10 marzo 2025

La storia raccontata dalle lapidi del cimitero di Brancere. Secoli di tragedie fatte di acqua e fuoco lungo le rive del Grande Fiume, oggi la testimonianza per sempre incisa nella pietra

I cimiteri non sono soltanto luoghi di silenzio, di preghiera e di memoria. Ma sono anche veri e propri libri di storia, aperti in modo indelebile verso tutti coloro che il passato desiderano conoscerlo più a fondo, anche nei dettagli, e studiarlo. Ci sono lapidi che sono veri e propri pezzi di storia, non solo per la loro antichità, ma proprio per i loro contenuti, spesso davvero struggenti, in tanti casi veri e propri poemi lasciati per rendere onore a coloro che ci hanno preceduti, tenendone vivo il ricordo, e la gratitudine.

A Brancere, piccolo centro bagnato da quel fiume, il Po, di cui nei secoli ha subito gli effetti, anche pesantemente, il modesto camposanto ai piedi dell’argine è custode di una serie di pagine di storia toccanti e allo stesso tempo dolorose. Nell’arco di appena 37 anni, il piccolo borgo di campagna è stato al centro di una serie di eventi tragici che hanno scosso nell’intimo la comunità. Fatti che sono lì, incisi nelle lapidi, “pietre parlanti” rimaste tenacemente a mantenere vive quelle vicende (e, a dirla tutta, lapidi che avrebbero la necessità urgente di essere restaurate perché si stanno lentamente cancellando e, in qualche caso, sono ormai illeggibili). Tragedie che si sono aperte esattamente 160 anni fa, nel 1865, e sono proseguite fino al 1902.

Il primo fatto riguarda la morte di Giovanni Bislenghi, scomparso il 25 aprile 1865 all’età di appena 3 anni. Quello non era che il primo di cinque fratelli tutti scomparsi in giovanissima età. Il secondo fu, dieci anni più tardi, il 7 ottobre 1875, Orlando Bislenghi, che aveva appena 5 anni. Diciotto giorni dopo, il 25 ottobre 1875, morì anche il terzo fratello, che anche lui si chiamava Giovanni (gli era stato dato evidentemente il nome del primo). Meno di tre anni dopo, il 24 marzo 1878, a perdere la vita fu Adele Bislenghi di appena 15 giorni e dieci anni più tardi, il 22 maggio 1888 fu la volta di Onesta Bislenghi, che di anni ne aveva 15.  In quegli anni furono parroci di Brancere don Fabio Ferrari (che fu anche sottotenente dell’Armata Austriaca), don Carlo Pellegrini e don Angelo Secchi. A ridosso dei lutti che colpirono la famiglia Bislenghi ci fu un altro drammatico fatto, quello datato 10 giugno 1887 che vide Giovanni Quaini, di 32 anni, morire nelle acque del Po. 

Altro drammatico episodio fu poi quello del 3 maggio 1902 in occasione del quale, in un devastante incendio, morirono carbonizzate 6 persone, tra le quali tre fratellini di 6, 5 e un anno. L’episodio è descritto anche nel libro “Memorie storiche di Brancere” redatto nel 1937 da don Remo Caraffini che fu parroco dal 1923 al 1940. La sera del 3 maggio 1902, intorno alle 22.30, per cause rimaste ignote (ma pare tuttavia, come si evidenzia nel libro, che il fuoco si generò ai graticci dei bachi da seta, attività che all’epoca era assai diffusa fra le due rive del fiume) il rogo colpì la cascina Spazi e rimasero carbonizzati, in seguito al crollo del tetto, Luigi Marani di Giovanni di 77 anni, Luigia Ronda di Pietro di 59 anni, Elvira Bislenghi di Andrea di 28 anni, moglie di Meraviglio Marani (unico superstite di quella sfortunata famiglia). Inoltre persero la vita i tre figli di Elvira Bislenghi e Meraviglio Marani (salvatosi quasi miracolosamente), vale a dire: Maria Marani di 6 anni, Giovanni Marani di 5 anni e Andrea Marani di 1 anno.

I resti delle povere vittime (all’epoca era parroco don Giuseppe Rebessi che fece anche realizzare la parziale ricostruzione della chiesa su disegno dell’ingegner Giovanni Poli di Cremona) furono sepolti nel cimitero parrocchiale e il fatto, oltre che nel libro di don Caraffini, è ricordato anche in una lapide marmorea al cimitero in cui è scritto: “Leggete anime pietose e compiangete la nostra sorta e ottenete presto dalla Divina Clemenza e noi adulti sotto indicati la pace di quel regno dal quale sono sbanditi il valore e la morte e dove ci hanno preceduti tre nostre care anime innocenti la notte del 2 maggio 1902, alle ore 22.30, da un orribile incendio scoppiato all’improvviso in casa nostra fummo arsi tutti insieme e poi schiacciati dalla rovina del tetto. Ecco i nostri nomi”. L’epigrafe continua quindi elencando appunto le vittime di quella sciagura che sconvolse il piccolo centro rivierasco.

Centro colpito e toccato, mezzo secolo più tardi, da un altro dramma, la scomparsa del parroco don Luciano Zanacchi (che guidò la comunità dal 1950 al 1953), morto in un incidente stradale lungo la via Giuseppina il 28 febbraio 1953 all’età di appena 33 anni (in moto, mentre rientrava in parrocchia andò a schiantarsi contro un autocarro). Un altro parroco, molti anni prima, fu invece al centro di un  episodio prodigioso. Si trattava di don Giovanni Forzani, parroco dal 1824 al 1864. Arrivato dall’allora  diocesi di Pontremoli, fu nominato arciprete di Brancere dal vescovo monsignor Omobono Offredi. Nel mese di aprile del 1837 il sacerdote, come lui stesso annotò nelle memorie parrocchiali, fu colpito da paralisi parziale del braccio destro)mentre celebrava la messa dinanzi al quadro del Gesù Nazareno (recentemente donato alla chiesa) e durante l’elevazione del calice dopo la consacrazione sentì un movimento fresco nel braccio che istantaneamente restò libero per ogni movimento.

Un fatto davvero eccezionale che lui  lasciò  scritto di suo pugno in uno dei registri custoditi nell’archivio parrocchiale. Resse la parrocchia con zelo, pietà e grande sollecitudine pastorale per quarant’anni e le sue esequie in parrocchia ebbero grande concorso di folla. Fatti che, fra disgrazie e prodigi, sono parti integranti della storia del paese e, parte di questi, sono appunto incisi in quelle “pietre parlanti” che sono la lapidi. Oggi, purtroppo, ci si limita sempre a indicare, nelle lapidi, le generalità insieme alla data di nascita e di morte del defunto, senza quindi lasciare traccia della storia. Un tempo, invece, si realizzavano vere e proprie epigrafi che raccontavano la storia delle persone, delle famiglie e quindi delle comunità. A dimostrazione di quei valori di sensibilità e attenzione che un tempo erano obiettivamente più diffusi. Chissà se un  giorno si potrà tornare ai valori di un tempo. Per ora si può solo affermare, ancora una volta, che andava meglio quando andava peggio e che le vittime di queste tragiche pagine di storia di Brancere è doveroso che vivano nel ricordo: anche nostro. 

Eremita del Po

Paolo Panni


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commenti


Rosella

11 marzo 2025 00:49

"Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro" diceva Sepulveda.
Continua la personale crociata di Paolo Panni contro l'incuria e l'indifferenza, che cancellano in modo subdolo segni preziosi della memoria collettiva.
Prendersi cura delle"Pietre parlanti", tracce, impronte e frammenti che possono essere interpretati, ci aiuta a "fare memoria" delle nostre radici e a provare empatia per le storie di ieri e per chi le ha vissute.
"Cimiteri come libri di Storia"...Parole destinate a sfidare il tempo e l'oblio, raccontate con pietà sentita e una fede schietta; raccontano storie di povertà e fatica, di quando la vita era scandita dalla luce del sole e dai rintocchi delle campane, o dalle continue piene del Po. Esistenze segnate dal dolore, in cui la morte era compagna di vita e le carestie e le epidemie di vaiolo e colera erano tollerate con cristiana rassegnazione. Persone semplici, spesso non istruite, che ci consegnano un'eredità pesante, la premura di raccontare e di raccontarsi, affinchè di ogni esistenza non fosse dimenticata l'unicità.
Abbiami ancora tempo di fermarci e occhi per osservare?