65 anni fa la tragedia di Marcinelle. "Così si lavorava in quella miniera". Il drammatico racconto di Davide Gialdi (morto nel 2006)
Sono trascorsi 65 anni dal tragico incendio di Marcinelle in cui persero la vita 262 minatori di cui 136 italiani. Il presidente Mattarella ha ricordato commosso quell'evento. La celebrazione di quell’anniversario di morte è occasione preziosa per ricordare il sacrificio dei tanti connazionali, e tra di loro di un folto gruppo di casalaschi, che nell’immediato dopoguerra non ebbero altra scelta se non quella di rintanarsi nei cunicoli bui e malsani delle miniere belga per racimolare qualche soldo per sé e per la propria famiglia rimasta in Italia. Furono 31 i casalaschi che per scampare alla fame tra il 1947 ed il 1956 cercarono fortuna in Belgio. Nell’immediato dopo guerra il casalasco era praticamente in ginocchio. Poche le occasioni di lavoro duraturo. Grande la risonanza, invece, data all’accordo stretto tra Italia e Belgio in base al quale l’Italia si impegnava a favorire l’emigrazione di 2000 minatori la settimana (50 mila in tutto) ed il Belgio ad assicurare le stesse condizioni di lavo- ri garantite ai belgi. E’ attraverso i manifesto affissi dalla Federazione Carbonifera Belga che i casalaschi vennero a co- noscenza di quest'opportunità di lavoro. La speranza di una buona paga e l’auspicio di migliorare le proprie condizioni di vita furono la leva che convinse diversi di loro a partire con destinazione Charleroi, Liegi e Limburgo. Ad attenderli in quei luoghi lontani da casa solo il rischio di non arrivare vivi a sera. La paga non era come ci si aspettava, il costo dell’alloggio caro e le condizioni di lavoro ancor peggio. L’impatto con la miniera fu traumatico. Nessuno era consapevole di cosa li aspettava. La gabbia su cui venivano caricati li trasportava nelle viscere della terra in pochi istanti. Qui infondo solo buio, rumori di martelli pneumatici e di nastri trasportatori. Solo polvere, quella stessa che ha lasciato il segno indelebile della sili- cosi nei polmoni di molti di loro. Il lavoro si svolgeva su tre turni (dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle 6) per sei giorni la settimana. I casalaschi erano in massima parte impegnati come manovali specializzati oppure come minatori d’estrazione. Il pagamento era a cottimo: tutto dipendeva da quanti metri si facevano. Basta questo per rendersi conto delle disumane condizioni di lavoro a cui erano costretti. Condizioni in cui la parola sicurezza non era contemplata. E la tragedia di Marcinelle ne è la conferma.
Tra i casalesi che nel 1947 andarono in Belgio c’era anche Davide Gialdi, scomparso nel 2006, La sua testimonianza, tra l'altro, finì nel volume pubblicato dal Ministero del Lavoro in occasione del 50° della tragedia. Ecco il suo racconto su come si viveva a Marcinelle.
“Leggendo i manifesti affissi all’ufficio di collocamento venni a sapere che in Belgio c’era lavoro nelle miniere di carbone...Trovare lavoro non era facile e così decisi di partire. Avevo 17 anni e ‘obbligai’ mio padre, che era contrario, a firmare l’autorizzazione ad emigrare minacciandolo viceversa di arruolarmi in marina. Partimmo in un gruppo che comprendeva Adriano Biffi, Mino Incerti, Spartaco Torelli, Valentino Cirelli e Pietro Benvenuti...Arrivammo a Charleroi con una tradotta di oltre mille emigranti alle 4 del pomeriggio del 4 dicembre 1947, giorni di Santa Barbara festa dei minatori. Scendemmo alla stazione io, Biffi e Incerti mentre tutti gli altri proseguirono per il Limburgo. Ci caricarono su dei camion e ci portarono nella località di Marcinelle dove alloggiammo in una ‘cantina’ (alloggi di proprietà delle società minerarie) gestita da un italiano...Il 5 dicembre ero già al lavoro nella miniera numero 24 di Marcinelle al turno del mattino. Il primo giorno mi dissero di seguire il capo. Già sull'ascensore che scendeva velocissimo, presi paura. Una volta arrivato in fondo percorsi a piedi circa tre chilometri di galleria. Nessuno ci aveva spiegato a cosa andavamo incontro. Pian piano vedevo davanti a me sparire gli altri uno ad uno e mi sembrava di essere rimasto da solo. Non sapevo che in realtà ognuno era entrato in ‘taglia’ (vena di carbone) al posto che gli era stato assegnato. All'inizio mi misero a fare il manovale a spingere il carbone sul ‘bac’ che era una specie di canale di metallo che, azionato da stantuffi, spingeva in avanti il carbone a strattoni. Dopo due mesi ho chiesto di passare minatore a cottimo. Lavoravo ad 830mt di profondità. Il mio numero di medaglia era il 276. Ho lavorato in taglie al- te da 80 a 50cm: a volte facevo fatica ad entrarci coricato e neppure la lampada ci entrava diritta. Dopo 20 giorni di lavoro ero già pronto per rientrare in Italia: l’ascensore che scendeva a 800mt di profondità, la paura dei crolli, una polvere che non si vede- vano neppure le lampade, il frastuono del ‘motopic’ e del carbone trasportato sui bac...ma nessuno di noi voleva cedere per primo....Ho fatto il primo mese con un solo paio di scarpe che usavo sia fuori che in miniera: avevo sempre i piedi neri! I primi soldi che mandai a casa furono 1.500 franchi che mi aveva prestato il cugino di Adriano Biffi. Pian piano la situazione è migliorata: mi sono comprato un paio di scarpe ed un vestito. Riuscivo a mandare a casa regolarmente una parte del guadagno....Nell’agosto del ‘49 decisi di tornare in Italia: il lavoro in miniera era pessimo e non si guadagnava quello che speravo. Finito il servizio mili- tare incontrai ancora molte difficoltà a trovare lavoro così decisi di andare di nuovo in Belgio: era l’agosto del ‘55. Questa volta partii con Carlo Ballerini e Guglielmo Goffredi fino a gennaio del 1957 e poi decisi di smettere”.
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