8 agosto 2024

Caorso, ancora 7 anni e 350milioni per terminare lo smantellamento delle strutture e la gestione dei materiali radioattivi presenti. La nascita e il declino della più grande centrale nucleare italiana

Era il 1°dicembre 1981 quando venne avviata formalmente la centrale nucleare di Caorso, a metà strada tra Cremona e Piacenza. 

L'investimento dello Stato ammontava a oltre 468 miliardi delle vecchie lire per mettere a terra e rendere operativo il progetto commissionato da Enel (che all'epoca era ancora un ente pubblico monopolista del settore elettricità) ed affidato ad Ansaldo, che si strutturava sulla tecnologia americana di General Electric.

Ora l'impianto è fermo dal 1990 e resta ancora in fase di smatellamento: serviranno ancora almeno altri 7 anni ed una spesa pubblica di altri 350 milioni di euro. Doveva essere la centra del futuro, è rimasta in funzione poco più di un lustro e ora è diventata il simbolo del passato dell'energia nucleare.

I numeri ci danno meglio l'idea del tipo di impegno che comportò la sua realizzazione: sono state calcolate qualcosa come 10 milioni di ore di lavoro, durante le quali intervennero 350 tecnici; per la costruzione furono utilizzate 30mila tonnellate di ferro e settemila di macchinari, edifici capaci di resistere ai terremoti ed ai venti più impetuosi, che insieme diedero vita ad un impianto in grado di fornire a regime 840 megawatt di potenza, tradotti in 5 miliardi di Kilowatt all’anno. Il più grande d'Italia.

Dopo il taglio del nastro, tutto funzionò per 5 anni, durante i quali sembrava che l'avventura italiana nel campo del nucleare avesse preso il largo. Poi quel 26 aprile 1986 il mondo si fermò alla notizia dell'incidente alla centrale di Chernobyl e l'argomento energia nucleare iniziò ad assumere tutto un altro significato, intriso di dubbi e paure. Il referendum del 1987 mise definitivamente la parola fine all'era del nucleare in Italia. 

Non passarono quindi nemmeno 10 anni dal suo avviamento, i costi nemmeno lontanamente ammortizzati, quando nel 1990 formalmente venne fermata anche la centrale di Caorso: i suoi impianti, le sue strutture e, soprattutto, i materiali in essa ancora contenuti da un'opportunità divennero immediatamente un problema. Un enorme problema.

Venticinque anni fa Sogin, l’azienda pubblica che in Italia si occupa dei progetti di decommissioning degli impianti nuceari  e di gestirne le scorie, ha iniziato i lavori di smontaggio del reattore di Caorso, che da sempre tutti chiamano Arturo. Ne serviranno altri 7 di anni per arrivare alla fase “brown field“, quella che per i tecnici è il campo di terra, lo smantellamento di tutte le strutture.

Sette anni in cui dovranno essere gestiti oltre novecento metri cubi di rifiuti radioattivi ancora presenti nel sito, che presentano diverse caratteristiche di rischio: dai rifiuti a vita molto breve che possono essere smaltiti come quelli convenzionali ai rifiuti di attività molto bassa e rifiuti di bassa attività, che diventano innocui nell’arco di 'soli' 300 anni; fino ai rifiuti di media attività e di alta attività con migliaia o centinaia di migliaia di anni di vita. Senza dimenticare il combustibile esaurito 'parcheggiato' fino al 2025 in Francia e Regno Unito.

Questi rifiuti, una volta trattati, saranno destinati allo stoccaggio nel deposito nazionale, che però attualmente non esiste ancora e per il quale deve ancora essere identificato il sito; una volta definito, serviranno almeno quattro anni per la sua realizzazione.

Lo smantellamento delle strutture invece prevede la demolizione dell’edificio del reattore Arturo, che tra tutti è il più grande e quello con maggior grado di contaminazione, con un struttura imponente 'armata' da 500 chili di ferro per metro cubo di calcestruzzo. Al suo interno si trovano ancora i macchinari di produzione. Accanto a questo, dovrà essere smantellato anche l’edificio degli impianti ausiliari. Infine, ma non di minore impatto, ci sono le circa 800 tonnellate di resine esauste e 60 tonnellate di fanghi radioattivi stoccati in 5.900 fusti da trattare e spedire in Slovacchia.

Nel 2019 gli ultimi due incidenti nella centrale, a giugno e settembre: fortunatamente si trattò di guasti al sistema elettrico che non generarono impatti dal punto di vista della sicurezza nucleare e protezione sanitaria, ma che comunque ripropongono il tema della festione dei materiali radioattivi e l’urgenza della localizzazione del deposito nazionale.

Nel frattempo Arturo rimane -ormai da oltre 30 anni- nella campagna tra Cremona e Piacenza come emblema di un passato che non è mai riuscito a diventare quel futuro per cui era stato progettato.

 

Michela Garatti


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commenti


Lauri

8 agosto 2024 11:36

Grande errore, nel tempo sarebbe stata adeguata e modificata, politica nn ha mai capito nulla x ignoranza congenita , è tempo di finirla con le seghe mentali, è ora di guardare la realtà,abbiamo mantenuto stipendi e posizioni d'ora ,e nn è finita ,quando a tutt' oggi siamo circondati da centrali , è ora di finirla 🤷

Mauro Tironi

8 agosto 2024 13:15

Dopo anni di tentativi andati male (gli slot a disposizione si esauriscono subito), quest'anno sono riuscito ad entrare e visitare tutto il sito nucleare. Fa una certa impressione esserci dentro, anche se le spiegazioni dei tecnici presenti sono più che tranquillizzanti. L'emozione più forte è stata quando, bardati di tutto punto e dotati di dosimetro per le radiazioni, ci hanno fatto entrare dentro Arturo.
Impressionante davvero. Nessuna radiazione percepita dai dosimetri individuali ma, per quale motivo non so, dentro all'edificio del reattore mi si è scatenato un mal di testa folle, terminato una volta uscito. Però l'emozione di camminare sul "tappo" del reattore è stata intensa.