Giacomo e Italo Mari, i fratelli olimpionici
Giacomo e Italo Mari. Atleti entrambi, fratelli ed olimpionici, esponenti più famosi di una famiglia che ha dato allo sport, non solo di Vescovato e di Cremona, ma dell’Italia intera, della maglia azzurra portata sino ai massimi livelli e non solamente coi risultati che comunque furono eccezionali, quanto con l’esempio di una sportività e dirittura morale che ne hanno fatto il classico modello da additare alle generazioni tutte di giovani sportivi.
Chi ha avuto la fortuna di vivere da vicino le vicende sportive di casa nostra per tanti anni, non può dimenticare i molti episodi di cui, seppure in epoche diverse e discipline sportive così lontane l’una dall’altra, sono stati protagonisti di valore assoluto.
Giacomo fu uno dei primi grandi talenti espressi dal calcio cremonese nell’immediato dopoguerra: gli riuscì, giovanissimo, di portarsi ai fasti della nazionale olimpica e, più tardi, di quella mondiale.
Campione sul campo, come fuori dallo stadio, di Giacomo, persona estremamente gentile e corretta e dotata di quella modestia che è solo dei grandi in un ambiente che di umiltà non vive e non viveva certamente neppure allora, vanto uno squisito ricordo che risale agli anni in cui giocava nell’Atalanta ed io ero solo un bimbo di sette-otto anni.
Andavo spesso a Bergamo a trascorrere qualche giorno di vacanza. Mi accompagnavano al pullman e Giacomo, campione ormai lanciatissimo nell’arengo della Serie A, mi teneva accanto, sul sedile appena dietro al guidatore, mi aiutava talvolta a portare la valigetta e a cambiare corriera a Soncino sobbarcan- dosi anche il peso di rispondere a tutte le mie continue domande. Non è che mi emozionasse tanto la presenza del campione (in fin dei conti ero abituato a stare con i campioni del nonno Alfo Ferrari e Silvio Pedroni, o con quelli di papà, Aroldi e Gianluppi), ma Giacomo Mari era il solo ad apparire sulle figurine, lo ricordo ancora, in maglia nerazzurra e nell’atto di effettuare u a rimessa laterale e questo lo rendeva un mito a tutti gli effetti per i compagni di scuola e soprattutto per i piccoli amici di Bergamo dei quali era un idolo indiscusso. Potevo vantarmi dell’amicizia del campione cui certamente facevo una testa come un pallone al punto che, incontrandolo una quarantina d’anni dopo, in una conviviale al Panathlon, ebbi il piacere di sentirmi dire che ancora se ne ricordava . Fu per me la conferma della grandezza di Giacomo non tanto come atleta, ma come uomo, uno dei pochi e veri gentlemen che abbiano calcato i campi di calcio: il famoso e tanto decantato “stile Juventus" poteva identificarsi benissimo in quel distinto signore che non s’è mai visto, neppure quarant’anni dopo aver lasciato lo sport attivo, vantarsi di un gol segnato o ricordare la papera di un compagno di squadra.
Considerato da tutti i tecnici uno dei più forti mediani destri del dopoguerra, e non solo in campo nazionale, Giacomo seppe interpretare uno tra i ruoli più difficili su di un campo di calcio con sagacia, costanza, caparbietà e continuità tali da farne un modello di stile per tutti coloro che ne seguirono le orme. Tentarono in molti di imitarne l’avvedutezza tecnica, l’abnegazione, la correttezza, la sportività estrema nei confronti degli avversari e compagni di squadra, ma non fu facile neppure a chi era dotato di classe genuina esprimersi ai suoi livelli di gioco.
Sostenuto da un fisico possenti sin dea giovanissimo, Giacomo si era rivelato come calciatore durante un torneo dei campionati studenteschi giocato nonostante già si fosse in tempo di guerra e in quell’occasione non era sfuggito allo sguardo perspicace di uno scopritore di talenti quale Cima Borsaioli: lo aveva veduto risolvere in favore delle Magistrali la partita finale grazie ad una punizione dalla lunga distanza dalla quale era trapelata una ventata di classe innata. Da qui alla Cremonese, il passo era stato immediato e dopo un paio di anni di purgatorio a causa unicamente del conflitto in atto, gli si spalancarono le porte della prima squadra. Il 19 gennaio del ‘45 era già in campo allo Zini con la squadra dei giovani grigiorossi che giocò la prima amichevole postbellica e che avrebbe costituito l’ossatura della formazione destinata a disputare il campionato di calcio che andava pian piano riprendendo quota. Di quel torneo che vide la Cremonese vincere il proprio girone in Serie B, ma perdere inopinatamente lo spareggio con l’Alessandria che le avrebbe dato la Serie A, Giacomo fu protagonista assoluto, determinante.
Quella massima serie che aveva inopinatamente fallito con la Cremonese, Mari l’aveva però ormai nel mirino. Sbarcò a Bergamo ove si impose a tal punto all’attenzione dei tecnici da meritare la chiamata in azzurro. Due soli anni dopo l’inizio dell’attività agonistica nell’ottimo campionato disputato nelle file dell’Atalanta, la convocazione per il torneo olimpico di Londra ‘48 arrivò puntuale, non solo come riconoscimento del suo valore di atleta, come viatico di una lunga, brillantissima carriera.
Vittorio Pozzo, Commissario Tecnico da leggenda di una squadra nazionale che aveva vinto tutto quanto era possibile tra mondiali ed olimpiadi, gli affidò senza indugi il ruolo di mediano destro sin dalla partita d’esordio in cui l’Italia rifilò (era il 2 agosto del ‘48) un sonante 9-0 alla formazione degli Stati Uniti.
Due giorni dopo, però, gli azzurri incapparono in un rocambolesco 3- 5 contro la Svezia che determinò la fine della loro avventura londinese.
Mari, comunque, si salvò, uno dei pochi sui quali non fu gettata la croce della sconfitta da parte della stampa. A Vittorio Pozzo non venne meno la fiducia in quel ragazzone che nessun contrasto riusciva a spaventare: lo promosse nell’organico della nazionale maggiore.
Il passaggio nelle file della Juventus aveva nel frattempo contribuito a farne uno dei calciatori più apprezzati dalle tifoserie italiane, il perno attorno al quale ruotava una delle più solide formazioni mai messe in campo dalla società torinese. Passò, infatti, alla storia del calcio quella Juventus che Gianni Agnelli, giovane presidente bianconero, aveva voluto più forte che mai per dotare la città di una squadra che potesse sostituire, nel cuore dei tifosi piemontesi. il Grande Torino da poco caduto a Superga: squadra di campioni assoluti, dai nordici John Hansen ed Aage Praest al sudamericano Rinaldo Martino, uno che Mari aveva giudicato sempre di valore eccelso, dal piccolo e saettante Muccinelli a Giampiero Boniperti, da Bertruccelli a Piccinini, da Carletto Parola ad un altro ex grigiorosso. Pasquale Vivolo sino al portiere Viola, il precursore dei N.1 moderni, dal cui piede s’innescavano spesso le puntate juventine.
Giacomo fu un colosso in quella Juve di giganti. Juve dai cento gol in campionato. Juve dalle 14 vittorie consecutive in trasferta con 32 punti guadagnati su 38. Juve da record anche nelle giornate infelici (un 1-7 casalingo col Milan dimenticato in fretta, come solo le grandi squadre possono fare).
Di quella Juve, di certo la più forte prima di quella del 1982, fu lo stratega indiscusso, l’uomo capace di colmare qualsiasi vuoto, di fare il terzino quanto l’attaccante di ruolo, di sacrificarsi, sempre, in appoggio ai compagni. L’affetto, la stima che i vecchi componenti quella squadra (Boniperti innanzi a tutti) gli testimoniarono sino al giorno della sua fine immatura stanno a dimostrare di quanta considerazione godesse in seno a quel gruppo di fuoriclasse.
Dai Giochi di Londra sino ai mondiali del ‘54 in Svizzera, passando attraverso l’altra rassegna iridata di Rio De Janeiro del ‘50, Mari fu inamovibili titolare della squadra nazionale: sei anni consecutivi ai massimi vertici e se nel suo ruolino di marcia figurano solo poco più che una decina di presenza in azzurro, è solo perché in quei tempi l’Italia disputava non più d’un paio di partite amichevoli all’anno, oltre ai tornei nei quali si fermò sempre nei primi turni, ma rimane negli Annali del calcio una partita giocata a San Siro nel 1950 contro l’Inghilterra, quando accanto a lui giocò quel monumento di gloria calcistica che era Silvio Piola: era il giorno del suo addio al calcio dopo oltre vent’anni in maglia azzurra.
Purtroppo le due partecipazioni ai mondiali di Mari furono tra le più sfortunate per la squadra italiana che, privata dell’apporto fondamentale dei giocatori del Grande Torino, impiegò qualche lustro per riportarsi all’altezza delle più forti.
A Rio de Janeiro, ove l’Italia giocò un campionato assurdo arrivando in Sud America dopo un viaggio di 22 giorni per mare, poco allenata, squassata da liti ed invidie interne, con giocatori che avevano poco voglia di sottoporsi alle fatiche di un Mondiale, che si era preparata in qualche modo sul ponte della nave, ma senza palloni, perché dopo tre giorni quelli in dotazioni erano finiti tutti in acqua, Mari fu schierato solo nella seconda partita, contro il Paraguay, quando ormai la frittata era fatta e gli azzurri erano ormai estromessi dai giochi. Pure in Svizzera, quattro anni dopo, non ebbe dalla sua un briciolo di buona sorte, coinvolto nella disastrosa prestazione di tutta la squadra.
Si consolò, comunque, con due scudetti guadagnati in bianconero giocando qualcosa come 133 partite con 9 reti all’attivo nei quattro anni trascorsi alla corte di Agnelli. La linea mediana di quella Juventus, con Parola e Piccinini a dargli man forte fu per decenni considerata l’esempio da imitare da parte di ogni squadra, una cerniera di centrocampo in pratica insuperabile, ma dotata di estrema duttilità, capace di proporsi in attacco a sostegno delle punte con precisione, puntualità ed efficienza. Di quel terzetti diventato famoso, Giacomo fu il sostegno: forza fisica e facilità di recupero lo rendevano un baluardo inattaccabile. La capacità di intuire in ogni fase della gara l’andamento del gioco, gli permetteva di trovarsi sempre nel punto giusto proprio grazie a quella continuità di rendimento che lo rendevano un insostituibile motore di centrocampo, il tuttofare in mezzo ad un complesso di campioni che trovavano nella sua abnegazione e nella capacità di sottomettersi in ogni frangente della partita ad un regime di impegno insostenibile per chiunque altro, l’appoggio ideale per le loro azioni vincenti. Nonostante l’impegno assiduo, l’attitudine a governarsi atleticamente gli permise di rimanere a galla, ancora a livelli elevatissimi, pure dopo i trent’anni. Approdò alla Sampdoria nel 1954 ancora titolare in azzurro, poi al famoso Padova di Nereo Rocco ove la sua profonda esperienza e conoscenza del calcio contribuirono ad equilibrare il livello di gioco di una formazione votata quasi esclusivamente alla potenza, irruenza e velocità, votata ad un gioco maschio e vivace, ma in cui seppe inserirsi a meraviglia.
Nel 1959-60, tre lustri dopo averla lasciata con una valigia piena di speranze, tornò a vestire la maglia grigiorossa, da giocatore-allenatore, come usava allora e, da qualche parte anche adesso, per dare il suo apporto in un momento arduo per i suoi vecchi colori. Erano i giorni neri della Serie C, con una bella serie di giovani alle sue dipendenze come Ugo Sartori in porta, come Vasini e Daniele Parolini ed il fratello più piccolo, Italo, di quindici anni più giovane che scalpitava per entrare in formazione ma che non esitò, con l’estrema correttezza e sportività che l’aveva sempre contraddistinto, a metter fuori rosa quando nel suo ruolo intuì immediatamente le doti di un giovanissimo emergente talento quale stava dimostrando di essere Armanno Favalli.
Italo, dunque, il fratellino che aveva tentato la stessa carriera di Giacomo giocando da ala destra, velocissimo, dote che aveva ereditato dal padre, non di buon temperamento, ma sul piano fisico non potente quanto il fratello, dopo aver tentato nel calcio, alla Cremonese poi alla Leoncelli che in quegli anni godeva del suo periodo d’oro e comunque dopo aver dato il suo contribuito di una discreta classe ed efficienza ad entrambe le formazioni, Italo ha trovato la sua giusta dimensione nel tiro a segno, in una delle specialità meno conosciute, ma proprio per questo più difficili toccando l’apice della carriera con la conquista di un titolo mondiale e la soddisfazione di una partecipazione olimpica giunta purtroppo con un quadriennio di ritardo quando, probabilmente, aveva già dato il meglio di se stesso ed era in fase calante anche se, per un tiratore, i quarant’anni significano spesso il pieno della maturità tecnica.
Italo, ragazzino, fu naturalmente contagiato dall’amore per lo sport in una famiglia che ne aveva fatto quasi una religione (il papà era stato in gioventù un ottimo atleta capace di 11” netti sui cento metri ai tempi suoi non certamente poco). A 16 anni era già il punto di forza di quella Leoncelli delle 18 vittorie consecutive e del leone che i tifosi si portavano dietro, in gabbia, nelle trasferte. Con l’esempio di Giacomo costantemente davanti agli occhi, arrivò alla Cremonese in Serie C per un paio di stagioni prima di tornare a Vescovato mettendo nel cassetto i sogni relativi al calcio di professione ed impiegarsi in banca.
Ancora giocava nella Leoncelli quando quasi per caso, e per merito di Lino Cerati, scoprì la carabina, le cartucce, il poligono di tiro di Via Brescia ed il bersaglio mobile. Fu amore a prima vista perché quindici giorni dopo era già in pedana a contendere la vittoria a molti dei più quotati tiratori della specialità.
Era il 1968. Si presentò ai Campionati Italiani di Pistoia e fu un vero terremoto nel mondo ristretto dei tiratori al bersaglio mobile: da modesto “seconda classe” qual era ancora classificato, scavò un solco profondo tra se e gli avversari, una differenza che gli altri a fatica avrebbero potuto colmare. Nel momento in cui Italo scese in pedana a Pistoia, proprio Lino Cerati stava guidando la classifica con l’ottimo score di 150 punti mentre il bolognese Giorgi, il suo avversario più pericoloso, già aveva ottenuto un 145 che sembrava porre Cerati al sicuro da qualsiasi attacco.
Erano le 14,30 quando Italo scoccò il primo colpo, un 3, cui seguirono un altro 3, due 4 e quindi una serie interminabile di 5 che lo portarono a chiudere la prima serie di venti colpi a quota 89.
Tremava Giorgi, ma raddrizzava le orecchie pure Cerati, meno sorpreso degli altri che, però, intuiva nell’allievo, nell’amico e compagno di squadra, una determinazione incredibile. Nella successiva serie di colpi, quella veloce, Italo sparò un 83 che lasciò tutti sbalorditi: 172!
Oltre al titolo tra i “seconda classe” gli si spalancava davanti quello assoluto.
Il toscano Giancarlo Cecconi, giovane anch’egli, ma già classificato tra i “Prima” era il più tosto tra gli avversari che ancora dovevano sparare. Godeva del vantaggio di gareggiare nel poligono di casa, ma quando si avvìo in pedana, già sapeva che quel punteggio non sarebbe mai stato alla sua portata. Sparò, co- munque, in modo eccellente, si migliorò, stabilì il suo record personale in 156, ma era lontanissimo e strabattuto, come tutti gli altri. Si dovette accontentare del titolo tra i “prima Classe”.
Italo tornò da Pistoia con i suoi primi due titoli italiani (assoluto, e di classe) e fu quella prestazione a convincerlo di aver trovato la sua vera vocazione sportiva.
Poche settimane più tardi debuttava in azzurro contro l’Ungheria e preparava il ‘69 a livello mondiale: a Sandiviken, in Svezia, fu tra i protagonisti, ma la squadra italiana mancava ancora dell’esperienza necessaria per salire a livello mondiale, un'esperienza che andava comunque affinandosi.
Italo iniziò la stagione successiva affrontando la solita Ungheria, tradizionale avversaria degli azzurri, al poligono di Pistoia che, evidentemente gli portava fortuna: vinse la sua prima gara internazionale, stavolta sui 60 colpi, strappando il primato italiano a Cecconi (241 contro 239) e pochi giorni più tardi, alla se- lezione per i mondiali di Phoenix, ottenne la più grossa prestazione della sua carriera sbriciolando il primato mondiale (che non poté essere omologato perché non ottenuto in competizione internazionale dei 60 colpi, con un 265 che non avrebbe lasciato spazio neppure al russo Grinolev che lo aveva stabilito un anno prima a quota 261.
Purtroppo i campionati di Phoenix, in ottobre, non portarono l’auspicata fortuna sia a Mari che a Cerati che con lui, faceva parte della spedizione azzurra. Mari fu danneggiato da un sorteggio sfavorevole che costrinse sempre a sparare per primo, in ore antelucane, mentre tutta la squadra subiva l’handicap di carabine calibro 22 poco adatte, per la scarsa velocità dei proiettili, ad un impianto molto diverso da quelli cui erano abituati in Italia.
Gli azzurri finirono quarti, pur tra mille difficoltà, in entrambe le competizioni a squadre e fu chiaro che il giorno della medaglia non poteva essere lontano, anche se sfuggiva troppo spesso a Mari che andava imponendosi in molti poligoni europei, da Bucarest a Budapest, nei Gran Premi dei Carpazi e d’Ungheria, in Russia come in Messico, ma trovava troppo spesso la sfortuna ad impedirgli di aggiudicarsi la gara più importante.
Nel frattempo la serie dei titoli italiani andava sempre più allungandosi (ne avrebbe sommato ventuno a fine carriera), mentre arrivava la prima grossa delusione, l’esclusione dalle Olimpiadi di Montreal nonostante si fosse aggiudicato con largo margine i due titoli italiani in palio in quell’anno. Trovò posto in squadra Lino Cerati che gli venne preferito e che a Montreal non fece sicuramente una buona gara classificandosi al 49° posto.
Nonostante qualche appannamento di forma nella stagione successiva, la sua costanza ebbe la meglio. Tornò in pedana ancora più forte di prima, soprattutto nel 1978 quando, con un’esperienza d’armi ormai decennale alle spalle si presentò con la squadra italiana ai Campionati del mondo di Seul. Con lui c’erano Mezzani, Cini e Zanella.
Il 2 ottobre i quattro azzurri salirono in pedana nello stesso poligono che sei anni più tardi avrebbe ospitato i Giochi Olimpici.
Fu un vero disastro: erano arrivati da poche ore, frastornati dal cambio di fuso orario ed alle prese con una luce difficile da interpretare. Affondarono letteralmente classificandosi all’ultimo posto. Eppure i ri-scontri degli ultimi allenamenti in patria erano stati confortanti: c’era la quasi certezza di una medaglia. L’avventura iridata, preparata con tanta cura e duri allenamenti, sembrava essersi esaurita nel breve spazio di quel mattino umido e piovoso, dai colori tenui e sfumati dell’autunno coreano.
La Federazione, poi, aveva dimenticato di iscrivere la formazione anche alla seconda prova a squadre, quella veloce, per cui sembrava sparire anche la possibilità di disputare quest’altra prova . Riuscirono, però, ad ottenere l’ammissione alla gara: del resto, non facevano paura a nessuno dopo quell’esordio e nessuna squadra si oppose all’iscrizione ritardata. Salirono in pedana e stavolta strabiliarono il mondo del tiro asegno. Mezzani conquistò l’oro individuale a quota 387, Cini il bronzo a 383, Mari, anche stavolta poco fortunato nel sorteggio che lo costrinse a sparare per primo, appena dietro insieme a Zanella.
Vinsero l’oro a squadre con 1517 punti, 14 punti avanti alla Germania, 19 in più della temutissima Finlandia. Una prestazione che resta tuttora il top mai raggiunto da una squadra italiana di tiro al bersaglio mobile in un campionato del mondo. I tedeschi avevano creduto in un loro successo sino al momento in cui Italo si preparò alla gara.
“Non vincereste nemmeno se morisse il papa”. gli sussurrò all’orecchio in buon italiano il capo delegazione proprio mentre saliva in pedana. Quando rientrarono in al- bergo e stavano ancora festeggiando, appresero dalla televisione la notizia della improvvisa morte di Papa Luciani...
La vittoria di Seul indusse il Coni a portare almeno due uomini alle Olimpiadi di Mosca e così i sogni di Mari, frustrato da decisioni ancor oggi inaccettabili in occasione dei Giochi di Montreal poté realizzarsi . Vinse, infatti, l’incontro internazionale di Parigi, il che gli valse la convocazione per Mosca 1980.
I due selezionati per Mosca, Mari e Mezzani, svolsero una preparazione eccellente. Particolarmente fondate le aspettative che circondavano il giovane Mezzani, particolarmente in forma in quel momento e che sembrava avere tutte le carte in regola per ripetere l’impresa di Seul. Mari, dal canto suo, puntava ad entrare nei primi dieci.
In quel momento vantava un record personale di 373 punti rispetto ai 381 del primato mondiale: non era molto distante, ma l’Olimpiade, come spesso accade in alcune discipline, fu un vero sconquasso per le gerarchie assodate del tiro.
I russi, caricatissimi per l’Olimpiade che si giocava in casa loro, nell’impianto in cui si erano allenati per due anni, ne furono i dominatori.
Mezzani, primatista del mondo, finì settimo, pur battendo se stesso ed il proprio record mondiale, il che significa che ben sette tiratori andarono, nella stessa gara, oltre quello che era un limite mai toccato prima.
Mari, sedicesimo, fu comunque all’altezza delle sue giornate migliori e non ebbe nulla a recriminare anche perché la participazione alle Olimpiadi era un sogno che, finalmente, dopo dodici anni di attività tutti a livello internazionale, con oltre cinquanta partecipazioni a gare internazionali con la squadra az- zurra e quasi altrettanti Gran Premi vinti, coronava degnamente la sua vita di atleta , anche se poi continuò a gareggiare, per puro sportivo.
Italo rimase a lungo in pedana anche quando tutto cambiò nel mondo del tiro con l’adozione di carabine ad aria compressa e la distanza ridotta dai 50 ai 10 metri riuscendo a conquistare ancora qualche titolo tricolore assoluto a squadre e individuale nella categoria “Master”.
Nelle foto i due fratelli Mari con le maglie della nazionale, poi la Cremonese di Giacomo Mari (1961-62: dall'alto: Paccini, Castoldi, Ravani II, Giacomo Mari, Moretti, Ghisolfi. In ginocchio: Erminio Favalli, Sartori, Parolini, Gallesi), la Juventus di Mari, la Nazionale del 1950, Italo Mari con la calibro 22 e la vittoria all'ultimo campionato italiano disputato nel 2007.
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