12 giugno 2021

Vega Gori di Casalmaggiore e Renato Chirici di Cremona, partigiani nelle video-interviste del Memoriale di Gad Lerner e Laura Gnocchi

Il nome di battaglia di lei era Ivana, per tutti 'Ivana la partigiana'. Lui ha perso la madre e la sorella, uccise dai nazifascisti. Ci sono anche i racconti di due cremonesi tra le nuove 180 video-interviste con uomini e donne protagonisti della lotta di Liberazione, anziani ora, giovanissimi allora, che, con le loro parole e i loro volti, arricchiscono il Memoriale della Resistenza Italiana. Un prezioso scrigno della nostra storia, frutto dell'appassionato lavoro di ricerca sul campo, promosso dall'Anpi e condotto da Gad Lerner e Laura Gnocchi (ex direttrice del Venerdì di Repubblica), e pubblicato sul sito noipartigiani.it. “Ciascuno di loro, nella grande varietà delle estrazioni sociali e degli orientamenti culturali, testimonia una scelta di libertà”, scrivono i due giornalisti.
Vega Gori è nata a Casalmaggiore il 25 ottobre 1926 e da giovane si è trasferita con la famiglia a La Spezia. I suoi ricordi partono dall'8 Settembre. “Una gran confusione. Chi tornava a casa, chi si nascondeva e chi cercava vestiti borghesi per non farsi prendere dai tedeschi. Fra noi giovani parlavamo, non si poteva restare così, dovevamo fare qualcosa. Abbiamo pensato di metterci in contatto, attraverso suo figlio, con un antifascista che faceva parte del Soccorso rosso. Un francese è rientrato apposta per cercare di organizzare le cose, è venuto parecchie volte a casa mia”. Vega aveva due fratelli. “Uno è rimasto in paese perché era sposato e aveva un figlio, l'altro è andato sui monti, nel Parmense”. E lei, la sorella? “Attaccavamo biglietti sui muri, sui pali, dove capitava: 'Abbasso i fascisti', 'Bisogna reagire'. Parole da ragazzi. Poi la cosa si è fatta più seria”. La svolta quando la diciassettenne parla con un importante esponente della Resistenza. “Mi ha fatto tante domande: 'Te la senti? Se ti prendono, ti ammazzano'. Con l'incoscienza della mia gioventù, ho detto: se mi prendono, saluto e non ci sono più. Sapevo scrivere a macchina, ho fatto solo la quinta elementare ma mia mamma, con grandi sacrifici, ha voluto che frequentassi un corso di dattilografa. Sono stata assorbita dal PCI perché, volente o volente, era quello che teneva le redini anche se c'erano altri partiti. Scrivevo le relazioni del CLN provinciale”. Poi un altro passo ancora. “Portavo i dispacci ad altre staffette che a loro volta li portavano sui monti. Tanti chilometri su per i boschi, a piedi e in bicicletta, ci si incontrava nei posti più impensati. Avevo tanta paura la prima volta, meno dopo, quando ho cominciato a conoscere le zone. Portavo i messaggi o li ricevevo. C'era un comando dei tedeschi: sono stati anche stupidi, passavo avanti e indietro, ma loro si limitavano a fischiare”. Un giorno, però, è stata fermata. “Erano due ragazzetti, con un fucilone: dove vai tutta sola? Io: cerco un posto dove dormire per andare da mia zia malata. Mi hanno accompagnato in un albergo dove c'erano solo tedeschi. Mi sono chiusa nella mia camera. La nostra voglia di fare, la speranza era tanta che la paura veniva combattuta”. Dalla guerra al dopoguerra. “Che Italia era? Un'Italia con la miseria nera, lì per lì. In seguito è andata un po' meglio. Sempre con le lotte, si sono ottenute parecchie conquiste: prima di tutto la Costituzione, che dice tante belle cose anche se non tutte messe in pratica”.
Drammatico, e pessimista, il racconto di Renato Chirici, nato a Cremona il 28 settembre 1929. Era uno studente e ha fatto la Resistenza a Bologna nella Brigata Stella Rossa Lupo. “Una staffetta, una donna, un'amica di mia sorella, mi ha accompagnato vicino alla sede del raggruppamento partigiano. Venivamo da un ambiente antifascista al massimo. Mia sorella, che frequentava il primo anno delle Magistrali, era già nella Resistenza. Sono andato in montagna con una staffetta partigiana, Nerina, che poi è stata uccisa”. Renato ammette: “Avevo paura tutte le volte, era sempre una situazione di pericolo. La guerra del partigiano era attaccare, poi ritirarsi. Non si aveva una meta sicura, dopo ogni azione si cercava un rifugio”.
Erano in tanti e di diverse provenienze con lui. "Contadini, studenti, un po' tutto il popolo italiano, specialmente donne. L'idea fascista della donna era medievale, a livello feudale. Invece è proprio dalle campagne, dalle montagne, dove c'erano povertà e la lotta per il pane e per avere la polenta su tavolo, dove si lavorava dalla mattina alla sera, è da lì che nacque la donna partigiana”. Al ritorno nella sua casa in città si è ritrovato solo. “Mia mamma e mia sorella sono state uccise”.
La prima, Bianca Mazzini, morì nella strage della chiesa di Casaglia, compiuta dalle SS il 29 settembre 1944; la seconda, Ginetta, fu ammazzata dai nazifascisti il 4 ottobre 1944, nel corso dell'eccidio di Marzabotto, con altre 19 persone. “Il mio compleanno è la vigilia della morte di mia mamma. Destino vigliacco”. Gli chiedono se sia valsa la pena aver fatto la Resistenza. “Il tempo dimostra di no. Per me è così, pensando alla carica di speranze che avevamo sulle spalle. La ricostruzione è stata accettata e voluta da tutti. Poi, però, i partiti sono degenerati”.
 
 
Gilberto Bazoli


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