16 agosto 2024

Ad Ardola di Polesine Zibello è tornata la statua di San Rocco. La Festa dell'Anatra. La voce della casalese Jolanda Moro

La voce della casalese Jolanda Moro ha animato, la sera di Ferragosto, la festa dell’anatra ad Ardola di Polesine Zibello. Un appuntamento che, ancora una volta, ha richiamato sulle rive del Grande fiume, nel piazzale della bella chiesa di San Rocco, anche tanti cremonesi e casalaschi, giunti soprattutto da San Daniele Po, Gussola e Casalmaggiore. Jolanda Moro ha dato vita ad un apprezzatissimo spettacolo musicale insieme alla voce del cantante locale Francesco Nizzoli, meritandosi scroscianti applausi. La Festa dell’Anatra prosegue oggi, venerdì 16 agosto, in concomitanza con la festa patronale di San Rocco e sarà anche un’occasione, per tutti, sia in mattinata (alle 11 il vescovo di Fidenza monsignor Ovidio Vezzoli presiederà la messa) che in serata, per ammirare la chiesa settecentesca recentemente sistemata, impreziosita dal ritorno, da poche settimane, della antica e bella statua di San Rocco. Un luogo, quello di Ardola, rimasto a testimoniare gli avvenimenti miracolosi del 1746 in seguito ai quali, in tre anni, venne realizzata la chiesa (in luogo della precedente) grazie anche alle offerte di tanti cremonesi (che avevano ricevuto grazie). Lo storico ed ex sindaco di Zibello Gaetano Mistura, a riguardo, ha inviato una “pagina di storia” che, ben volentieri, si pubblica di seguito:  

“Oggi, festa dedicata al Santo Rocco, patrono di Ardola mi pare particolarmente evocativo ritornare sulla sua figura e più in generale sulla peste, morbo che nei secoli scorsi decimava le nostre popolazioni.  E’ ormai noto che il simulacro di San Rocco venne donato ad Ardola per essere esposto in un esistente, antico oratorio (piccola cappella già dedicata al santo). Nel 1631, un nobile, certo Mattia Boselli, volle in tal modo rendere grazie al Santo per essere stato risparmiato da una terribile pestilenza come di frequente accadeva all’epoca, ma che tra il 1629 e il 1631 si manifestò particolarmente virulenta e che colpì vaste zone d’Italia, fra tutte la Lombardia e soprattutto Milano. Il contagio pare fosse entrato in Italia per colpa di un miliziano della soldataglia dei Lanzichenecchi che da tempo imperversanei nostri territori.  Milano, come detto, fu la città più colpita, ma qui giova ricordare che anche da noi il morbo non scherzò, se una mano anonima ha sentito il bisogno di incidere sul capitello di una colonna del nostro palazzo Pallavicino la frase “Pestis invasit Italiam 1629”. La frase in lingua latina “la peste invase l’Italia 1629” è di facile comprensione, ma il suo autore ci fa sapere 1°) che tutta l’Italia ne era stata invasa, 2°) che verosimilmente anche il nostro paese non era stato risparmiato. Ciò appare tanto più vero se il citato Mattia Boselli avvertì l’intimo desiderio di offrire al Santo Rocco una statua che lo ritraesse. La figura in legno policromo,è presentata con l’iconografia che le è propria: il bastone con la conchiglia del pellegrino (per bere), il bubbone della peste sulla gamba e il cagnolino di cui si dirà più oltre. Il Santo, era giunto in Italia a piedi da Montpellier in Francia di cui era originario, per recarsi a Roma, dove poté incontrare il Papa. Da Roma poi, saputo della peste che stava imperversando al nord, raggiunse Rimini, poi Cesena ove si prodigò nella cura instancabile di malati e appestati fino a rimanere contagiato lui stesso. Il bubbone della pestegli procurò continue emorragie e dolori atroci, si ritirò allora in una grotta (tuttora esistente, trasformata in luogo di culto) lungo il fiume Trebbia nei pressi di Sarmato in provincia di Piacenza. La tradizione vuole che lì, durante la degenza, Rocco poté sopravvivere grazie ad un tozzo di pane che quotidianamente un cane gli procurava, sottraendolo dalla mensa del suo padrone. E’ per questo che la sua immagine è sempre accompagnata da un cagnolino al fianco, con un panino in bocca.

La peste di Milano trova nei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni un’ampia trattazione che culmina conuna delle scene più toccanti della storia della letteratura.che, per chi volesse riandare agli anni di scuola quando il brano rientrava tra i capitoli cruciali del programma scolastico, oppure per chi volesse accostarsi ad una delle pagine più emotive della nostra produzione letteraria, riportiamo qui per intero.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo.  La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, – No! – disse: – non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -.  Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: – Promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina.
La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: – Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri -.
Poi voltatasi di nuovo al monatto, – Voi, – disse, – passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.

Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme?

Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato.

(da: “I Promessi sposi” di Alessandro Manzoni – cap.XXXIV, tratto dall'aneddoto storico riportato dal cardinal Borromeo nel "De pestilenzia",

Si ringrazia Gaetano Mistura per il prezioso contributo storico. 

Eremita del Po

Paolo Panni


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