“Per amare è necessario attraversare tutti i confini”, anche una delegazione cremonese a Gorizia alla 56ª Marcia nazionale della pace
“Oltre i confini, senza confini”: questo striscione apriva la 56ª marcia nazionale della pace, organizzata dalla Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, Azione Cattolica Italiana, Caritas Italiana, Movimento dei Focolari Italia e Pax Christi Italia con l’Arcidiocesi di Gorizia, che ha ospitato l’iniziativa di riflessione e preghiera in occasione delle 57ª Giornata mondiale della Pace.
Il 31 dicembre nella città sulle rive dell’Isonzo è confluito un migliaio di persone provenienti da tutta Italia per la marcia nazionale che, quest’anno per la prima volta, ha assunto una dimensione transfrontaliera partendo dall’Ossario italiano di Oslavia e, attraversata la città di Gorizia, si è conclusa nella vicina città slovena di Nova Gorica.
Presente una delegazione cremonese guidata da don Antonio Agnelli e con la presenza anche di Eugenio Bignardi, incaricato diocesano per la Pastorale sociale e del lavoro.
Aprendo l’evento, nel pomeriggio di domenica, l’arcivescovo Giovanni Ricchiuti, presidente di Pax Christi, ha ricordato la figura di mons. Luigi Bettazzi che, oltre mezzo secolo fa, fu uno dei promotori dell’iniziativa alla quale, fino a quando le sue condizioni di salute lo hanno permesso, non ha mai mancato di partecipare.
Durante la marcia si sono alternate testimonianze e letture di brani che hanno richiamato il Messaggio di Papa Francesco per la 57ª Giornata mondiale della pace (sul tema “Intelligenza artificiale e pace”), ma anche le esperienze di accoglienza e dialogo presenti sul territorio, senza dimenticare i diversi contesti di conflitto, in particolare la Terra Santa e l’Ucraina.
Circa dieci chilometri di percorso, suddiviso in cinque tappe, partito dal sacrario di Oslavia, dove si evidenza il confine, costruito dagli uomini, che divide in due la città di Gorizia. Il sacrario ospita le spoglie di 57.741 soldati (di cui 36 ignoti), in gran parte italiani, morti durante le battaglie di Gorizia nella Prima guerra mondiale. Questo luogo parla della storia della città e di tutta la zona, del suo passato e del futuro di pace: ricordo di chi è morto in guerra per costruire la pace.
La seconda tappa, passando il fiume Isonzo, bagnato dal sangue di 300mila soldati italiani e austroungarici e ora attraversato dai numerosi ponti che creano “legami”, è stata presso il Convitto salesiano S. Luigi – dove sono ospitati minori stranieri non accompagnati – con l’intervento del direttore della Caritas di Trieste, il gesuita padre Giovanni Lamanna, che ha presentato la realtà di quella “Rotta Balcanica” che interessa proprio questa parte del territorio italiano. Padre Lamanna ha invitato quanti hanno «la responsabilità di far rispettare i diritti di quanti cercano rifugio nella civilissima Europa» ad ascoltare chi ha viaggiato lungo questa rotta, sentendo dalla loro voce il racconto di quanto vissuto: mancanza di cibo, abusi e violenze da parte delle forze di sicurezza, mancanza di assistenza medica, condizioni di insicurezza nei campi profughi improvvisati. «Chi rischia la vita nel proprio Paese – ha concluso – non ha nulla da perdere e non saranno i muri a fermarlo. Siamo chiamati a guardare con verità a queste persone che sono costrette a scappare e riconoscerle come tali, rispettando la loro umanità e i loro diritti, per scoprire che non sono nemici, ma fratelli e sorelle da abbracciare alle frontiere».
Giunti nel cuore di Gorizia, in piazza della Vittoria (ricordo sempre della guerra), in sloveno Travnik (prato), dopo il saluto dell’assessore del Comune di Gorizia, è intervenuto Luca Grion, professore associato di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Udine e presidente dell’Istituto Jacques Maritain, che, prendendo spunto dal Messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale della pace 2024, ha voluto sottolineare la necessità di «fare pace con l’Intelligenza artificiale»: un obiettivo che può essere raggiunto abbracciando «l’opportunità ch’essa offre, cercando di farne uno strumento al servizio del progresso realizzando un partenariato che richiede saggezza, responsabilità e costante riflessione sulla direzione da imprimere allo sviluppo tecnologico». Una grande opportunità di crescita che rischia invece di farsi strumento di distruzione e di morte.
Dopo essere transitati dinanzi alla Sinagoga di Gorizia (per ricordare la deportazione e il successivo sterminio di quasi tutta la comunità ebraica cittadina a seguito del rastrellamento del 16 novembre 1943) i partecipanti sono giunti in piazza Transalpina, uno dei luoghi dove risulta più evidente che il confine disegnato nel 1947 ha ferito la città e il suo territorio: case divise a metà, l’abitazione in Slovenia e il lavoro in Italia… La piazza dal 1947 al 2004 è stata divisa da un confine e, ora, è ritornata a essere luogo di incontro. Al centro c’è un disco metallico che ha preso il posto del cippo di confine: da qui a Vladivostok, verso est, si parlano lingue slave; da qui fino a Lisbona, verso ovest, si parlano lingue latine. E proprio le lingue sono state le protagoniste di questa marcia: italiano, sloveno, friulano, latino (quando nelle celebrazioni si è voluto superare le diversità). Attorno a questo disco si è parlato di Europa unita e di pace. L’Europa che avrebbe bisogno di scoprire un po’ di “spiritualità” per essere di sprone ai popoli e superare la sola dimensione istituzionale ed economica. Simbolo della divisione imposta alla città al termine della seconda guerra mondiale, questa piazza oggi è espressione della collaborazione fra le locali realtà italiana e slovena: qui sono stati celebrati eventi importati, quali l’ingresso della Slovenia in Europa e il libero transito delle merci tra Italia e Slovenia. Ed è qui che ha preso parola Silvester Gaberšček, etnologo e sociologo, che ha ricordato la necessità di trovare un denominatore comune in Europa favorendo l’ascolto reciproco: «Solo una comunicazione veritiera e pacifica è il fondamento per il vivere insieme».
La marcia è quindi proseguita verso la quinta e ultima tappa, superando il confine tra Italia e Slovenia, incamminati verso la Concattedrale della diocesi di Koper, a Nova Gorica. La chiesa del Santissimo Salvatore, costruita negli anni Ottanta del secolo scorso, dopo quasi quarant’anni di richieste al Governo jugoslavo, in una zona periferica della città di Nova Gorica (perché la fede doveva essere periferica nella vita delle persone) e a condizione che nelle sue fondamenta fosse edificato un rifugio antiatomico a servizio della città. Dopo l’ascolto di alcune testimonianze provenienti da Ucraina, Israele e Gaza, si è svolta la liturgia conclusiva, presieduta dall’arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas italiana, mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, e concelebrata dal vescovo di Trieste, il cremonese mons. Enrico Trevisi, e dal presidente di Pax Christi, mons. Ricchiuti, insieme a numerosi sacerdoti italiani e sloveni.
«Per amare è necessario attraversare i confini. Tutti i confini, a cominciare da quelli che abbiamo nel cuore e nella testa. Farli diventare punti di incontro, sapendo di essere guardati dal volto luminoso di Dio, avvolti dalla sua benedizione che non verrà meno nel nuovo anno che stanotte inizia», ha detto l’arcivescovo Redaelli a conclusione nell’omelia in cui ha messo in evidenza la necessità di “passare il confine” per costruire comunità “senza confini”.
In questa moderna cattedrale, stracolma di persone, ciascuno, nella propria lingua, ha dato voce allo Spirito per chiedere la pace per tutti i popoli. Un impegno che è stato accompagnato anche dall’offerta dei presenti dell’equivalente del costo del cenone non consumato per finanziare due progetti, uno a Gorizia e uno a Nova Gorica, a sostegno dei rifugiati giunti attraverso la rotta balcanica.
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