7 agosto 2024

Fraschini da Pizzighettone: il fantasma di Lanzi inseguito per un decennio

Cremona è stata la culla di una lunga teoria di mezzofondisti di grande valenza e che ha avuto notevole continuità con i vari Italia, Santi, Dorascenzi, Castellini, Fontanella e nell’ultimo di questi grandi personaggi, Mario Fraschini, il rappresentante sicuramente più valido: una grande scuola che si è purtroppo andata esaurendo negli ultimi decenni.

Fraschini arrivò quasi per caso all’atletica, come molti del resto, ma riuscì ben presto ad imporre la propria forza su tutte le piste della Penisola in un periodo in cui, oltre tutto, il mezzofondo italiano poteva vantare alcuni tra i migliori esponenti del Continente.

Come tanti ragazzi del suo tempo, s’era scoperto atleta a scuola, nell’autunno del 1956 vincendo la corsa campestre ai campionati provinciali studenteschi. Indossava quella maglietta gialla del Beltrami che per tutti gli studenti-atleti di quel periodo costituiva un vero incubo.

Subito dopo la partenza scomparve alla vista di tutti e chi di atletica s’intendeva, comprese immediatamente che in quel ragazzo smilzo e longilineo che veniva da Pizzighettone, c’era della stoffa. Certo, c’era da lavorare parecchio, ma Ernesto Guarneri, storico preparatore degli atleti della SAC, non si lasciò sfuggire l’occasione e nella primavera seguente, dopo qualche proficuo allenamento, riuscì a portarlo a correre i gli 800 m. in 1’59”: niente male, ma il nostro avrebbe cominciato a prender sul serio l’atletica solo nella stagione seguente.

Madre natura lo aveva evidentemente dotato di una complessione fisica straordinaria, da corridore nato, subito in grado di esprimersi a livelli inconsueti per un principiante, quasi senza aver prima affrontato una preparazione specifica. Quando, infatti Guarneri, “Brillantina” per tutti gli amici appassionati di atletica cremonesi, cominciò a prendersene cura, capì che il suo lavoro sarebbe stato solo quello di affinare le straordinarie doti motorie che la sua macchinaatletica già possedeva. Servivano molta applicazione ed attenzione, ma anche queste erano doti che il ragazzo mostrava pian piano di possedere: su di esse si potè basare una crescita costante di rendimento, un progresso continuo. Nello stesso anno dell’esordio, Guarneri, che era soprattutto allenatore dei velocisti, lo indirizzò verso il giro di pista. Ottenne in probante 52”1 che già era sintomo di una carriera che avrebbe potuto svilupparsi sulle due distanze. Apparteneva ancora alla categoria Juniores quando affrontò per la prima volta i Campionati Italiani Assoluti: due terzi posti gli valsero la prima convocazione in nazionale, a Chambery contro la Francia, accanto a lui un altro portacolori della SAC, Sandro Sandri.

L’anno successivo, il 1959 fu quello dell consacrazione ai livelli più alti. Nonostante gli impegni scolastici (era l’anno della maturità) trovò il modo per eccellere: gli amici di Pizzighettone lo vedevano ogni giorno sgambare lungo gli argini dell’Adda, ai bordi dei campi, spesso alle prime luci dell’alba, prima di prendere il treno per andare scuola a Cremona. Quelle fatiche durissime, lungo tutto l’inverno, lo assuefaranno a fatiche ancora più dure, gli rinforzarono muscoli e tendini, ma soprattutto il carattere.

“Rico”, come lo chiamavano da sempre gli amici, aveva trovato nella fatica e nella corsa la sua dimensione: nebbia e ghiaccio, fango e pioggia neppure sembravano infastidirlo. Vederlo correre con le incrostazioni di ghiaccio tra i capelli e gli abiti madidi di sudore, era diventata una visione normale, ma quella fatica lo stava forgiando dandogli uno scopo nella vita, un modo di esprimersi per dimostrare quanto valesse.

L’esplosione, sua e di Livio Berruti ai massimi livelli, diede uno scossone al mondo tranquillo dell’atletica che stava guardando, senza grandi ambizioni e speranze, in quel momento almeno, alle Olimpiadi di Roma.

L’occasione propizia arrivò per “Rico” in una serata di fine aprile a Piacenza, Stadio di Porta Genova: pista non bella, poco scorrevole, già piena di buche quando scese in pista, Fraschini sferrò in quella notte, un insolente quanto incosciente attacco a quello che allora era il più vetusto primato italiano dell’atletica.

Lo aveva stabilito vent’anni prima Mario Lanzi all’Arena di Milano (15 luglio 1940) sugli 800 m. con il tempo di 1’49”. Lanzi lo aveva ottenuto correndo nella scia del tedesco Harbig che con 1’46”6 aveva stabilito un incredibile record del mono che anticipava i tempi di almeno un decennio.

Lanzi avrebbe vendicato quella sconfitta con una duplice vittoria sul tedesco il 29 settembre a Como ed il 21 giugno dell’anno seguente a Bologna ove ancora una volta aveva ottenuto il record nazionale: quel record pesò come un macigno su tutta la carriera di Fraschini che lo inseguì disperatamente, ma riuscì solo a sfiorarlo.

Quella notte a Piacenza, Mario reduce da un 1200 appena corso a Piacenza, provava sensazioni notevoli. Scrisse Gian Mario Dossena sulla “Gazzetta dello Sport. “La sua corsa ricordava mezzofondisti autoritari e zeppi di energie visti nel Nord dell’Europa. Ricordava l’inglese Derek Johnson. Alla sua corsa si può forse rimproverare una certa mancanza di decontrazione nella fase iniziale, come un segno di leggera preoccupazione, un’ombra costante di autocontrollo, però un tale atteggiamento aderiva alla necessità dell’azione solo più avanti, quando la gara inaspriva e richiedeva un elevato grado di tensione”.

Il 10 luglio Fraschini e Baraldi, d’accordo, tentarono inutilmente di ripetere il miracolo di Lanzi, ancora all’Arena di Milano: volevano cancellare quel record che ha tormentato “Mirko” sino al giorno in cui, dopo aver vinto sette titoli italiani, aver indossato una ventina di maglie azzurre partecipato ad una Olimpiade, decise, a venticinque anni soltanto, di lasciare l’atletica per dedicarsi al lavoro e alla famiglia, Aveva già stabilito il minimo per staccare il biglietto per Tokyo. Era sulla cresta del- l’onda. Quel primato che per almeno quattro anni era stato alla sua portata, avrebbe avuto qualche tempo dopo un nuovo padrone che lo avrebbe fissato in un’altra notte magica ancora all'Arena: era Marcello Fiasconaro.

Nel 1960. chiamato alle armi, Fraschini aveva indossato la maglia amaranto delle Fiamme Oro di Padova. Fu un periodo proficuo: oltre ai titoli italiani ottenne un altro prestigioso 1’49”4 sugli 800 m. e scese sotto i 47” sul giro di pista che lo portò a far parte della staffetta 4x400 a Roma. Era ormai un uomo di punta dell’atletica azzurra e, terminato il servizio militare, entrò nel Gruppo Sportivo Carpano di Torino i sieme a Livio Berruti (erano, in pratica, i primi professionisti dell’atletica italiana) mentre l’Adidas, che muoveva i primi passi nel mondo delle sponsorizzazioni, offriva a lui ed al campione olimpico della velocità le prime scarpette fatte su misura.

Furono proprio loro a dare i primi consigli al fabbricante, a sperimentare la produzione, a testare il proprio rendimento con decine di paia di scarpe d’ogni tipo quasi ogni giorno.

La nuova situazione gli giovò anche se probabilmente ebbe il suo peso un errore sulle scelte tecniche che ne potrebbe aver condizionato il rendimento: l’aver troppo puntato sui 400 m. per i quali forse non aveva (ma è il senno di poi) la velocità di base necessaria a crescere oltre un certo limite. Scese, infatti, sino a 46”, un decimo dal fatidico record di Lanzi, ma l’errore fu probabilmente giustificato dai miglioramenti continui che riusciva a registrare nella prova veloce e dal fascino indubitabileche la gara sul giro di pista esercitava su di lui.

Bisognava limare solo un decimo per entrare nella storia dell’atletica italiana, anche se c’era sempre da considerare che il record di Lanzi era stato ottenuto su di una pista di 500 metri. Il vero primatista, quindi, poteva considerarsi proprio lui. Ma gli allenamenti ferrei di molti anni, le forti tensioni delle gare a livello internazionale sempre affrontate con il massimo impegno, sembravano averne fatto un corridore stanco, sempre di buon livello, ma con le batterie che andavano esaurendosi e “Rico” da atleta e uomo intelligente se ne avvide.

Alla fine ’63, con un 48”1 che per lui era una prestazione abbastanza normale, ottenne il pass per le Olimpiadi di Tokyo. Sembrava un’annata di transizione in attesa di sparare tutto in Giappone, ma era stato il segnale di quel calo psicologico che da tempo avvertiva dentro di se. La Snam gli offriva, oltre che un posto nella squadra, quello di ragioniere che gli dava la possibilità di sfruttare il suo diploma e guardare con sicurezza all’avvenire.

Anche il matrimonio bussava alle porte così disse addio ai vecchi amici, alle piste rosse, agli argini dell’Adda. In silenzio, con la consapevolezza di aver dato forse più di quanto avesse ricevuto.

Cesare Castellani


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commenti


ennio serventi

13 agosto 2024 07:06

Santi, nominato fra i mezzofondisti di valenza, penso che si lo stesso che alla Baldesio, verso sera, radunava i ragazzi e li portava a correre con lui sugli argini. Di loro ricordo Cornelio Bertazzoli che fu valente pittore. Massiccio di corporatura occupava, in prima posizione, tutto il sentiero. Invano tentavo di superarlo, da dietro Santi mi incitava invano: "dai, dai passel fora!! LI ricordo con rimpianto.

ennio serventi

13 agosto 2024 07:33

Ritorno al mezzofondista Santi. Faceva il fornaio con negozio in corso Vittorio Emanuele e prestino in via Angelo Morsenti. Ricordo che ospitava gli atleti dalla Accademia Box Cremona che dovevano perdere peso. A sostituzione di una sauna che non cera, li infilava in una stanzetta surriscaldata dal calore del forno per la cottura del pane.