80 anni fa. Il cortile, i lavori, la gente, la giornata del 9 settembre 1943 nella casa di via Bissolati 21. La battaglia alla porta centrale della caserma Manfredini vista con gli occhi di un bambino
[…...] Ma quella mattina la sentinella non c’era. Nessuno entrava od usciva dalla caserma. Il portone era stato chiuso e la sentinella esterna ritirata. La caserma, da sempre punta centrale della nostra strada, si richiudeva su se stessa quasi a difesa da un pericolo che poteva venire dall’esterno. Ma quale pericolo avrebbe potuto venire da quella contrada amica che anche nel suo toponimo più antico ricordava la propria origine militare? Dall’antica via Vaccina, già presente sulla carta del Campi (via Vachìna per gli abitanti della zona) fino alla via Tombino (in Tumbéen) era tutto un susseguirsi di caserme; Manfredini, Pagliari, Goito, Sagramoso e S. Martino. Noi abitanti di questa strada, che fu centrale dell’antica “cittadella” fortificata, con i soldati convivevamo da sempre. Venivano nei nostri cortili e vi portavano le loro divise da rattoppare, le camicie da stirare, si fermavano a parlare dei loro paesi lontani,collocati in un’Italia ai più sconosciuta. Solo alle ragazze veniva raccomandato di non fermarsi troppo a lungo da sole con loro, per non alimentare maldicenze e rimetterci in reputazione. I ritmi della caserma finivano per regolare anche quelli della gente. Così, più che gli orologi, erano gli squilli della tromba ad indicarci quando era tempo di coricarci, si svegliarci o di mangiare. All’ora dei pasti, una piccola folla di poveri (ed indigenti) armati di cucchiaio e di indecenti contenitori ricavati da vecchi barattoli per le conserve di pomodoro, ai quali ingegnosamente era stato applicato un manico fatto con un fil di ferro raccattato chissà dove, si radunavano sull’altro lato della strada, di fronte alla grande porta. All’apparire nel vano della porta degli addetti alla corvée, si avvicinavano attraversando la strada. Si mettevano in fila indiana ed in silenzio sfilavano davanti a quell’enorme marmitta tendendo le loro gavette, nelle quali l’addetto alla distribuzione faceva scivolare un grosso mestolo di minestra o di pasta- asciutta. Era il rito quotidiano della “minéestra dei suldàat” che si ripeteva tutti i giorni, negli orari del pranzo e della cena, moderna versione del miracolo della distribuzione dei pani e dei pesci.
No, alla gente di quella strada già “Cannone” che l’amministrazione del sindaco Pozzoli decretò “si chiamasse via Spartaco, poiché a questo ribelle si ispirarono coloro che in Germania si opposero al militarismo” (molti di loro vennero uccisi durante i “moti berlinesi” e con essi Karl e Rosa2), non poteva venire nessun pericolo. Inaspettatamente ed insolitamente la signorina stava tornando dall’ufficio. La vide sua mamma dalla finestra e già si affrettava a scendere le scale per andarle incontro, preoccupata per quell’anticipato rientro. Furono una di fronte all’altra sul pianerottolo del primo piano. La signorina Gina non diede il tempo alla mamma di articolare la sua domanda che pure aveva già preparata. Fu quasi l’esplosione di un urlo liberatorio che ebbe come primo effetto quello di popolare le due logge, che circondavano sovrapposte il cortile: “i suldàat, i suldàat!”. Raccontò che giunta alla fine di via Cavallotti, girato l’angolo, aveva visto che la scalinata del palazzo delle poste era occupata da soldati italiani. Anche il terrazzo, al di là delle balaustre, era presidiato. Alcuni soldati stavano armeggiando attorno ad uno strano congegno, forse una mitragliatrice. Un soldato, probabilmente il comandante, l’aveva avvicinata per chiederle dove andasse, ma non le aveva concesso il tempo per rispondere e con fare di comando le aveva ordinato di tornare subito a casa. “Dica alla gente di non uscire! Raccomandi, soprattutto agli uomini, di starsene rinchiusi; sembra che i tedeschi li stiano rastrellando”.
Ci fu qualche parola di commento, subito tacitato da un rombo. Sembrava un tuono e molti guardarono in alto, ma il cielo era sgombro e sereno. Qualcuno aveva intuito la direzione di provenienza e stava scendendo velocemente le scale. Quasi tutti li seguirono e si ritrovarono in strada. Gli occhi si rivolsero dalla parte dove sorgeva la grande caserma. Notai che dall’asta sovrastante l’enorme portone sventolava la bandiera italiana. Era una cosa insolita. La bandiera veniva esposta sono nelle ricorrenze ufficiali o per la visita di qualche autorità. Più sotto, il portone era stato aperto. Poco oltre il marciapiede alcuni soldati si davano da fare intorno ad un piccolo cannone. Sparò il cannone, ma non vidi contro chi, in direzione del vicolo Ferrario. Ormai tutto si stava chiarendo. I tedeschi davano l’assalto alla caserma ed i soldati nostri si apprestavano alla difesa. Le armi non sarebbero state consegnate se non dopo un’eventuale sconfitta militare.
Fui spinto dentro il vano della porta e tutti ci ritrovammo in cortile. Il luogo più sicuro dove ripararci venne individuato nelle due stanzette al piano terreno, dove abitava il vecchio Giovanni. Erano le più interne e lontane dalla strada. Avevano tre piccole finestre che guardavano verso il cortile ed il loro muro più interno era anche quello che ci divideva dai rustici della strada parallela, via Ruggero Manna. Non ricordo un particolare stato d’eccitazione. Tutti percepivano che ormai le cose si andavano definitivamente chiarendo; i nostri soldati stavano combattendo contro i tedeschi, noi stavamo con i soldati. I tedeschi erano i nemici. Poco più tardi solo i fascisti li spalleggiarono.
I più irrequieti erano i ragazzi che venivano continuamente richiamati. Ma la curiosità e la voglia di vedere lo svolgersi della battaglia era tanta, più forte di una qualsiasi reprimenda. A volte il cannone taceva per lunghi minuti e si aveva l’impressione che tutto fosse finito. Era in quei momenti, mentre tutti tendevano le orecchie per captare ogni possibile suono che rivelasse quello che stava succedendo nella strada, che l’attenzione nei confronti di noi ragazzi si allentava. Complice il signor Gino ci avventuravamo fuori. Leggermente chinati in avanti, come avevamo visto fare in film di guerra, ci spingevamo oltre il marciapiede. Le case in quel punto disegnavano una leggera rientranza. Per poter vedere la porta della caserma era necessario spingersi in avanti fino a superare la successiva sporgenza. Il cannone non sempre era nella medesima posizione, veniva spinto un po’ più in avanti o ritirato di qualche passo. Anche la direzione del puntamento non era sempre la stessa, o verso il vicolo Ferrario e piazza S. Paolo o in direzione della antica osteria “Citadéla”, dove la strada si restringeva. Non vidi l’effetto dello sparo ma ancora una volta ne sentii il rombo. Tutti rientrammo precipitosamente nel cortile.
Qui volò qualche scapaccione e per l’adulto ci furono rimbrotti. Improvvisamente avemmo tutti la sensazione che il cannone fosse silenzioso da troppo tempo, che il ritmo della battaglia fosse cambiato. La pausa si prolungava troppo. Il signor Gino andò a vedere, noi fummo tenuti a freno. Ci chiamò dalla strada ed uscimmo. Il cannone non era più all’incrocio davanti al portone della caserma. La strada era vuota e silenziosa. Dall’asta portabandiera il tricolore era stato tolto ed al suo posto penzolava un lenzuolo bianco. Diventato, esso stesso bandiera: bandiera bianca. Quante volte, nelle illustrazioni dei libri di lettura della scuola elementare, avevo visto quel drappo sventolare issato sulle trincee del nemico travolte dai nostri, inferiori di numero ed in armamenti, ma sempre vittoriosi. “Il soldato italiano muore ma non si arrende.” Quella umana bandiera bianca faceva giustizia di tutto questo. Ebbi timore per i nostri e chiesi se fossero tutti morti. “No, sono dentro nella caserma, prigionieri”, mi rispose il sig. Gino. Nello scontro alcuni soldati italiani morirono, lo seppi a guerra finita[...]
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti