Il racconto. Il Natale con lo zio Gianni. L'insostituibile sapore milanese del Natale della mia famiglia
«Dumàan gh’è i milanées!», era l’annuncio che mia madre ripeteva ogni anno con l’approssimarsi del 25 dicembre. Ditemi voi se è mai possibile, ma è così: a me, esistenzialmente radicato, insieme a tutta la mia famiglia, nelle più sublimi tradizioni identitarie cremonesi legate al Natale, i ricordi e i sentori di questa festa risultano indissolubilmente legati a Milano. Eh sì, proprio Milano. Per le ragioni che sto per dire.
Già col panettone per la mia generazione il Natale era esclusivamente e irrimediabilmente milanese. Negli anni Sessanta non erano infatti ammesse alternative: o Motta, o Alemagna. E anche mio padre, che come altre migliaia di cremonesi dal dopoguerra in poi, con Milano aveva tenacemente a che fare per l’intera settimana lavorativa, fece la sua scelta e in famiglia introdusse solennemente il panettone Alemagna. I solidi pilastri natalizi della mia infanzia sono stati infatti tre: panettone Alemagna, torrone Vergani, mostarda Dondi. Senza variazioni di sorta. Un anno il panettone arrivò in un contenitore cilindrico di cartone dall’intenso colore blu e di dimensioni maggiori rispetto a quelle ordinarie. Lì ci finirono le statuine in gesso del nostro presepio. Terminate le feste, le incartavamo per bene nelle pagine del giornale e le collocavamo quasi con devozione all’interno, insieme ai fogli di carta verde per fare i prati, a quelli marroni che avevamo stropicciato con gran gusto per fare le montagne e alle strisce di carta stagnola del torrone Vergani che allora erano di un bellissimo azzurro, l’ideale per fare il torrente che dalle suddette montagne scendeva dritto come un fuso e lungo il quale veniva posizionato un ponticello esasperatamente instabile.
I “milanées” arrivavano di solito per il pranzo della Vigilia, in Fiat 128 verdina capitanati dal dilagante zio Gianni. Giovanni Bertoletti (1921-1980) era cremonese di nascita, del Vho di Piadena, il paese di mia nonna paterna Paolina Azzoni. Sua sorella Argia aveva sposato Fiorello Bertoletti; nacquero Alberico, Bruna, Giovanni e Velia. Fiorello era stato anche sindaco al Vho e fu antifascista convinto. Quando con la famiglia si trasferì a Milano, dove fece il fotografo, ogni volta che in città capitavano personalità o erano previsti eventi legati al Regime, la polizia andava a casa Bertoletti e prelevava Fiorello, che si faceva la giornata e a volte anche la nottata in carcere preventivo.
Lo zio Gianni era un personaggio davvero straordinario. Lavorava in banca alla Cariplo e quindi sarebbe stato ragionevole attendersi un profilo caratteriale più congruo al ruolo. In realtà lo zio era un carattere incontenibile, imprevedibile, ricco di trovate, di battute, di iniziative, di sorprese. Sotto le apparenze del classico “baüscia” aveva con naturalezza conservato una ruspante spontaneità che costituiva l’autentica anima della sua persona. Quando arrivava a Cremona, aveva sempre con sé un oggetto in regalo che, manco fosse un piazzista, ci presentava immancabilmente come grandioso, utilissimo, innovativo… Cosa non sparò quando ci portò un enigmatico coltello elettrico, a pile, per tagliare il pane, o quando ci portò una semplice spatola metallica, che peraltro conservo ancora ed utilizzo per pulire l’asse dei marubini! Ci fu un anno in cui arrivò con una pentola in regalo dentro la quale però c’era la trippa che ci aveva cucinato: mangiammo la trippa e tenemmo la pentola.
Ciascuno degli articoli a sua detta strepitosi che ci portava, era frutto della mediazione e dei favori di qualcuno dei suoi amici, tutti personaggi che i fratelli Vanzina non avrebbero esitato un solo momento a scritturare. Per qualsiasi necessità che emergesse nei nostri discorsi a tavola, lui tirava sempre fuori “en mée amìis” che avrebbe garantito la soluzione della questione. Devo dire che proprio attraverso le sue manovre, da lui ricevetti due bei regali per il mio compleanno, che cade proprio la vigilia di Natale, giorno del suo trionfale arrivo. Quando espressi “en passant” il desiderio di una radio, l’anno successivo si presentò con un bel modello Philips che mi procurò a prezzo ridotto grazie “al” Carlo e “al” Vinicio che avevano un negozio o magazzino di non ben definibile profilo commerciale in piazza Loreto. I prodotti della Philips provenivano dall’Istria e, via Trieste, giungevano a Milano. Ma i due soci vendevano di tutto; quando esplose la moda degli occhiali Ray Ban, piazzarono dei modelli taroccati a mezza Milano. Ne fece le spese Luigi, il figlio dello zio Gianni, che ne regalò un paio al suo capitano per lavorarselo in vista delle concessioni delle licenze militari: progressiva perdita di pezzi e lenti deformanti caratterizzarono una Caporetto cui a fatica riuscì a porre rimedio.
Nondimeno, nonostante al suo fatidico “ghe pènsi mì” parecchi occhi si levassero al cielo e più di una testa iniziasse a scrollare, grazie ai suoi “amìis” ottenni in seguito anche la mia prima decorosa macchina fotografica. In sostituzione della gloriosa Kodak Instamatic, per un mio compleanno lo zio Gianni mi portò una Yashica ad obiettivo fisso perfettamente funzionante, tant’è che mi accompagnò fedelmente per parecchi anni.
“Él Giàni”, come da mio padre e da mio zio Mario veniva chiamato, al suo tempestoso arrivo ribaltava da solo la nostra casa e quando si metteva a raccontare col suo alto tono di voce, diventava perfino rosso in volto da tanto era coinvolto. Succedeva anche quando argomentava sul fatto che fosse un invalido di guerra: “La pallottola mi è passata a tanto così!”, e alzando la mano alla testa indicava con pollice e indice una distanza minima; era uno dei suoi cavalli di battaglia. Subito dopo l’arrivo in casa nostra, c’era solitamente il resoconto del viaggio sulla Castelleonese appena effettuato, perché già lì era successo di tutto. Mio zio era solito dare del cretino o del “rimbambìit” a qualsiasi automobilista che gli stesse davanti o che azzardasse sorpassare la sua 128. E quanto più all’epiteto iniziale si aggiungevano ulteriori ricami, tanto più s’arrossiva in volto come un pomodoro; cosi mia zia Vittoria doveva intervenire per frenarlo. E pertanto a tavola si riproponevano le discussioni avviate in auto. In genere mio zio nei suoi racconti le sparava tendenzialmente grosse. La sorella Velia, che abitava con la mia famiglia fin dai tempi della guerra (per noi bambini era la “Tata”), oppure la moglie Vittoria, una persona tranquilla, equilibrata, che sia pur con pacatezza, immancabilmente se la rideva godendosi gli show del marito, agivano da moderatrici nei confronti delle sue uscite, soprattutto quando raccontava le proprie imprese di pesca. Lì la lunghezza delle trote indicata inizialmente dalle sue le mani, in seguito agli interventi della Tata o della zia Vittoria, subiva una serie di variazioni al ribasso prima di stabilizzarsi sulle misure reali.
Lo zio Gianni era infatti appassionato pescatore e, malgrado l’innocente tendenza a ingigantire le proprie prede, era piuttosto bravo. Agli inizi degli anni Sessanta col primo figlio Luigi, più avanti in età rispetto a noi quattro fratelli, partiva da Milano, zona Crescenzago, e da bravo cremonese andava solitamente attorno a Montodine, sul Serio e sull’Adda. All’epoca non usava stivali, entrava in acqua alla selvatica con scarpe di ripiego e pantaloncini corti, portando a casa dei bei cavedani. Insieme al figlio o al posto del figlio, l’immancabile Carlo, quello di piazza Loreto, e altri personaggi che all’epoca chiunque si sarebbe aspettato di trovare a Cinecittà sul set con Totò e Peppino. In ordine sparso: “el legnamé”, il Turati, il falegname che per il matrimonio di nostro cugino Luigi fabbricò l’armadio a cui non si chiudeva una sola anta; “el rutamàt”, il Rolando, invalido di guerra affetto da infezione perenne ad una gamba colpita da una scheggia di una bomba; e poi il Polgati, nome d’arte Pegola. Verso il 1970 il gruppo realizzò la propria ardita impresa, la discesa in zattera di un fiume jugoslavo, non saprei dire quale, per la pesca della trota e del salmone; venne convinto perfino un medico ad aggregarsi per poter accudire la gamba del Rolando, che non doveva mancare. Qualche anno dopo lo stesso corpo di spedizione finì niente meno che a Capo Nord, sempre per pescare salmoni. Pure le vacanze estive di famiglia erano determinate dallo zio Gianni con finalità ittiche: negli anni Sessanta partiva da Milano in Fiat 500 con valige e canne da pesca incellofanate sul tettuccio e, passando per lo Stelvio perché secondo lui si risparmiavano chilometri, arrivava a Castelbello in Val Venosta, in quegli anni pescosissima di trote e temoli. Il piccolo alberghetto veniva interamente colonizzato dalla sua famiglia e dal suo entourage storico: Carlo, Vinicio, Turati, Rolando, cui si aggiungeva il chitarrista Tosi che con la moglie cantante riempiva le serate assieme alle imprevedibili trovate del direttore d’orchestra, Gianni Bertoletti. Negli anni Settanta invece si dirigeva ogni anno in Austria a Sankt Johann im Walde, sopra Lienz, dove lo attendeva l’Isel con le proprie trote.
Tutti questi racconti vivaci, le bizzarre trovate, insieme alle battute fulminee e alle sonorità di un milanese intercalato al cremonese hanno aggiunto un insostituibile sapore ai miei pranzi della Vigilia. Ma anche a quelli di Santo Stefano, perchè quando noi quattro fratelli diventammo più grandicelli, toccò alla nostra famiglia andare a Milano in casa Bertoletti, e in treno ci andavamo appunto subito dopo Natale. Così per me e i miei fratelli l’arrivo del Natale, come festa di famiglia, conserva l’inestinguibile risonanza di note milanesi, memoria ancora viva di gioia schietta, perfino travolgente. Ogni anno, il sabato che precede il Natale, Luigi e Fabio, i figli di questo indimenticabile zio e della cara zia Vittoria, vengono ancora a casa mia. Esattamente come allora mangiamo insieme il buon salame cremonese, i tortelli di zucca o i marubini ora preparati da me e mio fratello Paolo, la mia gallina col ripieno, il cotechino e, gran finale, lo spettacolare dolce da pasticceria di prestigio, di competenza ancora oggi dei “milanées”. Ed esattamente come allora ci lasciamo ridendo sull’ultima stoccata che lo zio Gianni, dopo aver mangiato, bevuto e pure parlato di tutto, era solito assestare in inesauribile allegria: Basta, questa è proprio la penuntima volta che veniamo!
Nella foto 1: Giovanni Bertoletti (1921-1980), il secondo da destra in cappellino bianco, in Jugoslavia sulla mitologica zattera, insieme a con Carlo, Rolando, il medico e Polgatti detto Pegola col figlio Molli. Con loro anche un gruppo di pescatori slavi (circa 1970).
Nella foto 2: Lo zio Gianni èl fa èl baüscia (primi anni ’50)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti