Rincari di energia del 461%, post pandemia, rinnovi contrattuali, carenza di personale, adempimenti burocratici, adeguamento delle tariffe regionali: gli enti socio sanitari allo stremo
In un documento firmato da Valter Montini, presidente di Arlea una associazione di livello regionale che rappresenta e tutela gli erogatori sanitari, ecco quello che succede nelle case di riposo ormai allo stremo tra rincari dell'energia, rinnovi contrattuali, post pandemia, carenza di personale e burocrazia.
"Preme innanzitutto precisare chi sono gli enti socio sanitari scriventi: sono le miriadi di organizzazioni che garantiscono sul territorio la presa in carico delle persone fragili, compromesse dal punto di vista clinico, supportando le famiglie nel difficile compito di cura e di accudimento.
Per lo più enti NO profit, con una lunga storia di solidarietà alle spalle che li ha motivati e accompagnati negli anni supportando il servizio sanitario nell’erogazione di servizi anche sperimentando forme innovative, enti che con duttilità si sono adattati al rapido mutamento dei bisogni.
Enti dove gli amministratori, con senso civico e spirito di abnegazione, offrono competenze e tempo anche in forma gratuita.
Sono tutti quegli enti che, superata la fase di acuzie della degenza ospedaliera, accompagnano le persone lungo il decorso della propria fragilità fisica, cognitiva, psicologica.
Parliamo di residenze per anziani, per disabili, per soggetti psichiatrici, per minori per persone con patologie da dipendenza.
Sicuramente le più conosciute sono le residenze per anziani (RSA) e per disabili (RSD) ma ciò non toglie forza a tutti gli altri soggetti che garantiscono risposte al bisogno territoriale.
Allo stato attuale il fenomeno del “caro energia” li ripropone all’attenzione dei media quale emergenza del momento ma è fondamentale una riflessione più ampia, ma rapida in termini decisionali, che porti a scelte lungimiranti con respiro almeno sul prossimo ventennio per garantire la tenuta del tessuto sociale.
Caro energia: bisogna profondere ogni sforzo per evitare che vi sia, in assenza di interventi di livello centrale e regionale di supporto, un rialzo della quota di compartecipazione alla spesa da parte delle famiglie già di loro provate dai rincari non solo delle utenze ma dei beni di consumo in generale. Il potere di acquisto delle famiglie si è ridotto e l’impossibilità di accedere a servizi residenziali e semi residenziali di supporto all’azione di accudimento comporterà una riduzione di richiesta degli stessi, una rivisitazione dei ruoli di cura, un maggiore accesso a forme di ammortizzazione sociale e di utilizzo delle forme di sostegno da parte degli istituti previdenziali.
La riduzione di richiesta di servizi si tradurrà inoltre in minore occupazione nel settore e in una regressione culturale rispetto al ruolo femminile da sempre chiamato – non per vocazione – al ruolo di accudimento.
Da un’analisi effettuata tra le nostre associate sappiamo che il consumo medio di energia elettrica a posto letto ammonta a 3719 Kw/h. Prendendo come riferimento il PUN di agosto 2022 (0.637) su agosto 2021 (0.112) l’incremento è pari al 469% con conseguente maggiore spesa di 1.954 euro per ogni posto letto. Il che significa che una struttura con 100 posti letto deve fronteggiare un maggior esborso pari ad euro 195.404 che si traduce anche in una maggiore esposizione finanziaria.
Il consumo di energia calore è invece pari a Smc 920 a posto letto. Raffrontando i prezzi del terzo trimestre 2022 su pari periodo 2021 (Fonte:Arera) l’incremento è pari al 461%. Il tutto si traduce, su una struttura di 100 posti letto in un maggior esborso pari a 71.000 euro con la consapevolezza che da ottobre 2022 tale dato è destinato a raddoppiarsi.
Il tutto si traduce, nella migliore delle ipotesi, in un maggior costo pari a minimo 8-9 euro die per ogni posto letto.
Il recupero delle perdite accumulate dall’inizio dell’anno comporterebbe un incremento della quota giornaliera variabile dai 10 ai 20 euro die che le famiglie non possono supportare e sopportare.
Post pandemia: le strutture socio sanitarie scontano più di ogni altra impresa gli effetti derivanti dalla pandemia. Gli elementi di maggior impatto sono rappresentati dall’obbligo vaccinale che ha imposto di sospendere dal lavoro il personale che aveva scelto di non aderire alle campagne vaccinali; dal perdurare della fase di transizione dell’emergenza – per ora procastinata al 31 dicembre - la quale impone l’attuazione di un assetto organizzativo interno di maggior impegno; dallo stress che grava sui lavoratori derivante da procedure rigide volte a contenere e prevenire il diffondersi di infezioni interne all’organizzazione. Non ultimo una relazione con l’utenza e con la rete parentale più complessa e articolata.
La conseguenza dello stress dettato dal periodo pandemico e post pandemico è un innalzamento dell’indice di assenza per malattia: questo nonostante le azioni di contrasto al minor benessere psico fisico attuate in vario modo dagli enti gestori.
Va da sé che dette assenze hanno ricadute importanti su copertura dei servizi e costo degli stessi.
Rinnovi contrattuali: pressoché tutti gli enti hanno subito – negli ultimi tre anni - o subiranno entro fine anno, gli incrementi dettati dalla chiusura doverosa, della negoziazione dei contratti nazionali di lavoro. Contratti estremamente frammentati a livello nazionale non competitivi rispetto ai contratti di derivazione pubblica. L’esodo verso strutture pubbliche che garantiscono, a parità di impegno lavorativo maggiore remunerazione, è di fatto una scelta non contestabile a tutte quelle persone che non possono fronteggiare l’aumento del costo della vita esclusivamente con la motivazione personale della solidarietà.
Parimenti si assiste ad una forte mobilità orizzontale, sempre motivata da questione economiche, alla ricerca del posto di lavoro che garantisca maggiore stabilità e maggior riconoscimento economico.
L’impossibilità di addivenire ad un contratto di settore – auspicabile anche per il governo della spesa socio sanitaria – accelera una competitività tra enti basata esclusivamente sul costo del personale che rappresenta per gli enti erogatori di servizio oltre il 65% della spesa complessiva. Per gli enti di grandi dimensioni, con oltre 200 posti letto, il costo del lavoro è superiore al 67%.
Carenza di personale: all’esodo verso strutture maggiormente remunerative si accompagna l’impossibilità a reperire sul mercato del lavoro le figure professionali necessarie per erogare i servizi e la sostituzione delle figure mancanti. Medici, infermieri, operatori assistenziali e tutte le figure socio sanitarie sono carenti a seguito di una mancata programmazione nazionale e regionale. Cosa già saputa da tempo stante le proiezioni che nell’ultimo decennio non sono state accompagnate da adeguate scelte negli indirizzi formativi e nelle forme di sostegno alla formazione.
La questione rischia di impattare in modo grave sull’assistenza ai soggetti presi in carico dalle strutture. Se, ad esempio, nelle RSA nel 2019 – anno precedente alla pandemia – la media di minuti assistenziali si attestava intorno ai 1205 settimanali procapite (pari al 33.4% in più da quanto richiesto dalla normativa regionale) è plausibile ritenere che la carenza di personale possa ridurre in modo sensibile l’assistenza diretta rivolta alla persona in un momento in cui si rende necessario un incremento per fronteggiare la maggiore complessità clinico assistenziale.
Corsi universitari a numero chiuso che non hanno tenuto conto del reale fabbisogno e corsi professionalizzanti, il cui costo è a carico del discente, hanno caratterizzato gli ultimi 10 anni creando un vuoto nelle figure indispensabili per la rete dei servizi socio sanitari.
La carenza di personale si traduce anche nella difficoltà a garantire giornate di recupero psico fisico incrementando lo stresso post pandemico di chi è impegnato in un lavoro di cura che necessita anche di capacità di ascolto, accoglienza ed empatia.
I dati sull’occupazione del settore evidenziano che, ad esempio, per ogni posto letto di RSA sono occupati 0,65 professionisti socio sanitari e 0,35 figure professionali accessorie (ristorazione, pulizie, lavanderia, amministrazione) a cui si somma l’indotto per manutenzioni di immobili, impianti e attrezzature
Adempimenti burocratici: nel tempo si è assistito ad un costante appesantimento degli obblighi derivanti dall’applicazione normativa: dall’applicazione del D. lgs 231/01; alle norme sulla sicurezza, a quelle sulla trasparenza, al debito informativo verso il sistema sanitario, alla tenuta della documentazione clinica, al risk management. Senza escludere tutti gli aspetti inerenti i rapporti di lavoro, la materia giuslavoristica e gli aspetti fiscali.
Alla richiesta di maggiori adempimenti non è stato di contro mai riconosciuto il corrispettivo a copertura dei maggiori oneri prodotti.
Adeguamento delle tariffe regionali: se pur si deve riconoscere lo sforzo fatto per incontrare parzialmente i maggiori costi, in particolare quelli sostenuti nel periodo pandemico, è innegabile che le tariffe proposte non sono allineate agli effettivi costi sostenuti e ai bisogni degli enti e degli utenti. È infatti di tutta evidenza che il ricorso ai servizi – in particolare residenziali e soprattutto quelli dell’area anziani – è concentrata oggi su una fascia di popolazione a maggiore compromissione clinica e assistenziale cui conseguono necessità a maggior carico di lavoro, maggiore specializzazione e tempi di lavoro più ampi.
Gli standard assistenziali, rispetto alla richiesta regionale, sono stati nel tempo innalzati in autonomia dagli enti al fine di adeguare il servizio agli effettivi bisogni senza riscontrare di contro l’adeguamento delle tariffe regionali.
Le strutture si sono inoltre adeguate alle nuove richieste e ai nuovi bisogni accettando quell’utenza atipica, che non poteva più essere accolta in lungo degenza ospedaliera, garantendo una risposta a costi più contenuti ma a pari impegno assistenziale.
Quali ricadute?
La mancata tenuta della rete socio sanitaria in cosa si può tradurre? Una importante rivisitazione delle quote di compartecipazione a carico del cittadino (le famose “rette”) che impatto avrebbe?
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Sicuramente in una prima fase un incremento dei contenziosi dovuti ad insoluti dei crediti con conseguente necessità di ricorrere al mercato finanziario per far fronte ai pagamenti di fornitori e personale con conseguente aggravio di costi dovuti agli interessi in un periodo sicuramente non favorevole all’indebitamento sia di breve che di medio periodo;
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La chiusura o la riduzione dei servizi con grave disagio per le famiglie, che si troverebbero costrette a scelte di accudimento alternative, se non in grado di fronteggiare il maggior costo richiesto con conseguente iniquità di accesso ai servizi
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Minore occupazione, in particolare femminile, stante che l’80% dell’organico è rappresentato da donne e di conseguenza minore reddito famigliare;
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Maggior ricorso agli ammortizzatori sociali per lavoro dipendente;
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Maggior ricorso a indennità volte a favorire la funzione di accudimento quali ad esempio il ricorso al
congedo straordinario di cui al D. Lgs 151/2001;
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Incremento degli accessi presso le strutture per acuti con aggravio della spesa sanitaria pubblica.
In altri termini si sta configurando lo scenario di una involuzione del sistema di protezione sociale nei confronti delle famiglie e del genere femminile e comunque un aggravio di costi generali a carico della spesa pubblica.
Le richieste degli enti socio sanitari
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Interventi di ammortizzazione dei maggiori costi derivanti dal “caro energia”: per evitare aumenti della quota di compartecipazione alla spesa e a prevenire l’abbandono dei servizi caricando nuovamente sulle famiglie il compito di cura gravando sulle relazioni interne alle stesse, impegni lavorativi e ruoli di genere;
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Una deroga temporanea rispetto alle figure professionali stante l’impossibilità a reperirne sul mercato del lavoro o comunque l’introduzione di deterrenti volti a limitare l’esodo verso le strutture per acuti in particolare pubbliche
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Una contrattazione che adegui i livelli remunerativi di settore livellando i trattamenti tabellari per ridurre l’esodo determinato dagli aspetti meramente economici evitando di innescare una
“competizione di mercato” esclusivamente sulla forza lavoro stante che si parla di servizi normati da
LEA, LIVEAS, LEPS
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Il riconoscimento da parte della Regione dell’effettivo costo giornata, anche tenuto conto del
precedente punto, calcolato non tanto sulla capacità di effettuare economie di scala o risparmi da parte del singolo ente ma sull’effettivo impegno assistenziale richiesto per rispondere all’evidente bisogno espresso della popolazione assistita nonché dei costi correlati per attrezzature, organizzazione amministrativa, adeguamento degli immobili.
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Una corretta e puntuale programmazione del fabbisogno formativo al fine di immettere sul mercato del lavoro le figure che lo stesso richiede
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Fermo restando l’adempimento degli obblighi derivanti dal sistema di accreditamento, cui consegue il debito informativo nei confronti del sistema sanitario, ridurre con tempestività gli oneri burocratici che gravano sul lavoro quotidiano del personale tecnico, amministrativo, dirigenziale e socio sanitario. Utile ad esempio ricordare che ai sensi dell’art. 264, co. 2 del DL 34/2020 non è consentito alle amministrazioni pubbliche chiedere la produzione di documenti di cui sono già in possesso.
Gli enti No profit hanno saputo nel tempo, a volte con storie centenarie, accompagnare il servizio socio sanitario territoriale affiancandolo anche attraverso politiche di contenimento dei costi grazie molto spesso a campagne di sensibilizzazione che hanno saputo smuovere diverse forme di solidarietà orizzontale.
Tutto questo oggi non è più possibile.
Ciò oggi non è più possibile e ci chiediamo se la scelta di chi governa la sanità sia effettivamente quella di imporre un sistema di sanità commerciale e, soprattutto, se i cittadini che nel futuro dovranno avvicinarsi ai servizi sono stati preparati a questo.
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Il Presidente Arlea pro tempore
Dr. Valter Montini
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