28 settembre 2024

Il cross-over incomparabile dell’ ”Orfeo ungherese”, Roby Lakatos, e la sua band in un teatro purtroppo semivuoto

Il pubblico di stasera è uscito da teatro canticchiando, come è giusto che succeda con un programma da café chantant, se pur così particolare, come quello a cui abbiamo assistito. 

Ma le parole che avremmo dovuto cantare, considerando il modo in cui prese il volo la folgorante carriera di Roby Lakatos, avrebbero dovuto essere “eravamo quattro amici al bar”.

Riavvolgiamo il nastro.

Siamo negli Ottanta, il bar ristorante che ci interessa, il “Grand Mayeur”, si trova a Bruxelles, ed è il posto in cui abitualmente si esibisce con la sua band il giovane Roby Lakatos. Tra gli amici che alla sera siedono al tavolo, però, c’è anche uno tra i più grandi violinisti di tutti i tempi, il leggendario Sir Yehudi Menuhin, oltre ad altri concertisti di fama mondiale che fanno parte della giuria del concorso “Queen Elisabeth International Competition”

Si narra che anche il celebre Philippe Hirschhorn, quando insegnava a Bruxelles, fosse solito dire agli allievi che non sapevano eseguire alcuni colpi d’arco virtuosistici: “andate a vedere come lo fa Lakatos”.

Detto fatto, Menuhin invita Lakatos a suonare con lui, e a cimentarsi anche con i capolavori della letteratura violinistica classica. Da allora è passato solo qualche decennio e il successo di Lakatos è divenuto planetario.

Sette generazioni separano Lakatos dal suo avo Janos Bihari, leggendario violinista ammirato da Bramhs e Liszt,  ma i segreti del linguaggio musicale gitano è stato tramandato senza soluzione di continuità di padre in figlio. Dal minuscolo violino 1/16 con cui Lakatos ha iniziato a suonare all’età di due anni, fino ai palcoscenici di tutto il mondo e alle collaborazioni con i più famosi musicisti di tutti i tempi.

Musica gipsy dunque, quella che abbiamo ascoltato stasera, ma mescolata con elementi classici. Mai uguale a sé stessa, letteralmente sfuggente a qualsiasi tentativo di classificazione.

Dopo una breve presentazione della serata a cura di Roberto Prosseda, coordinatore artistico di Cremona Musica, affiancato da Valentina Lo Surdo, in un teatro sorprendentemente semivuoto per un evento di questa portata, ecco arrivare i protagonisti della serata. Non ci sono leggii, sul palcoscenico, e forse è questo il fatto più eclatante. 

Nei contrattempi che sono la cifra stilistica distintiva della musica gipsy il primo brano ci regala uno strepitoso solo del cimbalon, suonato da un eccezionale Lazlo Racz, che è solo un assaggio di quello che gli incredibili musicisti creeranno per gli ascoltatori durante la serata. I compositori passano quasi in secondo piano rispetto ai performer, perché che sia Hubay, Basband, o Smeets, tutto ciò che Lakatos e i suoi suonano diventa qualcosa che si trasmuta nella loro lingua madre. Inafferrabile, e indecifrabile, se vogliamo. Lakatos ci regala una ballad in duo con il meraviglioso pianista e sembra riecheggiare Piazzolla, ma la maestria di Robert Szakcsi Lakatos ci fa illudere di udire il mitico pianista jazz Oscar Peterson, e sappiamo che non è possibile. Parlare di contaminazioni è riduttivo, per descrivere brani, come A night in Marrakesh, il cui autore è lo stesso Lakatos, in cui compaiono atmosfere nordafricane (in un appassionante duello sonoro tra violino e cimbalon), che però trascolorano anch’esse in una czárdás indiavolata.

Così anche la Fire Dance, in cui Lakatos lascia la scena ai suoi musicisti in un moto perpetuo impressionante, che nella sovrapposizione di pianoforte e cimbalon propone un impasto timbrico straniante, alieno a qualsiasi colore musicale ‘occidentale’.

Il cameo di Michael Guttman, violinista, direttore artistico e direttore d’orchestra, è un momento di invito alla riflessione; sulle note del celebrato tema dal film Schindler’s list e del Liebesleid di Kreisler i due musicisti dialogano amabilmente come vecchi amici, ma a un cenno impercettibile del re il gruppo si anima e impreziosisce le volute sonore dei solisti.

Lakatos incanta, ammalia, il suono dolcissimo del suo Giovanni Battista Rogeri non ha eguali, ma quello che lascia strabiliati è che questo manipolo di formidabili musicisti dia l’impressione di averci ammesso come spettatori al loro conciliabolo in cui, come nella fucina di Efesto, vengono forgiate in continuazione creazioni sonore multiformi. I Rom non hanno una nazione, ma la loro musica ci rivela che non avere una nazione non è necessariamente un male, perché significa possederle tutte. E’ forse questo che ci destabilizza e sfugge alla nostra comprensione. 

Il programma ha regalato ancora altri momenti di pura ebbrezza con Il volo del calabrone, ennesimo pezzo di bravura del cimbalista che ha strappato lunghissimi applausi, e un altrettanto emozionante solo del pianista che ha spaziato tra stilemi romantici e jazz con inventiva magica e felicissima. 

Sorpresa finale con la presenza sul palcoscenico del violoncellista, compositore e liutaio trentino Nicola Segatta, uomo schivo e gentile dai mille talenti, con cui Lakatos ha improvvisato un incantevole duo, per poi chiudere la serata con la czárdás di Monti insieme a Guttman. 

Ottimi tutti, i ragazzi meravigliosi di Lakatos, Lazlo Boni, fidatissimo secondo violino, Gabor Ladanyi alla chitarra, Vilmos Ciskos al contrabbasso. Commovente come abbiano annuito scambiandosi sguardi di approvazione quando The King ha invitato un riluttante Nicola, nel silenzio degli astanti, a eseguire il suo solo.

Non importa dove i Rom abbiano viaggiato nel mondo: ovunque siano stati hanno sempre portato la loro straordinaria musica durante il viaggio. E stasera è stato bello averla ascoltata, per i pochi fortunati che ci sono stati, anche nella sonnacchiosa Cremona. 

Angela Alessi


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commenti


Gualtiero

28 settembre 2024 07:22

Un teatro semivuoto con un artista tra i più grandi e Cremona piena di gente per la Fiera
Incomprensibile e inaccettabile

Massimo

28 settembre 2024 10:53

Spiace per lo scarso pubblico ma grazie per l'articolo, brillante e competente.