il virus che a Cremona ha fatto oltre 1600 morti. Cuzzoli nelle interviste rilasciate anche nei momenti più terribili ha sempre parlato di errori evitabili. Certamente sono stati giorni eroici e terribili ma il virus si muoveva con le persone e la chiusura dell'ospedale di Codogno ha permesso la propagazione del virus.
Antonio Cuzzoli era al pronto soccorso di Cremona “quando giunse la notizia che sconvolse noi operatori sanitari e che continuo a rivivere da quel 20 febbraio 2020”, ha detto il medico alla "Gazzetta di Parma".
"Nella cronologia di informative che avrebbero dovuto far prendere provvedimenti urgenti a Governo e Regione Lombardia nella Bergamasca, il perito dell'accusa, il microbiologo Andrea Crisanti, cita il 27 febbraio, lei parte dal 20?". Ha chiesto la giornalista Chiara Cacciani a Cuzzoli.
"E' quello il giorno, per noi, drammatico, in cui venne chiuso l'ospedale di Codogno e i pazienti della zona arrivarono tutti a Cremona: troppi per la gestione sanitaria, terrorizzati ed ammalati. Per 27 giorni non uscii dal pronto soccorso. E non perchè fossi indispensabile sul fronte della cura ma perchè era indispensabile tenere il gruppo. Il pronto soccorso sembrava uscire dal racconto della peste del Manzoni. Il collega che visitò la prima paziente, finita in terapia intensiva, è morto. Ho avuto venti medici malati in contemporanea, di cui tre molto gravi", dice ancora Cuzzoli.
"Abbiamo reagito con un grande lavoro di squadra. Facevano due riunioni giornaliere, alle 9 e alle 15, per prendere le decisioni in base all'andamento della situazione, capace di modificarsi di ora in ora. A due giovani caposala, la prima sera feci cercare le mascherine di protezione. Dovevano esserci: la Sars nel 2003 e la Mers nel 2013 avevano solo sfiorato l'Italia ma almeno ci si era attrezzati. E' grazie alle cose non utilizzate allora, se siamo sopravvissuti. - racconta Cuzzoli alla Gazzetta di Parma - Fui il primo a chiedere l'intervento della Protezione Civile: il 21 mattino potemmo aprire il pretriage. La direzione trovò subito mascherine e sovracamici; con un collega infettivologo facevamo giornalmente formazione su come proteggerci. Abbiamo avuto contemporaneamente 60 pazienti in Rianimazione: nella normalità i posti erano 8 più 2 straordinari. In Medicina d'urgenza c'erano 22 pazienti sempre ventilati: ecco cosa vuol dire la modularietà della risposta ospedaliera".
Ma quali erano le altre falle che ha segnalato?
“La Cina ha celato il numero di morti e malati? Le migliaia di dichiarati erano sufficienti a richiedere un protocollo d'azione territoriale, organizzativo e terapeutico. Oltre a isolare in misura quasi dittatoriale ma necessaria le zone colpite, là costruirono un ospedale da mille posti in 12 giorni. Qui li chiusero. L'esempio vincente della prima fase è Vo', in Veneto: aperto un presidio diagnostico e chiuse le vie d'accesso. Prendere l'aperitivo in compagnia, lasciare andare allo stadio migliaia di persone o fuggire dalle zone 'calde' verso altri luoghi è stata follia. Poi c'è la parte che riguarda le terapie". E Cuzzoli racconta ancora: "Alcune ricerche cinesi contenevano già delle indicazioni. Le morti del primo Covid erano causate da un processo tromboembolico: ecco l'importanza dell'eparina che somministrammo nonostante non fosse ancora autorizzata. Ma si sottovalutarono altri tipi di farmaci, anche per questione di costi. Noi buttammo giù un protocollo con la radiologia, fondamentale per la diagnosi della polmonite interstiziale ma anche delle situazioni che preannunciavano un possibile aggravamento clinico. Non erano persone che potevano essere lasciate a casa, in attesa degli eventi: l'assistenza domiciliare partì dopo. In più, processavamo i tamponi anche per i pazienti con sintomi respiratori ma con febbre meno elevata di quella indicata dal Ministero. Ecco queste sono state norme di reale contenimento della malattia. Poi è chiaro è stato uno tsunami spaventoso. Ma intanto non si era voluto prevedere, pensare ad adeguare le strutture ospedaliere, fare piani territoriali: gli unici possibili per gestire una pandemia".
Da medico cosa ha imparato dalla pandemia?
“A curare senza timori burocratici o amministrativi, rispondendo a quello che era un dovere legale, deontologico e soprattutto morale, per dirla alla Kant. Ci siamo liberati di alcuni freni perchè ci siamo resi conto di cosa vuol dire la sanità durante una guerra: intubare le persone nel corridoio, avere 40 persone in uno spazio per dodici, operatori che crollano dopo ore e ore di lavoro ininterrotto, molti che si ammalano, e poi cadere anche. Perchè siamo anche caduti".
Da uomo, invece?
“Mi è rimasto il leggere gli occhi dei pazienti: spesso vedevamo solo quelli e altrettanto loro di noi. Non posso dimenticare una signora che accompagnò il marito in fin di vita. La incontrai mentre correvo nel corridoio e mi bloccò per dirmi ' Mio marito...”Lo portammo dentro insieme a tanti altri, lo stabilizzammo, non morì. Lei tornò e mi disse. 'Dottore, i suoi occhi sono stati per me l'assistenza maggiore'. Scusi se mi commuovo, ma forse è anche per questo che oggi mi occupo d'altro”.
Dall'intervista apparsa sulla Gazzetta di Parma del 10 marzo 2023
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