13 novembre 2021

Taglio del nastro per la Festa del Torrone, grande animazione in città. Vi raccontiamo la vera storia del dolce simbolo di Cremona nel mondo

Con il taglio del nastro davanti alla pagoda dei giardini pubblici di piazza Roma, da parte del sindaco Gianluca Galimberti, alla presenza dei rappresentanti delle organizzazioni del commercio, del Prefetto Vito Gagliardi, di Stefano Pellicciardi di Sgp Eventi, l’assessore Barbara Manfredini ed il presidente del consiglio comunale Paolo Carletti, si è ufficialmente inaugurata questa mattina la tradizionale kermesse della Festa del Torrone. Ma già le prime ore della giornata sono state caratterizzate da una grande animazione con una notevole presenza di turisti, che hanno affollato i banchi degli espositori, l’Infopoint del palazzo comunale, la salita al Torrazzo ed il Museo del Violino. Grande lavoro per il Crart che ha dovuto in alcuni casi triplicare il numero delle guide per soddisfare le richieste soprattutto a parte di turisti singoli, non organizzati in gruppi.

Ma, approfittando dell’inizio della festa, vogliamo ora raccontarvi la vera storia di come è nato il dolce simbolo di Cremona nel mondo.

Quando, secondo la leggenda, quel lontano 25 ottobre del 1441 il torrone comparve sulla tavola degli invitati al matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, non era certo la prima volta. Il dolce era sicuramente ormai noto da secoli ai cremonesi. Addirittura da millenni, se dobbiamo credere a Tito Livio, che racconta come una barretta dolce a base di semi oleosi, miele e albume, chiamata “cuppedo” fosse l'alimento abituale dei soldati durante le lunghe marce. Marco Terenzio Varrone nelle Satyre Menippeae, composte tra l'80 ed il 46 a.C., racconta che la “cuppedo” sarebbe stata inventata dai Sanniti. Ma è il solito Apicio, il gastronomo per eccellenza, che nel De Re Culinaria descrive la ricetta di un dolce preparato con noci, miele e albume d’uovo, chiamato nucatum che i Romani potrebbero aver mutuato dal medio oriente ellenistico, dove, già prima dell’Islam esistevano dolci secchi fatti con mandorle o granella di noci e nocciole, farina e miele. E' proprio con l'espansione islamica irradiatasi nel Mediterraneo dalla penisola arabica, che la medicina islamica, erede della medicina greca e persiana integrata con nuove scoperte, diffuse nel mondo occidentale l'interesse verso il cibo in riferimento alla cura del corpo. Tra il IX e il XII secolo, dall’Andalusia a Baghdad fiorirono i manuali della buona salute e i compendi di medicinali composti o di alimenti usati come medicinali semplici inaugurati dal Canone di Avicenna. Nel corso dell’XI secolo due medici arabi, ibn Butlan e ibn Jazla compongono due manuali di interesse medico in cui inseriscono una serie di vere e proprie ricette. Re Manfredi cura in Italia meridionale la versione del Taqwim as sihha di Butlan, che prende il nome di Tacuinum sanitatis. Mentre Carlo I d’Angiò si dedica al Tacuinum aegritudinis di Jazla. Il minhaj al-bayan di Jazla viene poi compendiato da Giambonino da Cremona in lingua latina a Venezia verso la fine del XIII secolo. Agli inizi del Trecento la compilazione di Giambonino viene inserita in una raccolta miscellanea per Carlo II d’Angiò in cui compaiono anche gli altri due libri di cucina che viene poi trasferita verso la fine del secolo in Francia presso il duca di Berry che a sua volta nel 1404 la dona ad una fondazione religiosa. Contemporaneamente in Italia settentrionale sulla base del Tacuinum di Butlan si compilano il Tacuinum Sanitatis illustrato con le miniature di Giovannino de’ Grassi e nel Quattrocento si traduce in tedesco il Liber de ferculis di Giambonino in una università dell’Italia settentrionale, probabilmente Padova. Nel XVI secolo, infine, a Damasco Andrea Alpago utilizza il testo arabo di Jazla per compilare un glossario arabo-latino al Canone di Avicenna, la “Interpretatio arabicorum nominum”  stampata a Venezia nel 1527, mentre nel 1532 Schott pubblica a Strasburgo i Tacuini di Butlan nella versione integrale in latino a cui fa seguire l’anno seguente quella in tedesco. Capiamo così come, quando non è sufficientemente spiegata una preparazione in uno di questi testi, possa venire in aiuto il confronto con opere analoghe dello stesso contenuto. E' proprio nei trattati di Ibn Buṭlān e Ibn Jazla, a cui si aggiunge in Andalusia il Libro dei medicinali semplici di Abenguefith Abdul, che si trovano le ricette di un tipo di dolce secco che è il diretto precursore del moderno torrone. Nelle Tavole della Salute di Butlan e nel Cammino dell'esposizione di Jazla (cristiano convertito all’Islam), composte nel califfato abbaside di Baghdad nell’XI secolo, nella parte riservata ai dolci secchi compare il Chaloe (in arabo halawa), di origine greca, indicato per febbri, tosse o dolori reumatici: dalla ricetta risulta preparato con noci, mandorle o pistacchi e aromatizzato con spezie. Manca l’albume, ma la variante bianca è ottenuta tramite la lavorazione dello zucchero, come si legge nel Compendio delle vivande (Kitab al-Tabikh) del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo: «Sciogli lo zucchero in acqua e fallo addensare bollendo, poi versalo su un piano, battilo e tiralo finchè diventa bianco, impastaci pistacchi o mandorle, taglialo in stecche o rombi e dallo a chi vuoi».

In Andalusia Abenguefith Abdul Mutarrif, medico e farmacista nel Libro dei medicinali semplici, tratto da Dioscoride e Galeno, nel descrivere le virtù terapeutiche del miele, cita un dolce che chiama “turùn”, composto di mandorle tostate, miele, zucchero e acqua di rose, ricoperto da una sottilissima cialda, indicato per febbri, patologie polmonari e dolori reumatici. Il Libro dei medicinali semplici viene tradotto dall'arabo in latino a Toledo da Gherardo da Cremona tra il 1135 e il 1170. Quando Gherardo morì, la sua ricchissima biblioteca di testi arabi fu trasportata a Cremona, nel convento di Santa Lucia. Il compendio arabo contenente la ricetta del Turùn nella versione latina di Gerardo divenne “Liber Abenguefiti de virtutibus medicinarum simplicium et ciborum”. Il manoscritto originario è conservato alla Bibliotheque Nàtionale di Parigi ma una copia è conservata alla Biblioteca Statale di Cremona, inclusa nella versione a stampa di Johann Schott (impressa a Strasburgo nel 1532) che contiene, come abbiamo visto, anche le Tavole di Ibn Butlan e i Taccuini della Salute di Ibn Jazla.

Il torrone dunque era certamente conosciuto a Cremona ben prima del matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, attraverso la mediazione dei traduttori dall'arabo, i commerci con la Spagna e l'Oriente arabo, senza dimenticare l'antico cibo energetico latino e, dunque, come altre preparazioni gastronomiche, frutto di un'originalissima contaminazione. Vi è poi chi ha creduto che lo stesso termine “torrone”, anziché da un'improbabile torre, possa derivare dal termine spagnolo turròn, deverbativo di turrar (“tostare”) a sua volta derivante dal verbo latino torreo che significa «seccare, tostare, abbrustolire». E' possibile che il termine spagnolo turùn, dal latino torreo, sia stato utilizzato dagli arabi del califfato di Cordova per quel dolce conosciuto variamente come qubbayt (o qabitqabut, “mandorlato”), oppure in Sicilia come giuggiolena (con riferimento al sesamo), o halawa attingengolo dal volgare spagnolo, derivante a sua volta dal latino.

Nulla di strano: le contaminazioni con il mondo arabo a Cremona sono piuttosto frequenti ed investono diversi settori. Ad iniziare proprio dalla gastronomia. Nel “liber de ferculis” di Giambonino da Cremona, traduzione in latino di un estratto della monumentale enciclopedia scritta a Bagdad da ibn Jazla nella seconda metà dell’XI secolo, sul finire del XIII secolo troviamo per la prima volta la descrizione di un tipo di pasta ripiena, il sambusuch, che è il diretto precursore dei moderni ravioli e dei più nostrani marubini: il sambusuch, una pasta di forma triangolare destinata ad essere farcita con un ripieno di carne per poi essere lessata o fritta. Per il ripieno viene usato un altro termine: Mudacathat, che Giambonino così descrive: “E’ migliore perché è fatta con carne di montone: ed è calda e umida e rafforza il corpo e conviene a quelli che sono consunti per stravizi o per lavoro o per afflizione o angoscia o paura e provoca nausea, e il suo danno si rimuove con acqua di sommacco. E si fa così, ed è chiamata mudacathat di canfora: prendi petti di gallina e tagliali in piccoli pezzetti e aggiungici una libbra di carne di montone e tagliala con un coltello in piccoli pezzetti e mescolaci 20 dracme di grasso di pollo ovvero strutto di pollo, e rimestalo nella pentola fino a che il grasso si sia ben mescolato con la carne, e aggiungici 2 dracme di salgemma e 20 dracme di cipolla bianca tagliata fina, e un poco di coriandolo e cannella, e quando ti sembra che abbia un buon sapore, aggiungici una libbra di acqua, e fai bollire finchè sua mezzo cotto; e poi prendi 30 dracme di mandorle pelate e pestale con acqua di rose facendole  diventare come latte, e aggiungilo e mescolalo nella pentola, e getta nella pentola un pugno di ceci puliti e un sacchetto di lino in cui sia racchiuso comino e zenzero pestati, e quando è cotto versaci sopra due uova sbattute e mescola; e dallo a chi vuoi”.

E’ possibile che Giambonino possa essere un prosecutore di Gherardo, anche se lavora e traduce a Venezia che, peraltro, ha intensissimi contatti commerciali con Cremona. Quasi sicuramente era un medico, come attesta il titolo di “magister” che gli viene attribuito in calce al manoscritto ed esperto della lingua araba, anche se è possibile si facesse affiancare da un parlante di madrelingua, forse un mercante, che potesse aiutarlo nel reperire l’esatta corrispondenza degli ingredienti, delle spezie o delle erbe. Anna Mantellotti colloca la stesura del liber intorno agli ultimi trent’anni del Duecento e ne fa un episodio isolato che non si inserisce in una scuola di traduttori ma piuttosto in quella cultura medica nata negli ambienti universitaria di Padova e Bologna. A questo proposito Enrico Carnevale Schianca propone di identificare il nostro Giambonino con il medico Zambonino da Gazzo, insegnante di filosofia all’università di Padova nella seconda metà del Duecento e morto nei primi anni del secolo successivo.

Le vicende storiche attraversate dalla città testimoniano una frequentazione continua con l'oriente. Rapporti costanti si hanno a partire dal 1090 quando, in Terra Santa, si alternano per qualche tempo governatori cremonesi e, dal 1155, la città ottiene il diritto di battere moneta, tolto a Milano, il che significava possibilità di controllare il traffico delle materie prime destinato ai mercati locali e transalpini. Gli interessi commerciali condizionarono la storia di Cremona per tutto il corso del XII secolo. La perfetta integrazione tra commerci terrestri ed il controllo delle vie d'acqua fluviali, ottenuto mediante alleanze e trattati con le città vicine, uniti al caposaldo in Terra Santa e all'autonomia comunale protetta dall'autorità imperiale con un sodalizio che durava ormai dai tempi del Barbarossa, costituirono gli elementi che permisero alla città di raggiungere, tra il 1226 e il 1267, l'apice della potenza economica. Durante la signoria del Pallavicino i mercanti cremonesi figuravano tra i frequentatori abituali delle fiere di Champagne, e tramite navi di Venezia, Genova e Pisa, dei mercati di Barcellona, Valenza e Maiorca, giungendo fino a Costantinopoli, dove l'ufficio di cambio era diretto allora da due cremonesi. Condizioni particolarmente favorevoli avevano poi spinto i mercanti di Montpellier a scegliere fin dal 1254 la città padana come caposaldo delle operazioni con l'Adriatico e gli stessi trafficanti toscani ed umbri avevano costituito qui un polo mercantile per le stoffe di Valenza e Londra.

Ma soprattutto Cremona era la corte del più grande mediatore culturale del Medioevo, Federico II, che nella città, diventata il quartier generale dell'esercito imperiale già prima della battaglia di Cortenuova del 1249, soggiornò almeno diciotto volte a partire da quel luglio 1212 quando, appena diciassette e braccato dai milanesi, fu salvato ed accolto dai cremonesi. Costante nell'esercito di Federico era la presenza degli arcieri saraceni che, per testimonianza dello stesso Pier Delle Vigne, a Cortenuova combatterono accanto ai cremonesi, armati delle loro lunghe picche. E sicuramente, nella metà del XIII secolo, non ci si stupiva di vedere girare per le strade di Cremona l'elefante di Federico con il suo codazzo di assistenti arabi, medici, gastronomi, guerrieri, architetti e scienziati. Una presenza che, sicuramente, è stata fondamentale anche per lo sviluppo culturale e artistico della stessa città. Il Torrazzo, diretta derivazione da minareti realizzati nell'area magrebina e spagnola intorno alla fine del XII secolo, ne è l'esempio più fulgido.

foto di Gianpaolo Guarneri-Studio B12

Fabrizio Loffi


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