29 maggio 2024

Olimpiadi di Roma: in gara Mario Fraschini, Cesare Zilioli, Luciana Guindani e Armanno Favalli. Le barche a vela di Cattadori. Quelli che per poco non ce l'hanno fatta. La prima volta della Bissolati

Da venerdì 26 luglio a domenica 11 agosto si terranno a Parigi i Giochi della XXXIII Olimpiade a 100 anni esatti dall'ultima volta che la città le ha ospitate. Cremonasera, per celebrare l'evento vuole ripercorrere alcune storie di atleti cremonesi che nelle Olimpiadi moderne hanno lasciato il segno. Partiamo dal ricordo dei cremonesi alle Olimpiadi Roma, nel 1960, le più grandi e spettacolari con i quattro azzurri Fraschini, Zilioli (Antonioli riserva), Guindani e Favalli e altri che vennero esclusi sul filo di lana. E la storia delle barche a vela in gara di Cattadori.

Nel 1960 Roma aveva saputo offrire l'edizione più brillante delle Olimpiadi moderne, un'autentica ricelebrazione, ideale e storica, dei suoi monumenti c dalla Basilica di Massenzio alle Terme di Caracalla, dalla Via Appia a quella dei Trionfi che già furono teatro di imprese memorabili.

Roma 1960 chiuse un'epoca dello sport, quella del dilettantismo puro, seppure già ampiamente camuffato soprattutto dai paesi dell'Est, non solo nell'ambito agonistico, ma pure in quello organizzativo e dirigenziale.

Nessuna olimpiade ha visto nascere ed affermarsi tanti personaggi come quella di Koma: Wilma Rudolph e Cassius Clay, Livio Berruti e Abebe Bikila, Nino Benvenuti e re Costantino di Grecia tanto per fare qualche nome. In attesa di una nuova chance per Roma (dopo aver lasciato cadere proprio la candidatura del 2024), andiamo a ricordare la partecipazione dei cremonesi alle Olimpiadi romane del '60, che segnarono un trionfo per lo sport italiano anche in fatto di medaglie. 

MARIO FRASCHINI

Il '60 non fu un anno particolarmente felice per Mario Fraschini. Una serie catastrofica di incidenti gli aveva più volte interrotto la preparazione frantumando i tempi di una preparazione che durante l'inverno aveva curato con meticolosità certosina.

Si giocò la partecipazione ai Giochi in una fresca serata nello stadio di Berna: al vaglio di una competizione internazionale di grande livello, l'atleta di Pizzighettone sparò, traendo ogni stilla di energia e ogni più riposto segreto del suo repertorio, un discreto 48'2, meno del previsto però, proprio a ridosso degli altri azzurri, ma appena dietro di loro. Quando rientrò vegli spogliatoi gli si leggeva in viso la delusione: la staffetta del miglio, la gara più bella e affascinante del programma olimpico, gli stava sfuggendo, il sogno cullato per un anno intero a faticare lungo gli argini dell'Adda e sulla pista del Campo Scuola sfumava nella notte bernese.

Un piccolo lume si accese per lui nella seconda serata del meeting quando in pista scese la staffetta italiana. Fu un mezzo disastro soprattutto a causa di Panciera, il più anziano dei quattro che dimostrò di risentire eccessivamente delle fatiche del giorno precedente. Fraschini, invece, aveva la giovinezza dalla sua: 22 anni da compiere ed energie da spendere in una stagione che non lo aveva visto troppo impegnato.

Berna avrebbe dovuto risolvere il dilemma della staffetta azzurra: lo ripropose, invece, in termini più urgenti. Il cremonese aveva dalla sua l'esperienza e la resistenza del mezzofondista, qualità di combattente tenace e generoso, capacita di dare tutto per agguantare l'avversario che fosse scattato avanti a lui. Poteva ancora temere che quel maledetto bicipite crurale che era stato all'origine di tutti suoi guai, non reggesse allo stress delle ultime settimane di preparazione olimpica, anche se i bollettini medici ormai parlavano chiaro in suo favore.

Mancavano sedici giorni all'apertura del Giochi e lui andava con la mente a quella terribile gara dell'anno prima sugli 800 metri, quando aveva portato l'attacco al vetusto record italiano di Lanzi fallendolo di soli quattro decimi e a quei quattrocento di fine stagione al meeting di Roma quando all'uscita dalla curva, mentre lottava ad armi pari con Kowalski ed Helsten aveva avvertito quella terribile fitta alla gamba destra che lo aveva stroncato facendolo ruzzolare sul tartan dell'Olimpico (quasi fosse un sinistro presagio). Ed era una gara che stava concludendo sul piede dei 47" netti.

Il sogno olimpico poteva spostarsi a Tokyo, ma Tokyo era lontana, nello spazio e soprattutto nel tempo: non vi sarebbe mai arrivato. Lui aveva fretta, tanta fretta, correva per quello.

Ci vollero quindici giorni perché i tecnici azzurri si decidessero finalmente a varare la formazione: all'ultimo istante Fraschini seppe di poter scendere in pista: prima frazione, poi Fossati, Panciera e Bonmarito. Fecero il record italiano a 3'07"7, ma non bastava. La loro avventura si chiuse nel tardo pomeriggio romano, in semifinale. Fraschini avrebbe potuto concludere a Tokyo la sua avventura olimpica, ma preferì fermarsi prima.

LA BARCA DI CATTADORI A FIESCO

Mario Capio e Tullio Pizzorno, genovese il primo, milanese il secondo, erano campioni del mondo nella vela. classe "Flying Dutchman" nel 1960, ma all'Olimpiade romana (le gare di vela si svolsero nello splendido scenario del Golfo di Napoli), pur partendo coi favori del pronostico, non riuscirono ad andare oltre l'argento. Capio e Pizzorno non erano cremonesi: cremonese era invece la loro imbarcazione, uno splendido sei metri uscito dalla fantasia e dalla grandissima esperienza, accumulata in pochissimi anni, di Danilo "Raoul" Cattadori, un artigiano divenuto in pochi anni costruttore di fama, tanto che dal suo piccolo cantiere uscirono in quegli anni le imbarcazioni destinate alle squadre olimpiche di Libano, Indonesia, Norvegia, Francia e Grecia. Cattadori era un convinto assertore della supremazia della plastica sul legno e proprio in questo materiale aveva cominciato a costruire le sue prime imbarcazioni e in soli sette anni aveva raggiunto il top nel mondo.

Velisti di tutto il mondo gli avevano improvvisamente accordato la loro preferenza e le ordinazioni piovevano pure dalla Svezia, dagli Stati Uniti, Rhodesia e Svizzera, tutte nazioni che nella vela avevano eccellenti tradizioni da difendere e che stavano sperimentando come le barche di Fiesco segnas-sero una certa supremazia sugli scafi di legno tradizionali.

Il sei metri affidato a Capio e Pizzorno era un piccolo gioiello, una barca all'avanguardia in ogni particolare: scafo, coperta, timone e deriva erano in resina poliestere e fibra di vetro, l'albero in alluminio anodizzato.

Il legno era stato usato solo per il boma e la barra del timone. Anche l'acciaio inox aveva trovato largo spazio nella costruzione di tutte le parti metalliche.

La barca era inoltre munita (altra novità di rilievo per quei tempi) di paratie complementari stagne e presentava una doppia apertura di poppa che serviva al duplice scopo di diminuire l'impatto del vento (che negli altri scafi poneva l'handicap di frenare la corsa della imbarcazione) e di costituire un rapido scarico per l’acqua imbarcata evitando così un’inutile zavorra. La barca era lunga m. 6,05 e larga m. 1,70, una superficie velica di 15 metri quadrati, un peso di 170 chilo-grammi. Il varo ufficiale avvenne in maggio nelle acque di Nervi, ma i due campioni del mondo avevano seguito da vicino la costruzione del loro scafo scendendo spesso a Fiesco ove Cattadori, allora solo trentaduenne, lavorava giorno e notte per apprestare non solo la loro barca, ma quella di parecchie altre squadre olimpiche.

CESARE ZILIOLI, LUCIANA GUINDANI E BRUNO ANTONIOLI

A Cremona si parlava di canoa da sei anni soltanto, da quando, nel 1954, Rinaldo Sacchi aveva cercato di mettere in piedi la prima squadra di pagaiatori. Incappò ben presto in Cesare Zilioli, che alla Bissolati già aveva vinto, da ragazzino un titolo italiano su una barca a sedile fisso, e da quel momento iniziò la storia, anzi l'epopea della canoa cremonese.

Cesare Zilioli era nato per andare in barca: qualunque imbarcazione gli fosse affidata, lo avrebbe visto prevalere. Fisico eccezionale: un torace possente e braccia lunghissime: Rinaldo Sacchi, con lui, fece tutti gli esprimenti possibili e diede il via, insieme all'ungherese Blaho che era stato chiamato dalla Federazione Italiana Canottaggio come allenatore del settore della canoa, alla scuola azzurra di canoa. Cesarone fu subito il più forte di tutti: nel '56, sedici anni, mise in saccoccia i primi titoli italiani juniores e cominciò la sua ascesa verso la maglia azzurra. Alla vigilia dei Giochi di Roma era già il migliore della squadra azzurra e nella sua scia, alla Bissolati erano cresciuti altri talenti: Luciana Guindani e Bruno Antonioli che al kayak aveva però preferito la canoa. Entrarono tutti nella squadra azzurra suscitando un'ondata di entusiasmo nella Bissolati che sino ad allora non aveva mai avuto la soddisfazione di vedere un suo atleta all'Olimpiade e in una sola volta ne presentava tre.

Iniziò, la loro avventura, a metà luglio in occasione del raduno federale di Castelgandolfo che da quel momento divenne la sede naturale della canoa azzurra: erano 21 i convocati che avrebbero dovuto giocarsi i 12 posti disponibili. Il solo Zilioli pareva al di sopra di tutti gli altri e non ebbe infatti nessuna difficoltà ad ottenere il biglietto per Roma. La Guindani fu grandissima beffando tutta la concorrenza e guadagnandosi il posto in K2 accanto alla Cotta-Ramusino potente atleta romana con la quale diede vita immediatamente ad un ben assortito equipaggio. Antonioli ebbe la sfortuna di trovare davanti a se due fenomenali pagaiatori, Dessi-La Macchia, poi arrivati all'argento, che lo costrinsero allo scomodo ruolo di riserva viaggiante.

Zilioli scese in acqua il 26 luglio per la gara di staffetta, ora abolita, insieme ad Ongari, Schiavi e Berton: soffriva di una leggera forma influenzale e dovette sottoporsi alla stressante fatica dei recuperi per accedere alle semifinali ed anche in K1, sui 500 metri, non era al meglio della condizione: quattro gare in una sola giornata e con parecchie difficoltà a causa di una noiosa infezione intestinale, ne minarono il rendimento.

Luciana Guindani e Cotta Ramusino trovarono una batteria difficilissima con Russia, Ungheria e Germania, una vera finale: furono quarte, ma vinsero il recupero ed anche per loro si apriva la porta delle semifinali: era già un successo per gli armi italiani.

L'Italia andò ben oltre le previsione nella giornata delle semifinali guadagnando ben cinque finali. Luciana Guindani ebbe la sua grande giornata vincendo addirittura la propria semifinale davanti ad Austria Romania.

Cesare Zilioli sfiorò l'impresa clamorosa nella 4x500. Ultimo staffettista, ebbe il cambio in ultima posizione: rimontò tutti sino al secondo posto, ma negli ultimi metri cedette clamorosamente allo sforzo tremendo cui si era sottoposto. Fortunatamente le sue eccezionali doti di recupero gli permi sero di rimettersi in corsa nel K1 ed agguantò quella finale che era il suo traguardo.

Le finali dei due nostri equipaggi non furono esaltanti: Zilioli, che ancora si trascinava i suoi malanni e probabilmente si sentiva appagato, faticò subito in partenza, non trovò mai il ritmo giusto di gara e fu nono (prima la Danimarca, seconda Ungheria, terza Svezia).

Guindani-Cotta Ramusino pagarono invece lo scotto dell'emozione. Quella vittoria in semifinale peso sopra di loro come un macigno: sentirono la responsabilità di una gara in cui sembravano dover assumere il ruolo di favorite e sbagliarono in partenza scattando subito e imponendo un ritmo che loro stesse, poi, non riuscirono a tenere. Furono settime, ma con la soddisfazione, almeno di avere osato l'impossibile e di essere le prime due azzurre ad agguantare una finale.

Cosi la Bissolati ebbe la grande soddisfazione di vedersi rappresentata ai Giochi da una sua atleta (Zilioli era militare e gareggiava per le Fiamme Gialle, Antonioli pure e vestiva i colori della Marina Militare), ma è indubbio che il grande merito dei tre atleti biancazzurri è stato soprattutto quello di aver dato origine ad una scuola che ancora oggi sta dettando legge nel mondo della canoa.

ARMANNO FAVALLI 

Armanno Favalli aveva da poco compiuto i vent'anni quando venne convocato nella nazionale giovanile, quella che avrebbe formato l'ossatura della squadra olimpica di Roma. Il debutto era avvenuto nel mese di maggio a Catania contro la Turchia (3-1 per gli azzurri) ed una delle tre reti era stata messa segno proprio dal cremonese che si era cosi guadagnato i galloni di titolare e la certezza d'esser convocato per l'appuntamento olimpico.

Una volta varata la squadra, però, Armanno non riuscì a calcare il tappeto erboso dello stadio olimpico. Rimase in panchina durante le tre partite, peraltro poco fortunate, sostenute da una squadra che era piena di uomini di talento che si sarebbe poi affermati negli anni successivi: c'erano Maldini e Trapattoni, Rivera e Burgnich, Salvadore e Bulgarelli. C'era purtroppo in porta un certo Alfieri che non riuscì mai, durante tutto il torneo, a trovare una giornata felice. Cosi l'Italia, dopo aver rifilato quattro reti alla Cina di Formosa nella prima partita (incassando anche un gol) e tre al Brasile, venne bloccata sul pareggio dall'Inghilterra (2-2). Costretta ancora al pareggio in semifinale dalla Jugoslavia anche dopo i supplementari, la squadra azzurra perdette l'accesso alla finale solo per sorteggio. Poi, mentre la Jugoslavia andava ad aggiudicarsi l'oro, ai nostri sfuggiva, contro la nazionale ungherese, pure il bronzo proprio a causa di un paio di svarioni del portiere.

Armanno Favalli, queste partite, se le era viste tutte dalla panchina, prontissimo comunque a dare il suo contributo in caso di necessità, purtroppo, nella sua posizione, giocava un certo Gianni Rivera. Fu l'anno, comunque, in cui lo sfortunato Favalli si mise definitivamente in luce, ormai appetito dagli squadroni di rango, Juventus in testa, ma la sua carriera si sarebbe interrotta ben presto su un lungo rettifilo stradale della costa adriatica.

E QUELLI CHE NON CE L'HANNO FATTA A ESSERE IN GARA

Lo sport cremonese aveva subito una netta flessione non presentando alcun suo rappresentante alle olimpiade di Melbourne, ma in vista di Roma le cose cambiarono in meglio. agli inizi del 1960 erano una decina i cremonesi che potevano aspirare alla convocazione per i Giochi cosi la partecipazione cremonese alle Olimpiadi di Roma fu abbastanza qualificata anche se, purtroppo all'ultimo istante, qualcuno dovette rinunciare. E' il caso, ad esempio, dei pugili Penna e Schiavetta ai quali proprio negli ultimi giorni, nel corso dell'ultima selezione, vennero preferiti rispettivamente Francesco De Piccoli e Franco Musso che a Roma avrebbero colto la medaglia d'oro.

Penna, De Piccoli e Masteghin, i tre pesi massimi che andavano per la maggiore, avevano chiuso la selezione con una vittoria ed una sconfitta a testa sui rispettivi avversari, (Penna aveva perduto da De Piccoli, ma aveva battuto Masteghin che a sua volta aveva superato il mestrino) ma venne scelto De Piccoli che aveva un paio d'anni in più degli altri due, non ancora ventenni ed era campione d'Italia.

La scelta, a dir il vero fu azzeccata in quanto De Piccoli usci da quella Olimpiade da dominatore, vincendo sempre per KO. Aveva faticato molto di più a vincere il titolo italiano. Franco Musso, invece, era già titolare da tempo della maglia azzurra e Schiavetta non riuscì a detronizzarlo . Si sarebbe rifatto solo un anno più tardi andando a vincere, magra consolazione, il titolo mondiale dei militari che allora, comunque, aveva ben altra valenza di oggi.

In campo ciclistico, valeva lo stesso discorso per Giuseppe Soldi: aveva trovato una stagione piena di vittorie, ma, appena ventenne, venne tenuto in disparte a favore di atleti più esperti e navigati: si sarebbe rifatto qualche anno dopo vincendo il mondiale. Però proprio nei giorni delle Olimpiadi infilò una splendida vittoria a Lastra a Signa staccando l'azzurro Tonucci che qualche giorno prima aveva chiuso l'olimpiade al decimo posto. Bissava il successo il giorno dopo a Prato e coglieva due secondi posti, nella Cusano Milanino-Guastalla e nel circuito di Asola.

Era andata meglio, invece, a Mario Fraschini che s'era guadagnato il posto nella staffetta 4x400 proprio sul filo di lana, ad Armanno Favalli, che qualche mese prima aveva debuttato nella nazionale giovanile, e soprattutto ai canoisti Cesare Zilioli e Luciana Guindani, gli antesignani della canoa cremonese, che portarono per la prima volta ai giochi i colori della Canottieri Bissolati. 

Nelle foto la sfilata di apertura di Roma 1960, poi Fraschini e Zilioli, Guindani e Armanno Favalli

Cesare Castellani


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