1 aprile 2021

I riti del Venerdì Santo nella Cattedrale appena costruita nel racconto di Sicardo

Il venerdì santo la grande Cattedrale di Cremona appena costruita, in pieno Medioevo, sprofondava nel buio più totale dall’ora Sesta (mezzogiorno) all’ora Nona (le tre del pomeriggio). Tutti i fuochi venivano spenti. Le fiamme sparivano dal candelabro di ferro, dalle lucerne che erano appese, in forma circolare, sul presbiterio e dai vasi dove si conservano gli stoppini accesi. 

Regnavano le tenebre per ricordare il grande buio evangelico che calò su Gerusalemme e sul Golgota durante la crocifissione di Cristo. La poca luce entrava solo dalle grandi finestre delle absidi rivolte a oriente. Solo dopo l’ora Nona le fiamme tornavano a brillare nelle navate della chiesa. Ci racconta il venerdì santo cremonese medievale il grande vescovo Sicardo. Correvano gli anni 1185/1195 dall’Incarnazione del Signore quando il presule scriveva la sua opera più nota e più celebrata del tempo ‘Il Mitrale’; come ebbe poi modo di scrivere un importante studioso come Monsignor Ercole Bocchieri grande direttore del settimanale ‘La Vita Cattolica’. 

Il racconto dell’antico vescovo, che volle Omobono come patrono della città, mostra come vivevano quegli uomini di Chiesa il giorno della Passione del Signore. “Questo giorno rappresenta la tristezza: ognuno cammini con il capo abbassato, per prendere coscienza delle proprie colpe e nessuno saluti nessuno”. Il silenzio e la solitudine calavano su quel mondo religioso e sulla società di allora. “Dalla mattina e fino all’ora nona rimaniamo in profonda contrizione  in meditazione solitaria ricordando la battaglia e gli insulti rivolti al Salvatore” spiega ancora Sicardo. Solo all’ora Nona il clero, con il vescovo, si ritrovavano all’interno della Cattedrale. Entravano con lo stesso spirito con il quale assistevano ad ‘un rito funebre’.  Si accendevano di nuovo i fuochi e le navate si riempivano delle terribili parole del profeta Osea nei confronti del popolo ebraico. “Che dovrò fare per te, Èfraim, che dovrò fare per te, Giuda? Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce. Per questo li ho abbattuti per mezzo dei profeti, li ho uccisi con le parole della mia bocca e il mio giudizio sorge come la luce”. Era poi la volta della lettura della Passione secondo Giovanni senza il tradizionale saluto liturgico del vescovo. Seguivano le orazioni. Terminate le preghiere, con il vescovo in ginocchio, iniziava il grande rito dell’adorazione della croce. “I diaconi o i presbiteri cantando le antifone, portavano, al centro della basilica, la croce nella mani del vescovo”. “Coloro che assistevano rispondevano in Greco e in Latino”. “Tolto il velo con cui il patibolo di Cristo era coperto, i diaconi intonavano il canto ‘Ecce lignum crucis”. Un velo spiega Sicardo dietro il quale il Redentore si nascondeva e che solo sulla croce si e’ svelato alle genti. I canti proseguivano con le antifone e gli inni. Salivano le note di ‘Crucem tuam, Crux Fidelis e Pange lingua”. Quando tornava il silenzio il presule si riavvicinava all’altare, indossava la casula, per la comunione. Le ostie sante venivano portate dal suddiacono o da due presbiteri che le avevano tolte dal luogo dove, il giorno prima, erano state nascoste.  Comunicati tutti i presenti “venivano cantanti – scrive Sicardo -  i sei salmi del vespro e subito dopo la preghiera “Respice Domine”. Conclusi l’ufficio e i vespri, “ la croce veniva deposta nel suo luogo nel coro” da quel momento davanti al patibolo di Cristo venivano recitati i salmi dal vescovo e o dal suo vicario “sino all’ora nella quale il Signore risorse”. Le tenebre tornavano padrone delle navate della grande Cattedrale. 

Luca Poli


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