17 luglio 2024

Sisti-Bolzoni e l’oro sfuggito alle Olimpiadi di Amsterdam per il loro altruismo

Amsterdam 1928. La nona olimpiade dell’era moderna, avrebbe dovuto dare allo sport cremonese la sua prima medaglia d’oro. C’era sentore di successo per un equipaggio azzurro, infatti, in una delle più classiche specialità del canottaggio: il “due senza”. E su quella barca vogavano due cremonesi usciti dal prodigo vivaio della Canottieri Baldesio, Romeo Sisti e Ultimo Nino Bolzoni i quali proprio in quella stagione toccavano l’apice del loro rendimento atletico.

Giunsero in Olanda portandosi sulle spalle il greve fardello del pronostico per quanto avevano fatto vedere una ventina di giorni prima sulle acque del Lago Maggiore nella regata che assegnava il titolo di Campioni d’Italia.

A Pallanza avevano infatti strapazzato un poderoso lotto di concorrenti sia nel “due senza” quanto nel “due con” (timoniere Lombardi).

Si affacciavano dunque alla ribalta olimpica non essendo affatto degli sconosciuti: già l’anno prima avevano colto il tricolore sulla barca più pesante. In quella occasione s’era gareggiato a Lodi, campo di regata il corso dell’Adda ove la loro abitudine a remare nella corrente del Po aveva fatto ritenere ai tecnici che fosse stato elemento determinante dello strapotere dimostrato su avversari abituati, per contro, ad allenarsi in acque ferme.

A Pallanza oltre al tricolore era in palio la qualificazione olimpica.

Decisero di giocare le loro carte in entrambe le specialità; una sfida contro se stessi oltre che contro un gruppo di equipaggi che, tra l’altro, apparivano del massimo rispetto. Si vogava in acque calme, in uno dei campi di gara migliori per quei tempi. I battuti non avrebbero potuto accampare nessuna scusa.

Nella prima giornata, sul “due con” affrontarono i fratelli Vestrini di Livorno, Campioni d’Europa in carica che finirono letteralmente sgretolati dal ritmo imposto dall’equipaggio cremonese appena varcata la soglia dei 200 metri.

Non vi fu neppure competizione. Sisti e Bolzoni toccarono il traguardo qualche decina di secondi prima della barca toscana lasciandoli in disarmo completo, distrutti dalla fatica nel tentativo di seguirne il ritmo sin dalle prime battute.

La conferma definitiva della loro superiorità sui Vestrini venne il giorno seguente nel “due senza” la loro barca preferita.

Lì si sentivano veramente i più forti e non c’erano neppure i livornesi a fare da contraltare. Sentendosi inferiori, i Campioni d’Europa, che avevano puntato tutte le loro chances sulla barca più pesante, non avevano voluto correre il rischio di subire un’altra disfatta.

L’unico pericolo avrebbe potuto arrivare da uno specchio d’acqua divenuto improvvisamente infido e inusuale a causa di un repentino cambiamento delle condizioni atmosferiche: vento teso e onde trasversali piuttosto alte rendevano difficilmente governabile la barca, ma ancora una volta Sisti-Bolzoni imposero la loro cadenza. Solo la coppia della Canottieri Fiume riuscì, almeno fino a metà gara a tenere il loro passo, poi ebbero via libera, incondizionatamente.

Conquistarono sul campo la partecipazione olimpica. Il Commissario Tecnico Caccavallo li trattenne a Pallanza ove era stato fissato il quartier generale della squadra azzurra ed affidò loro il “due senza” per Amsterdam, mentre i fratelli Vestrini venivano confermati sul “due con”, la barca con la quale l’anno precedente avevano conquistato il titolo europeo.

Sisti e Bolzoni erano solo la punta di un iceberg che aveva alla base una grandissima scuola remiera: scuola che, dalla fine del secolo precendente, si era andata sviluppando presso tutte le società cresciute sulle rive del Medio Po (la piacentina Vittorino da Feltre avrebbe mandato ad Amsterdam sia il “quattro senza” che il “quattro con”) che, a partire proprio da Amsterdam si sarebbe dimostrata vincente nel mondo.

I primi riscontri cronometrici sul campo di regata olandese furono chiarissimi: i due canottieri cremonesi vennero indicati come i favoriti per la conquistadella medaglia d’oro.
E’ l’Olimpiade che passerà alla storia come quella di Tarzan (al secolo il profugo austro-ungarico Johnny Weissmuller) e del fantastico “quattro con azzurro” (un equipaggio di quasi juniores guidato dal fondatore- presidente-allenatore-timoniere della loro società) eroi teenagers e medaglie d’oro nell’acqua olimpica olandese.

Il nuotatore Weissmuller per gareggiare ad Amsterdam si era fatto passare per il fratello più piccolo nato in America, i quattro vogatori erano una formazione così giovane che nessuno mai avrebbe pensato ad un risultato tanto straordinario.

Sloten, che gli olandesi avevano eletto a teatro della competizioni di canottaggio era un modesto e triste villaggio dai tetti spioventi, tetro e piovoso, aggrumato sulle sponde del Ringvaart, un canale poco distante dalla plumbea periferia di Amsterdam, un limaccioso e gelido corso d’acqua largo poco più d’una trentina di metri che costituiva la via principale del villaggio, ma via di comunicazione essenziale tra il mare e l’interno del paese, percorso com’era da teorie interminabili di barconi e di chiatte che facevano incessantemente la spola tra la città ed il porto.

Il Ringvaart costituiva un bacino di gara assolutamente atipico: acque ferme, è vero, quasi stagnanti, ma fredde, pesanti e già allora inquinate dal massiccio passagio di natanti a motore. Il tempo, sempre mutevole, increspava a tratti lo specchio d’acqua sopra il quale stormi di gabbiani stridevano incessantemente. Per la prima volta, però, si vedeva una strada correre parallela al campo di gara per tutti i duemila metri del percorso e sulla stessa un andirivieni di automobili sbuffanti che recavano a bordo giornalisti e giudici: innovazione rivoluzionaria per quei tempi, dava la possibilità, come mai accaduto in precedenza’ di seguire da vicino l’in- tera competizione dal primo all’ ultimo metro.

Il colpo d’occhio del canale, lungo il quale erano stati appositamente aperti ristoranti, sistemati bar e tribune e portate altre incredibili novità (altoparlanti diffondevano l’esito delle gare e vari tabelloni indicavano ogni duecentocinquanta metri la distanza percorsa) era splendido, abbacinante nella sua ineccepibile modernità.

Una coreografia esattamente studiata con le bandiere di tutte le nazioni partecipanti inalberate lungo il canale: unica nota di sgargianti colori nel grigiore assoluto di un’estate nordica che ineluttabilmente s’avviava al tramonto. Oggi tutto questo parrebbe banale, addirittura scontato anche per una gara della minima importanza, ma per quei tempi costituiva una vera innovazione. L’unico svantaggio veniva dalla strettezza del canale. Il campo di regata permetteva l’approntamento di due sole corsie per cui si adottò un nuovo regolamento con sfide a due ad eliminazione diretta. Uno contro uno, sino alla fine.

De Sambuy, il presidente della Federazione Italiana di Canottaggio, che tra l’altro era anche Podestà di Torino, appariva abbastanza preoccupato, prima dei sorteggi, per la scarsa conoscenza che si aveva del valore di numerosi equipaggi, soprattutto di quelli provenienti da altri continenti e di estrazione anglosassone come Stati Uniti, Australia, Canada la cui presenza non era stata appieno valutata nei pronostici della vigilia e con i quali non si avevano avuto contatti recenti. La grande tradizione inglese del remo portata nelle colonie, minacciava di presentarsi stavolta con tutta la sua potenza ed esperienza. Nessun dubbio, invece, per quanto riguardava gli europei: qualsiasi barca azzurra era all’altezza di misurarsi coi grandi del continente: tedeschi, inglesi, svizzeri, olandesi non facevano paura agli italiani.

Proprio all’equipaggio della Baldesio, al debutto, capitò l’osso più duro: era il 2 agosto. L’Olanda non solo correva in casa, ma difendeva l’oro olimpico di Anversa con Beyeen-Rosingh, due colossi di provato spessore internazionale e di grande personalità: quattro anni prima avevano stravinto e sull’acqua di Sloten s’erano allenati preparandosi in modo perfetto. Conoscevano ogni segreto del canale e delle due corsie, dei refoli di vento improvvisi che spazzavano l’acqua costringendo i vogatori a repentine quanto micidiali variazioni di ritmo, delle torbide e mutevoli correnti che si registravano ad ogni ora con il mutare delle maree e l’entrata in funzione delle chiuse.

Sisti e Bolzoni adottarono una tattica spericolata, quella della sorpresa, con una partenza al limite delle possibilità. Gli olandesi risposero. Apparentemente senza battere ciglio, adeguarono la loro lunga palata al ritmo frenetico degli italiani. Ai 250 metri gli arancioni erano dietro di una punta, ma salirono di colpi e ai 500 le due imbarcazioni apparivano appaiate in un terribile forcing che gli olandesi alimentavano a loro volta, incessantemente. Al passaggio sotto il tabellone dei 750 posi- zioni invertite ed erano ora i campioni uscenti a menar la danza, avanti di un’intera punta. Pubblico in tripudio ai 1000 metri quando l’equipaggio olandese apparve avanti di mezza barca, ma Sisti-Bolzoni non mollavano.

Sisti chiamò il “serrate” poco dopo metà gara. Parve una decisione pazzesca, ma gli avversari accusarono il colpo: il vantaggio scemava inesorabilmente. Finirono per perdere il controllo della la loro imbarcazione che sembrava appesantirsi ad ogni colpo di remi scivolando indietro, sempre più indietro tanto che ai 1500 metri c’era già luce tra i due armi. Salirono ad otto barche all’arrivo con gli olandesi ormai sollevati. Fu la dimostrazione, quel trionfo, che all’armo della Baldesio nessuno avrebbe potuto resistere

“Ai mille metri - scriveva Giorgio Nelli, che aveva avuto la fortuna di poter seguire a bordo di un’auto la gara - quando i nostri producevano lo sforzo che doveva schiacciare gli olandesi, ho gridato loro con quanto fiato avevo in corpo: “Forza, Forza!”. Ciò mi è valso un rimprovero del flemmatico giudice olandese che era con me, ma mi ha dato il piacere di vedere Bolzoni guardarmi col più amabile dei sorrisi e ringraziarmi. Questi ai 1000 metri era in pieno vigore mentre gli olandesi già apparivano piegati dallo sforzo. Doveva avere un fiato eccezionale quel Bolzoni!

Giornata di riposo per i nostri il 3 agosto, ma il 4 si era di nuovo in acqua per una duplice sfida Italia-Svizzera voluta dal sorteggio sia nel “due senza” quanto nel “due con”, quarti di finale in una giornata, come tutte in quell’Olimpiade, fredda e ventosa: l’autunno del nord già si faceva sentire sui muscoli rigidi e intorpiditi di tutti.

Lo specchio d’acqua soffriva le folate di un vento impetuoso che saliva dal mare, increspa-vano la superficie dell’acqua, rendendo difficoltosa la manovra, improba la fatica. La copia della Baldesio contro i Campioni d’Europa del ‘26.

Per contro, Pierluigi e Renato Vestrini, alle prese con un’altra coppia di fratelli, i giganteschi Sehoelin; i campioni d’Europa in carica, i due che avrebbero vinto l’Olimpiade.

Per primi in acqua Sisti e Bolzoni e, stavolta, subito avanti gli elvetici sicuri, tranquilli, per nulla impressionati dalla fama che aveva investito gli azzurri dopo la batosta inflitta ai campioni uscenti due giorni prima.

A metà gara, una barca di vantaggio per i rossocrociati, ma il divario non sembrava preoccupare i nostri: Nino Bolzoni, a tratti, strizzava l’occhio a De Sambuy che seguiva la gara in auto insieme al Presidente della Federazioni Internazionale, lo svizzero Florono che già gongolava per la probabile vittoria dei rossocrociati.

Ai 500 metri, l’improvviso cambio di ritmo operato da Sisti che andava aumentando vertiginosamente il numero di colpi. In un attimo, fu notte per gli svizzeri: tentarono disperatamente di rispondere all’attacco degli azzurri, ma si trovarono con le braccia pesanti, incapaci di reagire alla nuova pressione della barca italiana che andava a vincere, stavolta con tre lunghezze di margine.

La semifinale era assicurata. I due, in fase di defaticamento stavano tranquillamente rientrando al pontile proprio nel momento in cui i fratelli Vestrini davano inizio alla loro battaglia, ma apparvero subito in difficoltà; Pierluigi, il più giovane rampollo di quella famiglia di grandi vogatori, non riusciva a tenere la cadenza imposta dal fratello, annaspava, sembrava vogare nel vuoto. A pochi metri dal traguardo, il dramma: sbagliò completamente una palata, cadde all’indietro e la barca si capovolse.

Un attimo di disperazione e di terrore, da rivivere nel racconto del cronista presente alla gara: “Il timoniere ed il più vecchio dei Vestrini credendo il capovolgimento della barca dovuto ad un’errata manovra, raggiungevano a nuoto la riva mentre il fratello si aggrappava con entrambe le mani alla barca reclinando il capo su di essa. Non aveva più la forza di tentare di raggiungere la riva a nuoto. La sua posizione era critica perché era evidente che si trovava in condizioni fisiche menomate. Si videro allora due uomini gettarsi in acqua. Erano i due azzurri, Sisti e Bolzoni della Baldesio di Cremona che, senza indugio, venivano in aiuto del loro sfortunato compagno.”

Vestrini fu tratto a riva. Al fratello che chiedeva cosa gli fosse accaduto, confessò di aver taciuto, per non impressionarlo, di avere la febbre altissima. Il pubblico olandese lo accomunò in un lunghissimo applauso ai suoi salvatori. L’Olimpiade dei labronici finiva li, ma neppure quella di Sisti e Bolzoni sarebbe durata a lungo. Si levarono entrambi di malavoglia il mattino seguente (in programma le semifinali): i sintomi dell’influenza evidenti in entrambi. Quel bagno gelido durato qualche minuto, quando ancora erano sudatissimi, li aveva messi al tappeto.

Quando, nel tardo pomeriggio, salirono in barca erano febbricitanti. Sisti, addirittura, già aveva denunciato un rialzo della temperatura la sera precedente, appena salito a bordo della Salunto, la nave che ospitava il gruppo degli atleti italiani, ma si batterono ugualmente al massimo. Dovevano vedersela con due inglesi, certo non imbattibili, del “London Rowing”, la società più antica al mondo, che venivano dall’aver dominato le regate di Henley. Tennero duro, i nostri, sino alla fine, superati solo di pochi centimetri, mentre i brividi della febbre ormai li attanagliavano.

Il giorno seguente ci sarebbe stata la possibilità di conquistare il bronzo, proprio mentre gli inglesi andavano a loro volta ad inchinarsi a all’equipaggio tedesco formato da Mechster e Mulleer nella finale per l’oro.

I due azzurri non furono più in grado neppure di difendersi. Furono costretti ad accontentarsi del quarto posto danneggiati, anche nella piccola finale, dall’acqua cattiva e dalla imprecisa e forse scorretta condotta di gara degli americani usciti sensibilmente di rotta senza che la giuria internazionale intervenisse a squalificarli, ma ormai avevano perduto l’oro che era la medaglia cui ambivano ed anche il bronzo sarebbe stato una magra consolazione.

Non portarono a casa allori, ma il rientro Italia ebbe ugualmente i toni del trionfo: i giornali di tutto il mondo avevano evidenziato il loro gesto e il disperato salvataggio dello sventurato Vestrini. Non ebbero meno lodi e attenzioni dell’armo triestino che aveva conquistato la medaglia d’oro.

Discorsi e spumante si sprecarono all’Albergo Roma alla presenza di tutte le autorità sportive e cittadine, dove venne rinnovato l’impegno dei due atleti a portare sempre più alto il nome di Cremona e della Baldesio nel mondo del remo e dello sport. L’impegno era sicuramente quello di arrivare almeno fino alle Olimpiadi successive, quelle di Los Angeles. Si verificarono, però, altri imprevedibili avvenimenti e i due la rivincita olimpica non riuscirono più a conquistarsela.

La consacrazione in campo internazionale arrivò. comunque, l’anno successivo, nell’estate del 1929.

Già nel mese di gennaio, col ghiaccio che si accumulava sopra il panno pesante delle tute, le mani rattrappite dal freddo, il fiato che si condensava in ghiaccio sopra le sopracciglie i capelli, i due erano in barca. decisi a preparare quella che sarebbe stata la loro più bella stagione.

A maggio, a Cremona, ebbero il primo positivo collaudo gareggiando ad handicap contro un paio di equipaggi molto validi, tanto che l’allenatore Pietro Lombardi capì immediatamente di aver svolto un eccellente preparazione invernale.

Nel frattempo, era nato sulla scia dei successi di Sisti-Bolzoni, un altro bell’equipaggio, Mola-Guerragni, tanto che, a fine luglio, quando si presentarono a Pallanza, come sempre sede dei campionati italiani, apparivano in forma smagliante, Poche settimane prima erano anche passati da dominatori su un buon numero di equipaggi europei messi in fila senza fatica sia nel “due senza” che nel “due con” alle regate internazionali di Lucerna.

Il Lago Maggiore, e specialmente il campo gara di Pallanza erano ormai teatro ideale dei Campionati Italiani con una cornice di pubblico competente che accorreva regolarmente sul Lungolago ad applaudire le più famose scuole remiere, di Livorno, Fiume, Piacenza, Cremona, Trieste e Torino, capaci sempre di presentare vogatori di classe internazionale alla ribalta remiera.

L’equipaggio cremonese godeva del favore di tutti: pubblico, tecnici e colleghi. L’episodio di Sloten, unitamente al loro franco ed estroverso carattere, li aveva resi il fulcro attorno al quale ruotava l’intera squadra azzurra che, partendo dal nome di Sisti, aveva presto battezzato la inseparabile coppia regina del canottaggio italiano con nomignolo di “Giulietta e Romeo”.

“Giulietta e Romeo” a Pallanza fecero il minimo indispensabile per confermarsi al vertice nel “due senza” vincendo la gara con il tempo di 8’2” davanti al solito equipaggio della Canottieri Livorno che aveva di nuovo dirottato i fratelli Vestrini sul “due con” ove, a render loro dura la vita fin quasi sul traguardo pensarono proprio Mola e Guerragni ed il timoniere Lombardi, finiti al secondo posto dopo una lotta spasmodica.

Il pensiero di tutti gli equipaggi era però rivolto a Bydgosz, a quel grigiastro Lago di Legnowo ove avrebbero vissuto da protagonisti una delle più gloriose giornate della storia remiera italiana con gli equipaggi in grado di portarsi a casa cinque dei sei titoli europei in palio: Sisti Bolzoni erano imbattuti nella stagione e lo sarebbero stati sino alla fine. Ventimila persone affollavano le rive del lago e l’organizzazione era perfetta da parte di una federazione, quella polacca, già allora e da tempo all’avanguardia in campo mondiale.

A dar la replica ai nostri, dopo una facile qualificazione alle finali, le coppie di Belgio, Polonia e Ungheria. Acqua leggermente increspata all’inizio e subito fuori dai giochi Belgio e Ungheria, nettamente a disagio, mentre la Polonia prendeva la testa e sulle ali dell’entusiasmo dei ventimila, filava velocissima verso il traguardo.

Qualche difficoltà sembravano incontrare gli azzurri che solo verso metà gara riuscirono a trovare la giusta cadenza. quando il loro ritardo era comunque valutabile ad una decina di metri. Sisti aumentò gradatamente il numero di colpi e verso i 1400 metri la Baldesio affiancava i polacchi. Questi risposero coraggiosamente all’attacco, ma si ritrovarono subito in ginocchio appena gli azzurri replicarono il “serrate”, stavolta decisivo, prorompente.

Negli ultimi cinquecento metri riuscirono a mettere tra se e la barca polacca ben sei secondi: 6’40”1/5 il loro tempo, 6’46” quello dei polacchi col Belgio lasciato ad almeno 200 metri.

L’anno seguente, 1930, i due partirono ancora una volta alla grande vincendo ad Orbetello in aprile, poi il 12 giugno sulla Senna, ove la Francia finiva a tre lunghezze, il Belgio ancora più dietro.

Nella stessa giornata debuttava in nazionale un altro equipaggio della Baldesio, il “due con” di Canapa-Guerragni (timoniere Priori) che pure usciva vincente da quella sfida. Neanche il tempo per tornare a casa perché il sabato successivo si disputava il il meeting internazionale di Lucerna. una delle più emozionanti regate per i campioni d’Europa opposti alla coppia Rueggli-Renhart, due ragazzoni di casa che stavano crescendo in modo impressionante ed erano esaltati dalla grande possibilità che si offriva loro di affrontare i campioni d’Europa sulle acque di casa.

Era una pessima giornata di pioggia, col vento che spazzava a intermittenza il lago. Sisti portò subito un attacco deciso e a metà gara e la partita sembrava risolta, ma un’onda improvvisa quasi travolse l’equipaggio azzurro che andò a vuoto con un paio di palate: gli svizzeri si fecero sotto, più minacciosi di prima, passando a loro volta in testa.

Il serrate finale fu una delle più belle azioni mai viste su un campo di gara sino ad allora: una lotta all’ultimo colpo di remo con le due barche che, ad ogni palata, si sorpassavano a vicenda, ma sul traguardo furono i due azzurri a transitare per primi riuescendo così a mantenere l’imbattibilità mentre si avvicinava il giorno dei campionati i nazionali, stavolta a Salò.

Il 26 luglio avrebbe dovuto essere la grande giornata del canottaggio cremonese, il giorno da ricordare per sempre di Baldesio e Bissolati che si apprestavano a conquistare, partendo nettamente favorite, tre titoli sui sei in palio.

Fu invece, incredibilmente, un fallimento completo. Caddero proprio Sisti-Bolzoni in finale, battuti dalla coppia del Rowing Club Genovese (i fratelli Vestrini si erano nel frattempo ritirati dalle competizioni): un risultato impensabile che fu addebitato ad un errore tattico di Romeo Sisti il quale, diversamente da quanto aveva fatto in molte occasioni, non aveva ingaggiato la sua solita partenza fulminante.

Al momento del recupero, la coppia cremonese s’era invece ritrovata a secco. Fu un campanello d’allarme: qualche molla era probabilmente saltata nel perfetto giocattolo della Baldesio. Qualcosa non funzionava più come avrebbe dovuto. Quella sconfitta imprevista e contro avversari non irresistibili era un preludio ad un declino che si stava avvicinando più velocemente di quanto si potesse pensare.

La nera giornata del remo cremonese finì poi con la sconfitta di Canapa-Guerragni e di un altro equipaggio storico, “Le pecore”, il “quattro con” della Bissolati (Alfredo Zappieri, Zemiro, Renzo e Benedetto Siboni, tim. Talamazzi) cui il soprannome era stato dato dai tifosi cremonesi per fare da contraltare ai “Leoni” già affermati della Baldesio

“Leoni” e “Pecore”, dunque, avevano toppato malauguratamente. Era tempo, si vide, di ricominciare da capo; un ciclo, splendido, si stava inesorabilmente per chiudere.

Purtroppo quella coppia eccezionale non durò oltre: le vicende della vita e forse la inattesa sconfitta li portarono ad una svolta decisiva: “Giulietta e Romeo” divorziarono.

Sisti passò al nemico, su una barca della Bissolati che, per sfruttare l’occasione, spezzò il suo grande “quattro”, mentre Bolzoni cercò a sua volta di mettere in piedi un valido equipaggio col compagno di colori Canapa, purtroppo bloccato dal servizio militare,

Sisti, dunque, rimase in sella: ai campionati italiani di Como del 1931 vinse il titolo del “due con” insieme a Zemiro Siboni (Guido Spernazzani al timone) in una gara memorabile perché alle spalle dell’equipaggio della Querini, giunto secondo, si classificarono gli altri due fratelli Siboni e fu primo anche a Parigi nella tradizionale regata sulla Senna che già aveva vinto insieme a Bolzoni.

Tentò anche di ribadire il successo nel campionato europeo, ma il secondo alloro gli sfuggì dopo una battaglia durissima; La Francia, che concluse la prova in 7’26” ebbe la meglio per quattro soli secondi sulla coppia bissolatina.

Bolzoni, per contro, riapparve sulla scena solo nel 1932. A Stresa, in coppia con Tacchinardi,(timoniere Filippini) consumò la sua rivincita sulla Bissolati e sulle “Pecore” conquistando il titolo tricolore.

“Leoni” contro “Pecore”, la disfida che aveva appassionato la città intera e aveva toccato vertici inenarrabili tra i fautori dell’una e dell’altra società remiera (la Bissolati era tra l’altro sorta da pochi anni proprio per merito di alcuni soci che volevano dare maggiore impulso alle attività sportive e aveva fatto dell’agonismo la sua vocazione) stava ormai tramontando.

Aveva appassionato per anni gli sportivi di tutta Cremona e molti ricordarono a lungo il cartellone che Talamazzi, il timoniere, aveva tenuto esposto per un anno intero nelle vetrina del suo negozio di stoffe in Piazza Cavour, ove venne poi costruito l’edificio della Camera di Commercio: un poster enorme che raffigurava una pecora , con tanto di artigli, pronta a sbranare un leone.

Nino Bolzoni, dal canto suo, decise di ritentare l’avventura olimpica a Los Angeles: la gara di Amsterdam gli rodeva ancora, sapeva di aver perduto un’occasione forse irripetibile... Ma la rivalsa stava ad un passo. La sua barca, lo sapeva bene, era considerata tra le più forti al mondo.

L’accordo con Tacchinardi era completo: un equipaggio in grado di sostenere l’urto coi più accreditati. Accadde però un fatto che lo tolse irrimediabilmente di mezzo ancora una volta: i selezionatori della squadra azzurra, all’ultimo momento, limitarono il numero dei partenti per Los Angeles e i tre cremonesi non salirono mai sul “Conte Biancamano” che, come narrano le cronache, salpò da Napoli con a bordo solo 132 azzurri che cantavano “Giovinezza”

Non mancò chi pensò e scrisse che l’esclusione fosse dovuta a “ragioni politiche”: del resto su quella nave non era salito neppure Egidio Armelloni, il ginnasta, per ragioni probabilmente molto simili. A far parte della pattuglia azzurra in quella che fu definita “L’Olimpiade degli Italiani” c’era così un solo cremonese, Edgardo Toetti, che tornò con una medaglia al collo, quella di bronzo della staffetta 4x100.

La mancata convocazione alle Olimpiadi americane segnò la fine della carriera di Bolzoni (Sisti aveva lasciato l’anno prima) perché la delusione fu grande e la volontà di sottoporsi ad altri sacrifici svanì durante quel lungo inverno, mentre Tacchinardi un paio di titoli italiani li vinse ancora in coppia con Prato, ma non tralasciò mai di seguire gli amici, di dare un consiglio ai giovani, di essere d’esempio a chi decideva di cimentarsi nel suo sport, tanto che un’altra impennata l’ebbe nel ‘36, quando salì per l’ultima volta su una barca da corsa. proprio quella degli amici di sempre, Prato e Tacchinardi. Lo fece all’Idroscalo di Milano e li condusse, nonostante la sua mole ed il suo peso, da timoniere, alla conquista del titolo italiano nel “due con”.

Stirpe di grandi sportivi quella dei Bolzoni.

Pietro, il primogenito, seguì le orme del padre. In barca giovanissimo, conquistò il titolo italiano nella categoria juniores, ma fu anche oggetto di un grande gesto di fair play. La Federazione aveva indetto una selezione per giovani rematori allestendo un campionato d’Italia per atleti di statura superiore a 180 cm.: vinse a mani basse staccando tutti gli avversari, ma al controllo successivo alla gara, risultò alto cm.179 e fu squalificato.

Il mattino seguente, a Cremona, suonò il campanello di Casa . Era il vincitore della gara che teneva in mano la coppa vinta il giorno precedente e gliela consegnò “Il vero campione d’Italia sei tu - gli disse - e la coppa non può essere che tua. Non avrei potuto portarla a casa, così sono venuto prima a Cremona..”

Pietro, pur molto dotato, non ebbe però carriera molto lunga. Gli impegni di lavoro lo distrassero e nel suo carnet rimase solo quel titolo conquistato tra i giovani. Più lunga quella di Giorgio che preferì l’acqua della piscina a quella del Po dedicandosi al nuoto. Iniziò alla Baldesio conquistando un sesto posto, nel ‘59 ai Campionati Assoluti nei 200 m. farfalla, un risultato che gli valse l’ingaggio del Fiat di Torino squadra con cui conquistò due titoli italiani in staffetta nella 4x100 e 4x200.

Cesare Castellani


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