7 luglio 2024

Giovanni Moruzzi a Helsinki e Melbourne con la scherma a vincere tante medaglie

L’Olimpiade del 1956, quella di Melbourne, fu sicuramente, tra i Giochi del secondo dopoguerra, in assoluto la meno fortunata per lo sport cremonese.

Sia a Londra nel 1948 quanto ad Helsinki nel 1952, gli atleti cremonesi erano stati tra i protagonisti azzurri. A Londra con le velociste soresinesi Anna Maria Cantù e Mirella Avalle nella staffetta 4x100. coi canottieri della Baldesio Bruno Boni e Felice Fanetti, con i ciclisti del CCC 1891 Ferrari e Pedroni, con Armelloni nella ginnastica e Giacomo Mari nella squadra di calcio.

Ad Helsinki avevano vestito la maglia azzurra il calciatore Giovanni Azzini, il pugile Aristide Pozzali e Marino Morettini che tornò a Spino d’Adda con in tasca un oro e un argento conquistati nel ciclismo su pista.

A Mellbourne, quattro anni più tardi, lo zero assoluto. A tener alto il nome dello sport cremonese c’era solo un dirigente, ma di solidissimo profilo tecnico, Giovanni Moruzzi.

Ricopriva il delicato incarico di direttore tecnico della squadra nazionale di scherma che, secondo tradizione, anche in quell’occasione riuscì a ad ottenere un ottimo bottino di medaglie.

Giovanni Moruzzi veniva da un’esperienza assai confortante: quattro anni prima, in qualità di responsabile del settore femminile ad Helsinki (le donne allora gareggiavano solo nel fioretto) aveva ottenuto un risultato eccezionale, assolutamente imprevisto, tanto che a Melbourne gli fu affidato il compito di guidare l’intera delegazione italiana della scherma che portò alla conquista di tre medaglie d’oro, due d’argento e due di bronzo; nella spada individuale, addirittura, sul podio salirono in tre: Carlo Pavesi, Giuseppe Delfino ed Edoardo Mangiarotti.

Giovanni Moruzzi era nato nel 1909. Un breve passato nelle file dell’Accademia d’Armi sino alla fine degli Anni Venti con una parentesi di qualche anno, durante il periodo universitario, in cui difese i colori del Cus Torino, per poi tornare a gareggiare sotto l’egida della Accademia di Cremona.

Non gli mancarono alcuni buoni risultati, ma non c’erano in lui le stimmate del fuoriclasse in un periodo, tra l’altro, in cui in Italia, non doveva proprio essere facile emergere vista la presenza di tanti campioni di altissima classe internazionale.

Gli azzurri vincevano a ripetizione medaglie olimpiche e mondiali ed europee in tutte le armi e proprio in Italia giostravano i migliori schermidori del mondo.

I talenti erano tanti e agguerriti, così Giovanni Moruzzi scese presto dalle pedane, ma non abbandonò lo sport, palesando subito doti di dirigente abile e accorto ed estrinsecando immediatamente le sue qualità non solo nel campo della scherma.

A soli 25 anni, e quando ancora non aveva definitivamente appeso al fatidico chiodo il fioretto, si ritrovò alla presidenza dell’Unione Sportiva Cremonese, a dirigere, è vero, una società di prim’ordine, ma proprio nel periodo più complicato della sua storia, quello del campionato 1934-35.

Il compito al quale era stato chiamato non fu tanto quello di vincere, quanto di salvare la società traghettandola al di fuori di una situazione economica assolutamente disastrosa.

L’U.S. Cremonese militava nel campionato di Serie B e si trovava sull’orlo del fallimento.

Le nuove regole dettate dalla federazione e dal partito imponevano, tra l,’altro, per la serie cadetta, un età massima di 25 anni per titolari e riserve.

Il neopresidente fu costretto ad adeguarsi ai regolamenti rivoluzionando in pochi giorni una squadra che aveva già un’età media piuttosto avanzata.

La direzione tecnica era affidata all’abilissimo allenatore ungherese Banas il quale prese per mano un manipolo di giovanissimi, ma purtroppo non riuscì, nel poco tempo a disposizione, a farne una squadra vera evitando così la retrocessione in Serie C (la prima nella storia dei grigiorossi). Era un momento economico particolarmente difficile anche per la città e a quel giovane presidente va riconosciuto il merito grandissimo di aver pilotato la società nel momento forse più delicato della sua vicenda secolare quando sembrava ormai certo che, oberata da oltre 100.000 lire di debiti, fosse destinata a scomparire dal mondo del calcio.

Era stato solo grazie al provvidenziale intervento di Roberto Farinacci che l’anno precedente, sotto la presidenza di Giuseppe Carotti, si era riusciti ad evitare il fallimento e ad ottenere l’iscrizione al campionato di Serie B, ma era poi toccato proprio al neo eletto Giovanni Moruzzi il compito ingrato di appianare i debiti, raddrizzare la baracca e ripartire.

Per salvare la Serie B la Cremonese avrebbe dovuto classificarsi tra le prime otto del girone: fu invece sfortunatamente nona. Il neo presidente riuscì comunque a migliorare la situazione tecnica della squadra e quella economica della società tanto che già l’anno dopo fu possibile il ritorno in B al termine di un campionato trionfale e in pratica con quella stessa squadra di giovani calciatori messa insieme da Banas.

Moruzzi, assolto il suo compito, lasciò il mandato ufficiale nelle mani del Federale del Partito Fascista di Cremona proponendo come suo successore Enrico Ronconi, ma rimanendo comunque nel Consiglio Diret- tivo.

Da quel momento in poi, decise di dedicare tutte le sue energie e il suo tempo libero esclusivamente alla scherma.

Grande organizzatore ad ogni livello, neppure nel periodo bellico si adattò al venir meno della tradizione cremonese dei grandi tornei che per anni avevano avuto risonanza in tutto il mondo riuscendo, nonostante tutto, ad allestire, nel 1941 e nel 1942 due manifestazioni che costituirono l’ultimo ed unico appuntamento italiano nell’orbita della scherma mondiale sino alla fine del 1947, quando fu ancora Cremona, nonostante le ristrettezze di bilancio imposte dall’immediato dopoguerra, a proporsi come sede di un torneo che contribuiva a riportare alla normalità la scherma italiana nel mondo ospitando, in una gara che si svolse in Palazzo Trecchi, tutti i migliori esponenti dell’élite continentale.

Nominato Consigliere Nazionale della Federazione e successivamente responsabile del settore tecnico del fioretto, Moruzzi ebbe la soddisfazione di dar corpo, guidandola poi in veste di capitano, a quella grandissima formazione azzurra che, tra il 1950 ed il 1956, si batté con successo su tutte le pedane del mondo: fu presente a sette campionati del mondo ed altrettanti europei, a due Olimpiadi e a tutti i grandi tornei internazionali conquistando una messe di medaglie indimenticabili.

Di queste, una soprattutto porta il marchio indelebile del grande dirigente cremonese, l’oro di Irene Camber nel fioretto femminile alle Olimpiadi di Helsinki: la scherma femminile in Italia, in quelle stagioni, era stata completamente abbandonata a sè stessa, da parte della federazione che riteneva del tutto inutile inviare una rappresentativa femminile all’Olimpiade dove non avrebbe avuto alcuna possibilità di ben figurare.

Fu proprio Moruzzi, che tra l’altro non era mai stato tanto benevolo verso le schermitrici, a contrastare in Consiglio Federale quella decisione opponendo una ragione squisitamente tecnica: non riteneva le ragazze azzurre per nulla inferiori a quelle delle nazioni più progredite, nonostante il capitombolo di Londra 1948, dove la ventiduenne triestina Irene Camber era arrivata solo in semifinale.

Tanto fece che, ad un certo punto, il Consiglio Federale gli diede carta bianca disinteressandosi però completamente di quel settore di cui Giovanni divenne il solo responsabile.

Allenamenti, selezioni e soprattutto incontri internazionali si tennero per alcuni mesi quasi esclusivamente a Cremona dove Moruzzi aveva la possibilità di tenere sotto controllo costantemente le sue schermitrici.

Trasformò in sala d’armi il cortile ed il salone di Palazzo Trecchi, ove durante l’estate la squadra azzurra ebbe la possibilità di allenarsi nel miglior modo e, alla fine, portò ad Helsinki una squadra preparatissima e pronta a tutto.

Irene Camber, l’affascinante figlia del poeta soldato Giulio Camber Barni, ne era la punta di diamante e ricambiò la fiducia accordatale con una vittoria che rimane tra le perle più lucenti della scherma femminile italiana.

Figura eccezionale, musicista laureatasi al Conservatorio in pianoforte, oltre che essere anche la prima donna italiana a laurearsi in chimica industriale, conquistò, a sorpresa, l’oro olimpico nella notte tra il 27 ed il 28 luglio affrontando nello spareggio per il titolo l’ungherese Ilona Schacherer-Elek, una quasi imbattibile atleta mancina considerata a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, la più grande fiorettista della storia (aveva vinto, del resto, già a Berlino nel ‘36 e poi a Londra nel ‘48 e chissà quant’altro, se la guerra non l’avesse fermata per ben due edizioni dei Giochi).

L’oro olimpico fu assegnato con uno spareggio al limite delle quattro stoccate al termine di una competizione estenuante che s’era dilatata ben oltre la mezzanotte.

Quattro stoccate soltanto separavano una delle due dalla gloria. A partire forte fu la Elek. Era quella che aveva più da perdere: veniva da due trionfi e per tutti era la vincitrice naturale. La magiara andò sul 2-0, mentre l’azzurra, a quel punto, sembrava porsi come obiettivo almeno quello di evitare un pesante cappotto.

Moruzzi le consigliò di cambiare tattica e attaccando riuscì ad impattare sul 2-2, ma ancora la Elek rispose e si portò a una stoccata dall’oro mettendo a segno la botta del 3-2.

Camber, a quel punto, non era più rassegnata a concedere partita vinta alla campionessa ungherese: 3-3 e tutto rimandato all’ultima stoccata.

Nel silenzio surreale del tendone da tennis prestato alla scherma, ci si giocò in una sola stoccata il titolo olimpico: fu l’azzurra a prendere l’iniziativa. Attaccò un paio di volte ma cadde sempre sotto la parata della Elek. Poi, l’intuizione: «mi resi conto che lei rispondeva in modo meccanico, senza grande attenzione. E allora entrai de-cisa: feci un coupè e le entrai nella pancia. Si tolse subito la maschera e mi fece le congratulazioni. Da lì nacque la nostra amicizia».

A decretarle il trionfo, come d’uso nella scherma, non furono i compagni di squadri già tornati al villaggio olimpico ne i suoi tifosi, ma le sue avversarie.

A Trieste fu portata in trionfo per le vie della città su di una macchina scoperta seguita da ben trecento vespe: era la seconda medaglia d’oro olimpica femminile per l’Italia dopo quella di Ondina Valla nel ‘36 a Berlino, la prima di tante nella scherma.

Irene proseguì la sua carriera (vincendo quell’anno anche il titolo mondiale) sino a Tokyo, ove fu quarta nel fioretto a squadre, ma saltando Melbourne, ove ancora una volta avrebbe potuto guidarla Giovanni Moruzzi, per maternità.

Ancora negli ultimi tempi, dopo oltre mezzo secolo, un po’ di commozione offuscava la vista di quel gentilissimo signore, ormai vicino ai novanta, invidiabilmente portati, quando mi raccontava i tanti momenti d’emozione vissuti ai bordi delle pedane di Helsinki, quando parlava dell’amico fraterno Dario Mangiarotti che, vincendo l’ultimo assalto, all’ultima stoccata, proprio come aveva fatto la Camber, non solo conquistava per sè l’argento nella spada individuale, ma contemporaneamente regalava al fratello Edoardo quella d’oro.

La soddisfazione più grande, però, gli venne proprio dalla fiorettista triestina su quella famosa pedana di Westend snobbata sino all’ultimo da tecnici e dirigenti del CONI, nessuno dei quali era presente al momento della finale.

C’erano solo quattro italiani in sala: Moruzzi, i due allenatori ed il presidente federale Mazzini. Nessun altro, neppure un giornalista o un fotografo.

Non ebbero neppure la possibilità fisica di decretare il tradizionale trionfo degli schermitori, tanta era la commozione che li colse improvvisamente appagando i sacrifici di tanti mesi. Lo fecero, sportivamente, tutte le avversarie battute in finale.

Solo a tarda notte, quando si diffuse la voce che un altro oro era venuto ad arricchire il medagliere azzurro, cominciarono a farsi vivi in molti, ad esaltarsi per quella medaglia dovuta solo alla tenacia e alla perseveranza del dirigente cremonese, alla sua abilità nel prevedere un possibile successo delle sue atlete, oltre, naturalmente, alla bravura della triestina che andava a completare il bottino eccezionale della scherma azzurra ad Helsinki: tre ori e quattro argenti.

Quattro anni più tardi, a Melbourne, Moruzzi era capo delegazione della scherma, al comando di un’altra gloriosa pattuglia capace di conquistare ben sette medaglie (3 ori, 3 argenti ed un bronzo).

Ancora una volta le ragazze scelsero di allenarsi a Cremona che già aveva portato fortuna in Finlandia, ma Irene Camber non sarebbe stata della partita: s’era dovuto fermare a causa della maternità.

Successivamente un male fastidioso al gomito destro le aveva impedito di recuperare in tempo per l’appuntamento olimpico, ma la sua stagione non era terminata perché si ripresentò a Roma nel 1960 (ove coglieva la medaglia di bronzo nel fioretto a squadre e quattro anni dopo a Tokyo ove fu costretta ad accontentarsi del quarto posto. ma erano trascorsi ormai 12 anni dai giorni del trionfo di Helsinki

Nelle foto Giovanni Moruzzi e con la campionessa Irene Camber, la stessa fiorettista durante la consegna della medaglia d'oro e la Cremonese del Presidente Giovanni Moruzzi (all. Banas, Bodini, Fantoni, Monelli, Musoni, Zucchi, l'arbitro Ghisi. Accosciati; Bergamaschi, Travagin, Rampini. Seduti: Rossi, Emiliani, Dacquati)

Cesare Castellani


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