Ottant'anni fa quel presepio smontabile di Giovannino Guareschi costruito nel lager nazista
San Francesco il Presepio lo aveva “ideato” nel 1223, ottocento anni fa. E ottant’anni fa, il Natale del 1943, Giovannino Guareschi costruì il suo Presepio nel Lager: «Ho trentacinque anni, ma mi ricordo che un giorno ne ho avuti otto e, rimboccati i baffi, mi costruisco un piccolo Presepe di cartone. Lo faccio smontabile: non si sa mai». Questo era il piccolo presepio del Lager: un presepe che Guareschi porterà con sé, appunto perché smontabile, durante gli oltre due anni di prigionia in quelli che chiamava «gli alberghi del signor Hitler».
Giovannino passò due natali da prigioniero o, meglio, internato nei Lager nazisti e mai perdette la fede, come neppure perdette la speranza, al punto da immaginare qualcosa che sarebbe successo parecchi anni dopo, con il titolo «Il Presepe di Beniaminovo. (il primo campo di prigionia nazista in Polonia dove venne recluso ndr.) Allora la maggior parte di noi chiusi nel reticolato, aveva dimenticato che, tutt’attorno alla siepe, c’erano uomini che nascevano, vivevano, morivano, pensavano, amavano. Aveva dimenticato che, al di là dal filo spinato, esistevano l’arte, la carità, l’etica, l’avvenire, la filosofia, la storia e l’estetica. Si era convinta che tutto il mondo fosse ridotto ai pochi palmi di sabbia delimitati dalla siepe e, persa la nozione dei grandi spazi e delle cose eterne, aveva adeguato l’occhio e la mente alle angustie del suo nuovo mondo. E così, la maggior parte di noi era arrivata a discutere giorno e notte di grammi, ma già il grammo sembrava qualcosa di troppo grande, e già taluno pensava, probabilmente, ai nuovi orizzonti che si sarebbero aperti passando nel campo delle molecole e degli atomi». Evidentemente la sensazione di precarietà e il non conoscere altra realtà che quella giocoforza ristretta fra i confini del reticolato, faceva considerare ai prigionieri enorme anche il pensiero di un solo grammo ma, ecco, Giovannino non perde la sua capacità di immaginare situazioni paradossalmente divertenti e, perciò, si mette nei propri panni molti, moltissimi anni dopo: «Quanti anni fa? Non contiamo gli anni morti: sono sempre troppi e si abbrevia l’avvenire. Il capitano Novello dipinse e ritagliò sul cartone un grande Presepe con angeli e campane e, sullo sfondo, un paesaggio delle nostre terre e, fra i pastori adoranti, un gruppo di internati. Quando, dopo tanto tempo, rivedemmo le nostre valli e ci lasciammo, ci dividemmo in cinque i pezzi del Presepe: a Novello lo sfondo, a Rebora il gruppo degli internati, a Malarini la schiera dei pastori, a Malavasi il tetto della capanna con gli angeli e le campane, a me il gruppo col Bambinello e il resto della capanna. Ogni anno, all’Epifania, ci saremmo radunati in una località stabilita di volta in volta, e ognuno avrebbe portato il suo pezzo, e il Presepe sarebbe stato ricomposto. Ma, il primo anno, al Presepe mancò il tetto con le sovrastrutture degli angeli e delle campane: e al posto del tetto e degli angeli mettemmo il telegramma di Malavasi. Il secondo anno mancò al bambinello, oltre al riparo del tetto (e stavolta non arrivò neppure il telegramma) l’omaggio terreno dei pastori. Malarini era in viaggio di nozze e il Bambinello, invece di pecorelle, dovette accontentarsi di pochi candidi confetti. Il terzo anno il gruppo degli internati disertò. Né ritornò il tetto, né si fecero vivi i pastori: il poeta Rebora (Roberto), abbandonato l’Ermetismo, aveva composto versi per il Cordial Campari, quindi, datosi alla regia cinematografica s’era stabilito a Roma e fabbricava film a grande successo sfruttando il vecchio Macario il quale piacerà sempre al nostro pubblico. L’anno seguente il paesaggio dello sfondo si trasferì in Africa assieme al titolare Novello; i vecchi, consunti colori dell’Europa oramai non bastavano più al nostro pittore, e soltanto poteva attirarlo il fascino dei colori impossibili di quelle straordinarie terre. Il vecchio Presepe di Beniaminovo rinasce ancora ogni anno, e il Bambinello dalla sua squallida capanna scoperchiata priva di angeli e di campane e senza più il panorama del bel tempo che fu, invano cerca davanti a se le antiche schiere di adoranti».
Un modo divertente, ma poetico, di raffigurare proprio quel piccolo, piccolissimo presepio che Giovannino aveva costruito per sé in prigionia, proprio il Natale del 1943. Nove anni dopo la liberazione Guareschi sarà carcerato per 405 giorni a Parma, condannato per diffamazione nei confronti di Alcide De Gasperi. Rifiutato l’appello, Giovannino, preceduto dal motto «per rimanere liberi, bisogna a un certo punto, prendere la via della prigione», riprenderà la sacca di «Kriegsgefangene» (internato militare) e si presenterà ai cancelli del carcere ricavato, al tempo delle soppressioni napoleoniche, dalla chiesa e dal convento di San Francesco del Prato dove oggi grandissime proiezioni mostrano tutte le natività parmigiane. Con sé, oltre le poche cose permesse dall’amministrazione carceraria, Guareschi porta anche il presepio del Lager. Quello vero, non quello raccontato e solo immaginato con la partecipazione degli altri prigionieri; il presepe sullo sfondo del quale, oltre la cometa fatta con la stagnola delle sigarette, c’è la scuola di Marore. Dove lo aspettavano la moglie Ennia-Margherita, i figli Alberto e Carlotta e i loro nonni Primo Augusto e Lina. Il luogo dove, scrisse lo stesso Giovannino nel suo «Diario clandestino», stava, pur nel dramma del Lager, «il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina». Il giorno di Natale del 1945…
Nella foto il presepio di Peppone e don Camillo
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