12 novembre 2025

Il rabbino Milgrom in Cattedrale: «Hevenu shalom aleichem. Stasera abbiamo portato la pace!» Il vescovo Antonio Napolioni, che ha raccontato del suo recente viaggio in Terra Santa

«Promettiamo che portiamo la pace: possiamo farcela!». È questo l’invito che il rabbino Jeremy Milgrom ha rivolto ai cremonesi dalla Cattedrale di Cremona dove nel pomeriggio di martedì 11 novembre è stato protagonista di un momento di testimonianza e dialogo insieme al vescovo Antonio Napolioni.

Un’occasione per riflettere su quanto sta accadendo in Terra Santa, in modo particolare, ma anche in tante altre parti del mondo. «Conflitti dimenticati, guerre che non fanno più notizia», ha ricordato introducendo l’evento don Umberto Zanaboni, della Pastorale missionaria: secondo le statistiche, infatti, nei diversi focolai di guerra ogni 100 caduti 83 sono civili, e di questi 37 sono bambini.

Da qui il desiderio di conoscere, di non voltare lo sguardo dall’altra parte. Per essere “Come Omobono, donne e uomini di pace”, il titolo scelto per l’incontro, promosso in collaborazione con Pax Christi e Tavola della Pace Cremona e Oglio Po. Un richiamo forte al tema della coscienza e della responsabilità personale e collettiva, nella consapevolezza che – come diceva don Milani – «la guerra è l’evento classista più vergognoso che ci sia nel mondo, perché decisa dai ricchi ma pagata dai poveri».

Alcuni brani di don Primo Mazzolari hanno introdotto la serata che ha visto poi intervenire il sindaco di Cremona, Andrea Virgilio, che ha iniziato la sua riflessione proponendo dalla toccante storia di Adam, rimasto solo con mamma Alaa a Gaza, tratta dalla Buonanotte di Massimo Gramellini. E poi lo spunto ripreso dalle parole di un ragazzo congolese, secondo il quale la «Palestina è un laboratorio per l’anima», perché può diventare il terreno comune in cui riscoprire la propria umanità. «Come città dobbiamo prendere impegni, che anche nella loro semplicità risultano essere ambiziosi – ha detto Virgilio –: la nostra città deve essere un luogo in cui ebrei, musulmani e cristiani possono sentirsi al sicuro e rispettati. Questa non è retorica: è infrastruttura civile!». E ancora: «Resistere alle semplificazione significa scegliere la cura come forma alta di forza civile: costruire prossimità, agire dentro le coscienze di una comunità, educare alla complessità, attivarci sul piano umanitario, prenderci cura del vicino di casa e di chi vive qui; c’è anche una responsabilità sottile nell’atto della parola». Tra memoria e futuro, l’obiettivo deve essere chiaro: «Cercare strade di riconciliazione». «Alla vigilia della festa del nostro patrono – ha concluso il primo cittadino – il nostro essere qui dice una cosa semplice: Cremona vuole restare casa del confronto e casa della pace». 

Il vescovo Antonio Napolioni ha quindi potato la propria diretta testimonianza del viaggio vissuto di recente in Terra Santa, «quella terra singolare – ha detto – visitata da Dio e che interpella la storia». Pensando al card. Carlo Maria Martini ha rinnovato l’inivito a coltivare le radici, con nella mente ancora il volto degli adulti ebrei e delle ragazze palestinesi incontrate e nei quali il vescovo ha rivisto i volti di Giuseppe e Maria: «Vedo i popoli da cui è venuto Gesù – ha detto – per tutti e in tutti».

Quindi ha ripercorso i tanti incontri. Quelli con i più piccoli e le loro mamme nel Deserto di Giuda, nel villaggio dei beduini di Jahalin, in Cisgiordania, insieme alle suore che se ne prendono cura e non vogliono lasciarli soli, come a Gaza fa padre Gabriel Romanelli.

Oppure il dolore trasformato di Rami, ebreo che vive a Gerusalemme da sette generazioni, e Bassam, palestinese, amici segnati dal dolore per l’uccisione dei figli, «vittime di altre vittime in una spirale di violenza che va interrotta», ha evidenziato il vescovo ricordando l’opera di dialogo e integrazione portata dall’assocazione Parents Circle.

E poi i cristiani presenti in quella terra, «Chiesa di minoranza, ma profetica». Con il pensiero andato ai cattolici di lingua ebraica o al villaggio di Taybeh, l’unico completamente cristiano in tutta la Palestina. E ancora gli incontri con il nunzio apostolico, frati della Custodia e il patriarca Pizzaballa: «c’è solo da esserci, e non abbandonarli».

Una terra abitati da cristiani, ebrei e musulmani, i «fratelli maggiori e minori», li ha voluti chiamare il vescovo: «Tutti alla ricerca del volto del Dio unico, che non deve essere offuscato dalle nostre divisioni».

E qui il richiamo a Cremona, mettendo in guardia dalla tentazione dell’antisemitismo, a partire dagli errori della storia. Monsignor Napolioni ha voluto rileggere il dipinto della Crocifissione in controfacciata, opera del Pordenone, che ancora richiama in modo evidente la frattura con il popolo ebraico. E poi il 20 luglio 1521 l’incarcerazione di otto dei maggiori rappresentanti della comunità giudaica presente all’ombra del Torrazzo dopo che più volte il governo cittadino aveva richiesto più volte ai francesi l’espulsione degli ebrei dalla città. «È una ferita e questa immagine ce lo ricorderà sempre. Una ferita da riconoscere da da curare! Perché questa ferita si può riproporre e può fare ancora il suo grande male». Un cammino che la Chiesa ha intrapreso e sulla quale intende continuare a camminare con convinzione, ha detto infine il vescovo richiamando il Concilio Vaticano II, la dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra Aetate e l’esortazione apostolica Evangeli gaudium di Papa Francesco.

Poi la parola al rabbino Jeremy Milgrom, nato negli Usi e trasferitosi in Israele nel 1968, a 15 anni. Dopo il servizio militare obbligatorio negli anni ’70, con il tempo è diventato un pacifista convinto, ispirato dai principi di non-violenza e dalla costante ricerca del dialogo. Co-fondatore e co-direttore di Clergy for peace, un’iniziativa interreligiosa (cristiani, musulmani ed ebrei) a favore della pace e della giustizia in Medio Oriente, Milgrom è anche membro di Rabbis for human rights, organizzazione ebraica impegnata nella difesa per i diritti di tutte le comunità e le minoranze, incluse le popolazioni palestinesi e le comunità dei beduini Jahalin della Cisgiordania, ed è voce convintamente attiva nella condanna del massacro del popolo di Gaza. La sua è stata una testimonianza forte, a tratti sofferta. Con silenzi e momenti di forte commozione, ma anche segni di speranza.

«Io sento che qui Dio è presente», ha subito voluto precisare prima di ringraziare i cremonesi per la partecipazione e gli italiani per il loro sostegno alla popolazione che soffre. «Per questo sono venuto: per dire grazie!». E ancora: «Avete salvato delle vite», ha detto ringraziando per l’impegno di solidarietà e anche di protesta, che ha permesso che a Gaza arrivasse più cibo e meno persone morissero per la fame.

Poi l’amara constatazione dell’orrore e della violenza, dicendosi preoccupato che, «a motivo di queste brutalità ci saranno persone che giustificheranno l’antisemitismo. In questo caso la mia società che si è fatta del male da sola: sarà sempre più difficile trovare accoglienza, perché la domanda sarà sempre “come avete potuto fare una cosa del genere?”».

Quindi – tradotto dalla professoressa Laura Rossi – ha ripreso l’espressione “laboratorio dell’anima”: «Come è potuto succedere che persone che conosco e persone che amo siano potute diventate crudeli? Non ho una vera risposta. Posso solo dire che a volte la paura degli attacchi e dei missili ti possono rendere arrabbiato». Il pensiero è andato ai genitori dei soldati israeliani che mettono a rischio la propria vita e allo shock dopo l’attacco del 7 ottobre di due anni fa che ha fatto sentire tutti più vulnerabili. «Tutte queste cose hanno contribuito all’indurimento del nostro cuore e ad addormentare la nostra anima, a causa della paura e della rabbia», ha detto riferendosi anche ai luoghi comuni sul cibo che a Gaza non mancherebbe o alla necessità di uccidere i bambini per non avere domani dei giovani terroristi.

«Sono molto contento che la situazione sia un po’ migliorata rispetto a mesi fa: c’è più cibo, vengono uccise meno persone», ha detto in merito alla situazione di Gaza, sottolineando gli sforzi della comunità internazionale e chiedendo un impegno importante dell’Europa. «Ma mi odio nel momento in cui dico queste cose – ha però aggiunto – non si può parlare di una situazione migliorata anche se solo muore una persona! E se anche una sola persona sopravvive, questa può salvare il mondo». Nel dramma piccoli segni di speranza, come l’impegno di “Vento di Terra”, organizzazione italiana che lavora con comunità beduine per supportarne lo sviluppo attraverso iniziative di sostegno economico, educativo e sociale.

«Nonostante le cattive notizie, nonostante le brutalità, nonostante la pace non sia una cosa popolare – ha detto ancora il rabbino Milgrom – ci sono ancora persone che sono segno di speranza. E ci sono diversi tipo di aiuto: qualcuno lo fa finanziariamente, qualcuno in modo attivo, qualcuno protestando. E molte mie amicizie sono online per mantenere viva una sorta di comunità internazionale. E questo mi dà speranza! Perché vuol dire che c’è una comunità interessata. E per questo è per me importante essere qui stasera. Davvero vi ringrazio tutti!».

Quindi citando la canzone “Hevenu shalom aleichem“, che il vescovo ha invitato tutti i presenti a intonare, il rabbino ha concluso: «Hevenu shalom aleichem! Abbiamo portato la pace! Ed è una promessa: promettiamo che portiamo la pace. Possiamo farcela!».

La serata è stata anche occasione per garantire una solidarietà concreta alla popolazioni vittime della guerra, attraverso i progetti portati avanti dalle associazioni cui ha fatto riferimento il rabbino o quelli sostenuti con le raccolte fondi del Comune di Cremona o della Diocesi attraverso le parrocchie e Caritas Cremonese. (www.diocesidicremona.it)


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