Le bancarelle di San Pietro, ricordi di un ragazzo degli anni Settanta. Quando montavamo le luci per gli ambulanti
Agli inizi degli anni ’70 mio padre Umberto si era già definitivamente sottratto dal faticoso pendolarismo milanese che aveva connotato la sua vita lavorativa dall’immediato dopoguerra. Perito industriale diplomatosi, come gli altri suoi due fratelli, a “la Punsùna” (così tutti e tre hanno sempre chiamato l’Istituto Tecnico Industriale “Ala Ponzone Cimino”), con un socio soresinese aveva rilevato il negozio e la ditta di impianti elettrici di Amos Zanibelli; sì, proprio lui, il deputato della Democrazia Cristiana. La sede era nella centrale via Genala di Soresina; col tempo il prestigioso nome venne abbandonato e la ditta si chiamò I.E.C.I (Impianti elettrici Industriali e Civili) per poi più avanti trasferirsi in un capannone in via Cremona e divenire IMEL. Avvenne così che la ditta di mio padre vinse per una serie di anni la gara di appalto indetta dal Comune per la fornitura di corrente alle bancarelle su viale Po durante gli ultimi fatidici tre giorni della fiera di San Pietro. Io e mio fratello Paolo avevamo già iniziato le scuole superiori e mio padre si vede che ritenne ormai maturo per noi il tempo per una esperienza lavorativa estiva. Non saprei dire se quella fu proprio la prima, perché un’estate lavorammo al Mulino Rapuzzi e io aiutai anche per gli impianti alla nuova ala della scuola di Ragioneria. Ricordo perfettamente però che la paga era da novella del Verga, che forse manco Ciaula e Rosso Malpelo avrebbero accettato…
E così alle 7:30 del mattino, belli come il sole, io e Paolo eravamo là sul viale Po. La nostra mansione era inevitabilmente di manovalanza nuda e cruda: a gambe divaricate, camminando all’indietro, svolgevamo a braccia le matasse di cavo lungo il viale adagiandole a terra. La matassa nuova aveva un bel peso perchè il diametro del cavo non era piccolo, era dimensionato per costituire la linea di distribuzione della corrente lungo tutto il viale. Una volta allacciata ad una cabina della rete, gli elettricisti guidati dal poderoso Severgnini sollevavano il cavo e con una scala lo fissavano ad un platano. E così, di platano in platano la linea con le sue campate aeree avanzava lentamente da Porta Po verso quella che allora era detta Barriera Po, l’attuale Largo Moreni. In base alla disposizione delle bancarelle, mio padre aveva inoltre stabilito la collocazione di cassette di distribuzione, anch’esse fissate sulle piante, da cui far partire altre linee aeree per far giungere a ogni singolo espositore le prese cui allacciarsi per l’illuminazione. Concettualmente si trattava di un lavoro non complesso, ma le condizioni ambientali del caldo, dell’uso continuo delle scale e della numerosità degli espositori, dunque degli allacciamenti, rendevano necessaria almeno una settimana di lavoro.
Ma oltre alla faticaccia di quei giorni, a fine giornata infatti tornavamo a casa con gli avambracci rossi come peperoni, le bancarelle di san Pietro mi ricordano anche mio zio Odoardo, fratello di mio padre, un personaggio straordinario nella mia famiglia. Lui era “lo zio d’America”, ma quella del Sud. Primo di tre figli maschi, era nato nel 1914 e si era diplomato perito meccanico anche lui all’APC. Si era specializzato negli impianti di produzione di alluminio e nel dopoguerra era andato con la moglie dapprima in Bengala a lavorare con l’Aluminium Corporation of India e poi si era trasferito in Brasile dove lavorò per 25 anni a San Paolo. Con folta chioma e baffi, era una personalità equilibratamente estroversa, piena di iniziative, con noi nipoti fu un affascinante narratore del Brasile, della sua cultura, della sua fauna, delle sue città. Agganciava le persone con la sua naturale simpatia e trasmetteva serietà e serenità. Per questa ragione, una volta terminato e collaudato tutto l’impianto, mio padre mandava lui sul viale a trattare coi commercianti. “Vai tu Odoardo, per favore, che cun te i brutùla mììa e i paga püsèè vulentééra“.
Ogni due anni, infatti, lui e la zia Renata venivano a trascorrere una lunga estate italiana, da giugno ad ottobre. Partivano da Santos in nave e al ritorno si facevano la seconda crociera imbarcandosi a Genova; per anni navigarono con la “Federico C” e in seguito con la “Eugenio C” della compagnia Costa. Ebbene, l’anno in cui veniva a Cremona, anche se fresco d’arrivo, lo zio Odoardo era là, a passare in rassegna tutto il viale con la sua cartelletta rigida e i suoi specchietti coi nominativi dei commercianti, a dar pacche sulle spalle in camicia bianca con le maniche arrotolate, a sedurre con i suoi racconti usciti da sotto i baffi ad ogni viaggio più bianchi, ma anche a porsi con un’autorevolezza dettata perfino da una capigliatura che lui stesso definiva “una criniera”. Lo chiamavano tutti l’ingegnere, molti commercianti si lamentavano nell’anno della sua assenza e mio padre era costretto a garantire la sua presenza per l’anno successivo.
Io e mio fratello eravamo ragazzetti senza competenze precise, però sotto quei platani cominciammo a sviluppare una certa manualità nello spellare i fili, nell’avvitare i morsetti, imparammo come si porta una scala senza faticare troppo, ma anche a portare pazienza, col caldo, con la fatica, con la stanchezza, coi rimproveri… Mi è capitato di passare per le bancarelle di san Pietro con mio padre nei suoi ultimi anni, l’ho visto guardarsi attorno per bene e a volte anche fermarsi in alcuni punti lungo l’impianto a fare tra sé chissà quali considerazioni. Io non ho continuato il suo lavoro, eppure capita anche a me per san Pietro su quel viale di dare qualche occhiata in alto, alle piante, ai cavi, alle cassette, alle prese. E fare qualche considerazione su quegli anni lontani.
Nelle foto alcune immagini in bianco e nero delle bancarelle di 15 anni fa
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commenti
Marco
30 giugno 2024 18:55
È una tradizione che deve mantenuta viva, è un'appuntamento che i cremonesi e non solo aspettano e frequentano sin dalle prime ore del mattino e si fanno anche discreti affari.