10 novembre 2023

Era il tempo del "fa' sanmartìn", la stagione triste di chi doveva lasciare la cascina in cerca di un povero futuro

Una volta c’erano i ‘nebbioni’ o la pioggia a caratterizzare la fine di ottobre e l’inizio di novembre  ed in mezzo a queste giornate grige e fredde spiccava l’estate di San Martino, qualche giornata di bel tempo intorno all’11 novembre, festa del Santo appunto. Una parentesi perfetta per chi doveva caricare i suoi pochi averi e traslocare verso una nuova cascina per seguire un nuovo lavoro. 

Era la stagione del mosto, delle castagne, delle zucche e del vino nuovo. Del resto ce l’ha spiegata bene Giosuè Carducci nella celeberrima ‘San Martino’ che tutti abbiamo imparato a memoria alla scuola elementare (chissà se la insegnano ancora oggi?).

«Fa’ sanmartìn»

Nella cascine l’estate di San Martino però aveva un significato ben specifico, che dal santo prendeva solo il nome, ma che raccontava una realtà fatta di lavoro e povertà: questo infatti era il periodo del 'Sanmartìn', del trasloco, del raccogliere la propria vita e spostarla in un’altra cascina.

La fine dei lavori nei campi infatti, molto spesso, coincideva con la fine degli accordi coi ‘padroni’ e molti dei braccianti quindi si trovavano senza un lavoro (venivano ‘disdettati’ in gergo) e, ancora peggio, senza l’abitazione, che veniva concessa ai dipendenti impiegati nei lavori in cascina i quali non potevano certo abitare a troppa distanza dal posto di lavoro, non avendo altro mezzo di trasporto che le suole delle scarpe e soprattutto non avendo abbastanza potere economico da permettersi altre spese per l’alloggio.

La casa quindi era quello che oggi potremmo definire un ‘benefit’ per il lavoratore, insieme alla legna (contata in un certo numero di fascine ed in quintali di ceppi per camini o stufe), la possibilità di tenere qualche gallina ed il maiale. Le oche invece no, perchè avrebbero mangiato l’erba che doveva essere destinata alle ‘bestie’ in stalla e spesso ciò non veniva concesso dai ‘padroni’.

«Il san martino lo facciamo il dieci, di domenica» sono le parole della Vige, nel romanzo ‘Dove non viene mai sera’ di Gianni Tortini, che nella pagine a seguire racconta senza troppi giri di parole questa pratica: «Sul carro erano già sistemate le stie delle galline e dei conigli; ora la Vige trascinava una grossa valigia di cartone. [...] Al ritorno sul carro c’erano anche la lettiera di ferro, gli elastici, i materassi». Ecco, questi erano i beni posseduti dai braccianti agricoli e dai bergamini: qualche vestito, i materassi e le reti dei letti, un paio di galline e per chi lo possedeva, anche il maiale. Tutto sul carro con moglie e figli e via verso una nuova cascina. Le vite restavano le stesse, sempre povere e sfiancanti per il duro lavoro fisico, cambiava solo il contesto (la cascina e l’aia) in cui le giornate si susseguivano, stagione dopo stagione. 

Tutto questo per la gente delle cascine non si chiamava ‘trasloco’, termine fuori dalla portata dell’uso quotidiano, semplicemente era ‘Fà Sanmartìn’. 

La casa e la stalla

Molto spesso le abitazioni messe a disposizione di bergamini e ‘paisàn’ con le loro famiglie non era proprio un posto accogliente, si componevano di poche stanze sguarnite, col pavimento in terra battuta, una stufa o un camino per scaldare e cucinare, poche masserizie; niente acqua corrente, quella si prendeva alla ‘tromba’ nell’aia o sotto qualche portico mentre della corrente elettrica non si aveva quasi mai traccia.

«In inverno sui vetri e sulle travi si formava la brina -raccontavano i nonni- la vedevamo quando andavamo a letto perché dormivamo nel sottotetto e faceva un freddone». Sottotetti e granai spesso erano infatti la ‘zona notte’ della casa, dove tra il letto ed il cielo c’era solo la faglia del tetto a protezione, mentre il bagno personale si trovava nell’antina del comodino o sotto il letto e si chiamava ‘urinàl’ (vaso da notte per i più forbiti).

Nelle lunghe sere invernali, quando il freddo si faceva davvero pungente tra umidità, neve e ghiaccio, la stalla diventava un punto di incontro e di socialità perché era una delle poche zone dove si poteva godere del tepore prodotto dal corpo e dal respiro degli animali. I neonati in inverno venivano lavati nella stalla proprio perchè era l’unico posto che garantisse un po’ di tepore e spesso questo ambiente diventava il ritrovo serale per scambiare due chiacchiere prima di correre al riparo sotto le coperte, dove grazie allo scaldino con le braci, si poteva trovare un po’ di caldo. Erano davvero tempi eroici, quelli.

Sembra incredibile pensarci oggi, a distanza di nemmeno un secolo, ma nelle nostre campagne i nostri nonni e genitori possono raccontare queste esperienze di vita.  

Chi andava e chi restava

Dunque, in questo contesto la vita scorreva giorno dopo giorno e pian piano si arrivava ogni anno all’inizio di novembre che, come si diceva poco sopra, coincideva con la fine della stagione nei campi e spesso con la disdetta del ‘contratto’ e quindi non restava che raccogliere le poche cose che in genere le famiglie dei lavoratori avevano, caricarle su un carretto e traslocare nella nuova cascin. 

Ed era fortunato chi se ne andava avendo già un altro lavoro e quindi un altro alloggio: capitava a volte che non fosse così, allora non restava davvero che confidare nella carità e nell’ospitalità di chi era un po’ meno povero, anche solo per il fatto di avere un tetto sopra una testa ed un camino su cui cucinare un pranzo ed una cena messi assieme spesso con non poca fatica.  

 «Noi siamo stati fortunati perché abbiamo sempre avuto il lavoro, ma nella nostra cascina ogni anno, all’inizio dell’inverno arrivava una coppia di sposini a cercare ospitalità. Non avevano un lavoro ed una casa, ma cercavano un posto dove trascorrere l’inverno. Li chiamavamo Romeo e Giulietta. Arrivavano con le loro poche cose e i padroni li facevano rimanere nella stalla per i mesi più freddi, poi alla primavera ripartivano e li rivedevamo di nuovo all’inizio dell’inverno. Un anno però non sono ritornati e da quella volta non li abbiamo più rivisti. Mah, chissà che fine hanno fatto».

 

Michela Garatti


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commenti


Mauro Tironi

10 novembre 2023 12:26

Splendido articolo. Mi ha ricordato la vita dei miei nonni e il motivo di fondo per il quale mio padre se ne è affrancato, trovando stabilità e vita migliore per la sua famiglia.

Manuel

10 novembre 2023 19:36

Pure i miei genitori si sono affrancati, andandosene dalle campagne cremonesi e dirigendosi verso la metropoli: Milano. Di sicuro caricandosi di tante fatiche, sacrifici, frustrazioni, ma convinti di poter aspirare all’emancipazione, almeno dal punto di vista delle necessità primarie. Era la prima volta che una generazione poteva ambire concretamente a ciò e la speranza si concretizzò. I miei genitori, come altri immagino, non sapevano che quel difficile, ma magico periodo incarnasse il frutto di due secoli di lotte, rivendicazioni, elucubrazioni filosofiche, come parimenti importante fu l’esito della seconda guerra mondiale, una mostruosa carneficina che ha sconvolto e coinvolto quasi l’intero globo. Oggi faremmo bene a ripensare e sottolineare quei fatti e quegli aspetti, lontani ed apparentemente tramontati, perché nulla è scontato ed i nostri agi, quanto le sicurezze, potrebbero traballare o svanire nel mentre ci trastulliamo con una giornata allo stadio, una serata affossati sul divano a sopportare un varietà o fuori casa a divorare una sacrosanta pizza.

claudio

10 novembre 2023 20:05

...ai "padroni stavano più a cuore le bestie" che gli umani..., basta vedere i vari film sull'argomento, dall' Albero degli Zoccoli a Novecento, dalla neve nel bicchiere a Venne un uomo... che vita, poveracci!!!!!!!!!!!!!

ennio serventi

11 novembre 2023 09:29

Buon Giorno. Qualche riserva sulla considerazione che la casa fosse un "Benefit". Questa, al pari dell'orto, della legna, dei tutoli da bruciare, del posto dove allevare pochi polli , il maiale ed altre ancora , faceva parte a pieno titolo della retribuzione. Era quella corrisposta "in natura", un residuo del baratto. BElla la poesia, ma qui da noi il tempo del sanmartino non era quello per nostalgici pensieri ma, molto spesso, quello dell'attuarsi del ricatto e della punizione che i padroni (ringrazio il signor Claudio per avere riscoperto questa parola ormai sostituita da altre locuzioni fuorvianti) infliggevano a quelli che avevano, per ottenere qualche miglioramento delle misere condizioni di vita, "incrociato le braccia". Nel 1949 la vendetta del padronato agrario cremonese, nei confronti di chi aveva scioperato, si concretizzo infliggendo loro ben undicimila (11.000) disdette. Quel periodo è ben descritto da Enrico Fogliazza nel suo ultimo libro intitolato, appunto, "Maledetto Sanmartino"

claudio

11 novembre 2023 17:56

Sono io che ringrazio sempre doverosamente il Signor Serventi per le cortesi parole nei miei confronti e Lo invito a perseverare nel raccontare pagine di vita vissuta dei nostri nonni.