Abolire il celibato sacerdotale non risolve i problemi, anzi...
Venerdì 19 febbraio il cardinale Camillo Ruini ha compiuto 90 anni e il Corriere della Sera gli ha dedicato due pagine di intervista a firma di Aldo Cazzullo. Pur essendo un giornalista di razza, Cazzullo, a mio parere, su qualche domanda è scivolato sulla classica buccina di banana. Per carità, succede anche ai migliori. Passi i quesiti sulla pedofilia nella Chiesa o gli scandali finanziaria in Vaticano – settori delicati sui quali occorre essere sempre vigili, ma che non hanno mai avuto Ruini come autorità decisionale - ma insistere sulla questione dei preti sposati, appare un poco pretestuoso.
Ruini, cavallo di razza dell’episcopato italiano, stretto collaboratore di giganti come Wojtyla e Ratzinger, non si è fatto certo spaventare e ha risposto con arguzia e lucidità evidenziando una realtà sotto gli occhi di tutti. Nei paesi protestanti, nonostante il sacerdozio sia accessibile a uomini sposati oltre che alle donne, la situazione è peggiore che nelle terre cattoliche. In quelle terre dove la fede ha sposato la modernità si è un passo dal baratro: già qualche anno fa l’allora arcivescovo di Canterbury, Lord Carey, affermò che «La chiesa d’Inghilterra è soltanto a una generazione dall’estinzione», mentre nella Chiesa luterana in Svezia, meno della metà della popolazione è battezzata e i praticanti sono solo il 2%. Si potrebbe andare avanti a sciorinare dati e fenomeni, ma la conclusione è sempre quella: più la fede si adegua alle logiche del mondo e più perde mordente, risulta meno affascinante. Soprattutto fra le nuove generazioni che, così assetati di radicalità, rifiutano compromessi e mezze misure. Non è un caso che proprio dall’Africa, dove il Cristianesimo è giovane ed è fatto di giovani, si alzino le voci più forti contro un appiattimento alle logiche mondane.
Certo anche nella Chiesa Cattolica non mancano segnali preoccupati! Pure i paesi latini vivono una profonda scristianizzazione con tutti i fenomeni che ne conseguono: la fluidità dei legami amorosi, la crisi della denatalità, i valori negoziabili calpestati, le chiese sempre più vuote, i seminari che chiudono. Questo almeno in Europa, la grande malata, ma indicatori preoccupanti giungono anche dall’America Latina che deve fare i conti anche con il fenomeno delle sette.
Sgombriamo subito il campo dai fraintendimenti: il celibato ecclesiastico è richiesto da una legge ecclesiastica e non dal diritto divino e quindi può essere abolito o reso opzionale anche subito. D’altra parte tra le 19 Chiese cattoliche di rito orientale, solo due non hanno preti sposati. Per tutte le altre la paternità sacerdotale è una conseguenza della paternità familiare. In Sicilia esiste una diocesi – l’Eparchia di Piana degli Albanesi – dove vi sono preti con moglie e figli che dirigono tranquillamente comunità cattoliche di rito bizantino. Senza dimenticare un documento importante come il decreto conciliare Presbyterorum Ordinis che afferma con chiarezza che «la perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli (...) non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva e alla tradizione delle Chiese orientali». Occorre chiarire che in queste Chiesa prima di ricevere l’ordinazione sacerdotale bisogna sposarsi, così come accade oggi per i diaconi permanenti.
D’altro canto bisogna dire che non è assolutamente vero che la prassi celibataria nella Chiesa cattolica sia molto tarda come vanno dicendo alcuni. Il medievista Agostino Paravicini Bagliani, intervistato l’anno scorso da Avvenire, sostiene che il celibato sia una prassi antichissima, risalente ai primi secoli, ma che si radica successivamente, soprattutto dall’XI secolo in poi. Sarà poi il Concilio Lateranense IV, nel 1215, a trasformare in norma questa prassi consolidata.
Su questo tema spinoso è intervenuto il papa emerito, Benedetto XVI, che con il card. Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino, ha scritto un saggio dal titolo: “Dal profondo del nostro cuore”, un intenso atto di amore nei confronti del celibato sacerdotale. Chi ha voluto vedere questo intervento come un affondo contro papa Francesco si sbaglia di grosso. L’attuale Pontefice, infatti, di ritorno dal suo viaggio a Panama (gennaio 2019) ebbe a ripetere ai giornalisti durante la consueta intervista in aereo, una frase di San Paolo VI: “Preferisco dare la vita prima di cambiare la legge del celibato!”.
In effetti il celibato sacerdotale, lungi dall’essere un dogma, è qualcosa di costitutivo, di identificativo della Chiesa Cattolica.
Maliziosamente, poi, a chi tira in ballo la questione rispondo che è assai curioso che siano sempre gli altri a voler far sposare i preti, perché in ambito ecclesiale, da quando sono prete – e ormai siamo quasi a quota 19 anni – non si è mai aperto un dibattito su questo tema scottante. Non che anche in diocesi non ci siano preti che abbiano lasciato il ministero per una donna, ma si contano sulle dita di una mano e hanno compiuto questa loro scelta con molta ponderatezza e discrezione.
Perché dunque il celibato? Senza entrare in difficili disquisizioni teologiche – non ne sarei in grado – mi viene anzitutto da dire che essere prete vuol dire essere tutto di Cristo: non riesco a pensare che in me possa convivere allo stesso tempo un altro amore così intenso da rapirmi il cuore come quello di Gesù. È vero che i primi apostoli erano sposati, ma tra il Maestro e loro si instaurò subito un legame fortissimo, esclusivo: una comunità fraterna ed amicale che faceva perno su di Lui e che modificava gli eventuali precedenti legami. Alcuni testi dei Padri della Chiesa certificano che gli apostoli che erano sposati prima di seguire Gesù hanno interrotto la vita coniugale, col consenso della moglie, ed hanno praticato il celibato. Se la moglie è rimasta con loro, lo ha fatto vivendo come sorella e non più come sposa. Gesù non invita forse Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni a lasciare tutto, per divenire «pescatori di uomini»?
In secondo luogo il prete è visto dalla gente come l’uomo della comunità, dedicato in tutto e per tutto alla sua gente, reperibile ad ogni orario, disponibile ad ogni richiesta. Ho in mente certi giovani vicari, che soprattutto d’estate, si spendono con generosità per i loro ragazzi, con orari folli, con iniziative sempre più impegnative per tenerli uniti e per formarli alla vita cristiana. Un prete con moglie e figli certo non potrebbe dedicarsi così tanto per la sua parrocchia; giustamente dovrebbe darsi dei tempi, degli orari di ufficio, perché la famiglia ha bisogno di tempi e attenzione. E, in ogni caso, al di là del dato funzionale, che ha la sua importanza, il prete perderebbe quella suo “essere di tutti” che, in fondo, rassicura e rincuora il gregge di Dio. Può forse il pastore amare di più una, due o tre pecorelle rispetto a tutto il gregge?
Il celibato, a volte difficile e doloroso, permette dunque di incanalare tutte le energie umane in un’unica grande direzione: servire Dio e quindi servire il prossimo.
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