12 febbraio 2024

Un Carnevale indimenticabile. Le scoperte di un bambino degli anni Sessanta. Il film di Biancaneve al Politeama

L’antefatto è questo. Ero in prima elementare. Aquisito “per natura”, anni addietro ormai, lo statuto di homo erectus, stavo arrancando con tutti i miei compagni di classe della Scuola Elementare Trento e Trieste per elevarmi “per cultura” a quello di homo scribens. L’indimenticato maestro Gigi Manfredini ci guidava virilmente da mesi nel progressivo possesso della paziente manualità e della pronta conoscenza per tracciare in matita sul quaderno a quadretti le 5 vocali e le 16 consonanti dell’alfabeto italiano. Tra queste ultime, ci spiegava, ce ne sono cinque che si usano poco, provengono dall’alfabeto latino e greco, le imparerete per ultime, troverò qualche occasione per insegnarvele. E una prima occasione la colse in prossimità del Carnevale di quell’anno.

Ritirò tutti i nostri quaderni e su ciascuno impostò come al solito il reticolo che ci guidava all’ordinata scrittura della due nuove lettere: sulla prima riga della nuova pagina ripeteva in biro rossa e a distanza regolare la lettera da copiare, tre in minuscolo e tre in maiuscolo, mentre all’inizio delle righe sottostanti e fino a fine pagina, nuovamente scriveva una sola lettera, alternando il minuscolo al maiuscolo. E noi a completare «con ordine!», ci ordinava a voce grossa, vale a dire rispettando la posizione nel reticolo e la precisione nell’imitazione del segno. Solo alla fine del nostro sforzo dava un senso a quanto compiuto denominando al fatidica lettera. E fu così che scoprii la vu doppia e la ipsilon. Mi piacquero tantissimo. In quell’occasione però il mio maestro dopo «ipsilon» pronunciò con chiarezza solenne «doppia vi» e andò subito alla lavagna a scrivere “Walt Disney”, seguito dalla lettura: uòlt dìsnei. Ci fu subito una reazione di rumoroso entusiasmo da parte di molti miei compagni di cui io non riuscivo a capacitarmi. «Che cos’è?», chiesi a qualcuno. «È un film», fu la risposta per me allora non meno enigmatica, ma mi vergognai nel proseguire l’indagine.

Noi che cominciavamo scuola il primo di ottobre e che stavamo a casa subito il 4 ottobre per san Francesco, patrono d’Italia; noi che a novembre ci beccavamo l’infilata 1,2, ponte del 3 e 4, per Santi, Defunti e Vittoria della Prima guerra mondiale, che l’11 febbraio festeggiavamo perfino, incredibile dictu, l’anniversario dei Patti Lateranensi e il 19 marzo san Giuseppe con tanto di festa del papà; ebbene noi, professionisti del calendario corto, visto che a metà giugno eravamo già a Po, con circa 170 giorni di scuola alla faccia degli attuali 200 (ma l’anno della mia maturità si chiuse ufficialmente il 29 maggio!); noi che alle elementari avevamo perfino il giovedì come giorno fisso di vacanza, purtroppo contrariamente a quanto succede oggi, per Carnevale, cioè il martedì grasso, eravamo a scuola anche al pomeriggio, fino alle 16. Sicchè da noi bambini degli anni Sessanta il Carnevale era gioco forza festeggiato il sabato e la domenica immediatamente precedenti.

Casa mia non faceva eccezione, anche perché in quegli anni mio padre durante la settimana si fermava a Milano per poi ricomparire proprio di sabato e domenica. La sua presenza accresceva il senso di festività e di letizia e al contempo connotava la ricorrenza in senso domestico e familiare. Noi quattro fratelli non venivamo portati in giro per la città e men che meno venivamo vestiti o mascherati, la nostra attenzione era indirizzata piuttosto sulla vivace attività intrapresa in cucina il sabato pomeriggio da mia nonna Paolina, mia madre Ernestina e soprattutto da mia zia Velia, la cui figura io associo spontaneamente alle sensazioni rimastemi di quei sabati casalinghi di Carnevale, perché ne era senz’altro l’anima trascinatrice ed entusiastica. Era lei che puntualmente procurava il corredo appropriato a incasinare la festa: stelle filanti, coriandoli e soprattutto le ambitissime “lingue delle donne”, delle trombette in cui il soffio, oltre a produrre suono, faceva srotolare dei tubetti di carta colorata che prontamente si riavvolgevano quando finiva il fiato.

Velia Bertoletti e mio padre erano cugini da parte delle loro madri, le sorelle Azzoni. Solo per gli adulti della casa lei era Velia, noi quattro l’abbiamo sempre chiamata Tatta, con due ti, anche se sui biglietti di auguri e sulle sue immancabili cartoline si firmava con una, Tata. La Tatta era di Milano, ma durante la guerra era stata messa al riparo dai bombardamenti nella casa di sua zia nella più sicura Cremona. Avendo trovato impiego in Comune all’”Ispettorato Urbano”, si fermò in città e rimase fino alla pensione in casa nostra, parte integrante ed indiscussa della nostra famiglia. Una bella figura, affettuosa, gioiosa, spontaneamente serena ma anche saggiamente discreta nelle dinamiche familiari. «V’ho fàt balàa töti, vuàalter quàter», era solita dire, alludendo a quando da infanti ci teneva in braccio per dare respiro a mia madre o per farci addormentare. 

Dunque lei, mia nonna e mia mamma costituivano un’autentica macchina da guerra. Subito dopo pranzo mio nonno Ettore introduceva ieraticamente in cucina l’ass de la fuiàada, che mia nonna aveva ricevuto in dote da sua madre, e la piazzava sul tavolo: da quel momento sòta a bòt cun latüüghe, frìtule e camàandoi e in qualche occasione anca i turtéi col ripieno di marmellata. Il risultato finale era quantitativamente sorprendente, l’unità di misura era costituita dalla zuppiera e quando ci svegliavamo dal sonnellino lo spettacolo che ci faceva aprire definitivamente gli occhi era davvero entusiasmante. Ma quel sabato mio padre mi disse in un orecchio di fingere di andare a fare il sonnellino e di uscire dalla camera poco dopo senza farmi scoprire dai miei fratelli, tutti più piccoli di me: aveva per me una sorpresa. L’indeterminatezza di quel bisbiglio fu più che sufficiente per tenermi sveglio. Sgattaiolammo furtivamente fuori casa ma arrivammo in un luogo a me sconosciuto in cui vidi presenti anche altri genitori e bambini. Insieme a tutti loro entrammo in un ampia e alta sala: davanti a me s’aprì l’incanto del Politeama. A sei anni non solo non avevo mai visto un cinema ma neppure sapevo cosa fosse, né a cosa servisse quel grande telo in fondo alla sala. L’incanto si compì quando iniziò la proiezione, rimasi sbalordito da quel fascio di luce che nel buio si materializzava in colori, in figure e in suoni proprio su quell’enigmatico telo. In casa mia non esisteva alcun televisore che già mi avesse mediato l’idea di schermo o di proiezione, mio padre faceva una forte resistenza alla sua introduzione, perché ci diceva che si doveva stare con la famiglia e non col televisore. Capitolò soltanto dopo il trasloco, nella nuova casa arrivò Mike Bongiorno col Rischiatutto e io ero in seconda media. 

Per me il Carnevale evoca ancora oggi proprio questo. La scoperta del cinema, certo, ma più fondamentalmente quel momento ancor più sorprendente di attenzione privilegiata che mio padre mi regalò, il primo momento che io ricordi di essere rimasto con consapevolezza con lui. Da soli in un cinema in cui oltre alle luminose figure colorate iniziò a rivelarsi per me quella di un padre. E devo dire che quel senso di gratitudine così lontano ma così semplicemente presente mi ha segnato come in filigrana negli ultimi anni che ho trascorso con lui. Di nuovo da soli. Questa volta io ad accompagnare lui nell’attesa della rivelazione di un Padre.  

Quel pomeriggio lui mi disse che ciò che guardavo meravigliato era la storia di Biancaneve e i sette nani. Ma erano proprio quelle le parole che avevo sentito dire in classe da qualche mio compagno quando parlava di film! Allora all’uscita mi fermai a guardare con trepidazione il manifesto a cui non avevo dato attenzione quando entrai. E le trovai, sì, le riconobbi, la doppia vi e la ipsilon c’erano proprio. Quando qualche giorno dopo il maestro Manfredini ci assegnò in classe la scrittura dei “Pensierini”, barai spudoratamente, lasciai perdere Biancaneve e scrissi che il film visto con mio padre «si intitolava Walt Disney». Cosa non si fa pur di cavarsi la soddisfazione di scrivere per la prima volta una bellissima ipsilon e una doppia vi. E questa per di più magnificamente maiuscola.

Nelle foto il manifesto di Biancaneve e i sette nani e i Giardini Pubblici di sera all'inizio degli anni Sessanta, poi l’ass de la fuiàada di Paolina Azzoni. La ricevette in dote da sua madre che già però la usava da tempo. Tenuto conto che il matrimonio con Cariani Giuseppe fu il 13 maggio 1913, questa asse ha oltre 111 anni. Viene ancora usata per fare i tortelli di zucca e per i marubini.

Maurizio Cariani


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti