La Napoli ferita e tragica di Eduardo e la musica colta e raffinata di Nino Rota per il capolavoro del '900 che affascina il Ponchielli
Il sipario sulla stagione lirica del teatro Ponchielli è calato, ieri sera, con “Napoli milionaria”, uno dei capolavori del Novecento musicale italiano. In scena “la semplice e triste vicenda degli uomini alle prese con la Storia che non sa nulla delle loro singole vicende personali; fatte di reduci inascoltati, ragazze sedotte e abbandonate, madri divenute amorali, più che immorali, figli che muoiono così per caso”. La regia di Arturo Cirillo e la direzione di James Feddeck restituiscono appieno la bellezza di questo grande lavoro corale carico di realismo, tanto divertente quanto tragico. Così moderno e attuale da conquistare il pubblico in sala. Merito del testo di Eduardo De Filippo ma anche della musica di Nino Rota che riesce a tratteggiare personaggi, ambienti e stati d’animo con efficace immediatezza espressiva, facendo parlare la (sua) musica con una profondità e una ricchezza di dettagli che vanno ben oltre le capacità comunicative della parola recitata. Sempre esposta con grazia e fantasie autentiche, in un gioco straordinario di scorci, allusioni, richiami. Tutto lo spettacolo, come evidenzia il regista Arturo Cirillo, “si intona alla natura ondivaga della partitura, divenendo a volte realistico, altre epico, altre ancora quasi un musical”.
L’interpretazione del direttore americano e dei “Pomeriggi Musicali” rende ben evidente il valore della musica che, forse più che in ogni altra opera lirica, non è mai (solo) servizio della parola e, tantomeno, è semplicemente sfondo sonoro. Al contrario, nella loro lettura, le note diventano il dramma stesso, le persone che lo abitano e le passioni che lo agitano. Non è un caso che, nel terzo atto, un piccolo ensemble di strumentisti lasci il golfo mistico per suonare direttamente sul palco. È, forse, anche per questo protagonismo delle note che le due ore della rappresentazione propongono una non comune varietà di stili e di temi, moltissimi originali, altri evidenti citazioni di colonne sonore di film che spaziano tra Fellini e Visconti: una piacevole coincidenza, dal momento che proprio ieri, 20 gennaio, si celebrava la “Giornata mondiale del cinema italiano". Basti, in proposito, il terzo atto, in perenne alternanza e quasi sospeso tra l’atmosfera della festa e quella della tragedia. Proprio la musica contribuisce a rendere differente l’opera tanto dalla commedia originaria quanto dalla sua trasposizione cinematografica, rispetto alle quali i toni si fanno più cupi, per la disillusione dettata dalla consapevolezza del degrado di valori (non solo a causa della guerra) e allo scivolare verso il basso della dignità umana. Una narrazione che, soprattutto, all’inizio propone scene corali o comunque con moltissimi personaggi in scena. Poi l’esposizione progressivamente indugia su formule stilistiche e meccanismi drammaturgici più in linea con la tradizione operistica, che tuttavia Rota rilegge con estrema sofisticazione sviluppando i motivi musicali di ogni personaggio che prende forma, nella propria identità complessa, sul palcoscenico. Come, solo per citare qualche esempio, il Don Gennarino interpretato da Mariano Bucciano. All’inizio – come lo definisce il brigadiere (Alberto Comes) – è “un truffatore coraggioso e matto” ma poi torna dalla guerra completamente devastato e rientra in una casa che lo ha dimenticato in tutto. Solo la figlia Maria Rosaria gli dimostra un po’ di affetto. Con una presenza scenica notevole rende evidente, anche nel gesto e con una parte che lascia ampio spazio alla recitazione, lo smarrimento nel suo animo. Ugualmente bravo Riccardo della Sciucca. Dà voce a Enrico Settebellizze, un giovanotto tanto spregiudicato negli affari (o nel malaffare) quanto dolce e romantico nel duetto in cui dichiara il suo amore per Amalia e le propone – senza successo - di fuggire insieme. La sua è, forse, la parte “tecnicamente” più difficile dell’opera, quella più strettamente legata alla tradizione lirica. Eppure supera con sicurezza ogni insidia della partitura. Impossibile separarlo da Amalia. Clarissa Costanzo è la più applaudita dal pubblico del Ponchielli che conquista con l’interpretazione umanissima (quasi una redenzione) della “tragica ninna nanna” che questa madre dolente canta al figlio morto. Ne scaturisce una forza espressiva e una profondità straordinaria. Poco importa se il finale (di Rota e De Filippo) sembra quasi non completamente risolto. Meritano un plauso anche le altre voci. Da Maria Rita Combattelli a Marco Maglietta (rispettivamente nei panni dei figli di don Gennarino, Maria Rosaria e Amedeo), fino agli altri artisti in scena, troppo numerosi per essere passati in rassegna.
Ciascuno contribuisce all’affresco di una Napoli dall’umanità ferita e fragile, non solo materialmente povera, ma presaga nei segni di un’inconsapevole rovina interiore. Resa con un linguaggio musicale – quello di Nino Rota - colto e raffinato ma sempre melodico e orecchiabile, latore di messaggi semplici e immediati. E come tale deve essere affrontato.
Fotoservizio di Gianpaolo Guarneri/FotoStudio B12)
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