12 luglio 2021

Una storia del Pci cremonese vissuta dall'interno. Molte qualità e qualche limite nel racconto di Giuseppe Azzoni ed Evelino Abeni

Un tipo di indagine storica come questa (“Ideali, passione politica, partecipazione. La Federazione Cremonese dei P.C.I. 1921-1991” Fondazione Cremona Democratica, 2021), che spazia per 70 anni nel cuore della nostra provincia, presentata in due lunghe interviste di Giorgio Barbieri a dirigenti come Giuseppe Azzoni ed Evelino Abeni, evidenzia tutte le qualità di un’indagine condotta raccogliendo le parole (i sentimenti, i valori) di due protagonisti di questa storia per molti aspetti drammatica ed esaltante. Un racconto storico molto documentato, onesto – una qualità rara di questi tempi – pieno di dati storici, di personaggi piccoli e grandi, di eventi, di svolte: sconfitte e vittorie, sacrifici e soddisfazioni di cui andare fieri. Che tuttavia, in quanto visto dell’interno, manca in alcuni casi di una valutazione più distaccata e lungimirante, possibile a decenni dagli eventi richiamati.

Ne esce l’immagine di un gruppo dirigente - dopo gli anni “eroici” e sofferti della clandestinità nel ventennio, nel quale il partito riusciva ad essere presente nella propaganda e nelle poche manifestazione di protesta anche contro i sindacati fascisti -  che si era formato nella lotta di Liberazione, condividendone i valori, poi nelle asprissime lotte sociali del dopoguerra, che ebbero il loro culmine nello sciopero di 40 giorni nel maggio-giugno del 1949 e nella opposizione al crudele sistema delle “disdette”. Infine nella lotta per la pace a livello internazionale contro le diverse forme dell’”imperialismo americano”, e per l’attuazione rapida della Costituzione su scala nazionale. 

Per quel gruppo dirigente essere “di  parte”, avere come punto di riferimento l’URSS, non significava affatto abbandonare il terreno della democrazia rappresentativa, ma al contrario avere come orizzonte la cultura e i valori della nostra Carta costituzionale, considerata il frutto più alto della Resistenza, considerata “evento fondativo” della nostra Repubblica. Come dimenticare ciò che recitano ad esempio gli artt. 2 e 3 della nostra “Carta”? Riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, adempiere i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Garantire pari dignità sociale e uguaglianza senza distinzione alcuna, rimuovere gli ostacoli che limitano libertà e uguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della personalità umana. 

Mentre troppe forze politiche conservatrici in Italia pensavano che i vari principi costituzionali fossero solo delle belle dichiarazione di intenti, senza effettivo peso politico e anche giuridico, per i “compagni” comunisti erano la traccia di un percorso politico anche lungo, da realizzare con lotte serrate, cercando alleanze, mobilitando gruppi, ceti, classi: diritto alla salute in direzione di un Servizio Sanitario Nazionale, Diritto alla Studio con la conquista di una scuola per tutti, Diritto al lavoro, verso quello che sarà lo Statuto dei Lavoratori, nuovo Diritto di famiglia ecc. La Costituzione doveva costituire nella coscienza e nella prassi di quegli uomini e di quelle donne un criterio interpretativo, una bussola che indicava una direzione, una concezione di vita. Quei “compagni” fecero quanto allora appariva fondamentale: assumere competenze, responsabilità in un vastissimo arco di impegni: cooperazione, partito, sindacato, amministrazione, associazioni di mutualità e di impegno civile e solidaristico: che illustrano quale fosse la loro concezione profonda della cittadinanza attiva e della democrazia che ispirava la sinistra e gli uomini di quel tempo.  

Un gruppo dirigente cementato da un’etica rigorosa con valori profondi e condivisi: dirittura morale, attaccamento al lavoro, massimo rigore amministrativo, onestà ed efficienza nelle istituzioni, negazione di ogni tipo di personalismo, oltre, naturalmente alla strenua difesa degli interessi della “classe operaia” delle fabbriche e della terra, degli “ultimi”, dei diseredati o dei colpiti dalla repressione padronale o poliziesca, di chi aveva perso il lavoro. Un’etica che è proprio l’opposto di quella che è diventata purtroppo malcostume politico, o anche corruzione, nelle forze politiche attuali, e che fa nascere una sorta di “nostalgia” per quegli anni, pur difficili e contraddittori. Per entrare a farne parte, anche le nuove leve, come Azzoni ed Abeni, fino a Pizzetti e Pezzoni, per non citare che i più noti, dovevano fare propri quei principi etico-politici che guidavano poi l’azione e le scelte quotidiane.

Purtroppo gli intervistati, tutti presi nella rievocazione “politica” di quegli anni, dimenticano di delineare quello che sarebbe interessante per i lettori di oggi, soprattutto più giovani o meno anziani: i tratti personali, le caratteristiche individuali, i dati anche caratteriali di quei gruppi dirigenti, magari arricchiti da qualche episodio significativo o simbolico. Perché c’è da dire che, al di là delle posizioni politiche a volte diverse, Arnaldo Bera non era certo Mario BardelliFranco Dolci, né Chiappani era simile ad Antoniazzi o a Garoli: una presentazione individuale di queste forti e sfaccettate personalità avrebbe arricchito a mio avviso questa storia di ideali, passioni politiche, partecipazione, richiamate giustamente dal titolo. Certo è un parere personale, ma avrei preferito un taglio insieme “storico e autobiografico”. Come fecero Franco Dolci e Kiro Fogliazza alcuni anni fa o, a livello nazionale, grandi giornalisti come Saverio Tutino e Corrado Stajano (cremonese).

Gli anni ’50 e ’60, all’interno del partito, oltre ai problemi organizzativi sorti da una situazione sociale in rapidissima evoluzione soprattutto nelle campagne (gli abitanti della provincia di Cremona, che del 1951 ammontavano a 381.000 unità, passarono ai 351.000 del 1961 e ai 334.000 circa del 1971), sono segnati dai drammatici eventi che colpirono il mondo socialista, prima con le denunce di Kruscev contro il culto della personalità e i delitti dell’era staliniana, poi con l’invasione dell’Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968. Che pensare di un’Unione Sovietica che imponeva il suo “socialismo reale”, non con la forza delle sue idee e del suo esempio, ma con i carri armati?  

Ne nacquero tensioni molto forti, anche perché nella Federazione Cremonese del PC era presente, come ricorda Abeni, “una consistente componente area filosovietica” impersonata da Arnaldo Bera, che faceva capo a Pietro Secchia a livello nazionale, mentre altri, pur accettando con riluttanza per la regola del “centralismo democratico” la linea del partito, espressero “severe critiche per i modi dell’invasione sovietica e per il fatto che in un paese cosiddetto socialista si fosse creata una situazione di così grave crisi nei rapporti tra classe operaia, popolo e la dirigenza dello stato e del partito”. 

Divisioni che si ripresentarono nel 1968, con la repressione in Cecoslovacchia e la distruzione di quella linea politica che venne chiamata del “socialismo dal volto umano” di Dubcek, pur in un gruppo dirigente locale molto rinnovato, in cui si crearono distinzioni su linee “amendoliane”, più moderate, e “ingraiane”, più radicali. Senza mai tuttavia giungere a divisioni laceranti: il confronto rimaneva aperto, come era costume del Partito. Ma anche nei confronti delle scelte di un grande dirigente come Enrico Berlinguer sul “compromesso storico” e sullo “strappo” col sistema sovietico. 

Per certi aspetti “esaltanti”, narrate con un filo di giusto orgoglio, sono le pagine dedicate al sostegno del PC alle lotte studentesche e operaie tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, poi alle manifestazioni per il Vietnam, contro i colonnelli in Grecia e il colpo di stato organizzato dalla Cia nel Cile di Allende. Poi le vittorie nei referendum in difesa della legge sul divorzio e sulla legalità dell’aborto. E quelle dedicate alla grande vittoria elettorale del 1975, che portò il partito, in un sistema di alleanze molto articolato, a governare i maggiori e minori enti locali cremonesi. Zanoni Sindaco di Cremona, affiancato da Azzoni e Abeni come vice, Franco Dolci Presidente della Provincia, con Fiorino Belisario vice-presidente.

Poi ci sono le pagine dedicate alla “consapevole dedizione e militanza politica”, che presentano un modo di fare politica che caratterizzò gli anni del PC anche a livello provinciale. Dice Azzoni: “Il diritto di far politica conquistato dalle classi lavoratrici con tanto sacrificio andava esercitato, e il partito ne era il mezzo principale… A questa coscienza per i comunisti si accompagnava quella che chiamerei una “fede laica” che parte dalla rivoluzione leninista… La bandiera rossa che scalza poteri, privilegi, schiavitù secolari, in tanta parte del mondo… che stronca la terribile macchina hitleriana a Stalingrado… Prima che tutto fosse logorato e franasse sotto il cumulo di contraddizioni, errori e purtroppo anche crimini che sappiamo, ne era venuta grande fiducia che le cose potessero cambiare”. 

Partendo da questa “fede laica”, sono richiamate moltissime figure di militanti e protagonisti della vita politica e amministrativa della provincia: vita di sezione, distribuzione del giornale di partito, feste dell’Unità, manifestazioni. Con protagonisti persone umili, come Arnoldo Ferrari, di Casalmaggiore, “lo spazzino”, o interi gruppi familiari, come la famiglia Zelioli, di Isola Dovarese, con Costante, i figli Gianni e Emilio, e ora la nipote Rossella. O i Ferrari di Bosco ex-Parmigiano, imparentati coi Fervari. Conclude Azzoni: “direi che l’attivismo volontario era un elemento connaturato, qualcosa senza il quale il PCI non sarebbe esistito”. Particolari preziosi, questi, che emergono proprio grazie a questa visione dall’interno che riteniamo peculiare di questo tipo di racconto storico.

Tuttavia è assai difficile che gli intervistati ammettano: “in quel momento non capimmo…”, oppure “il Partito fu in ritardo su questo…”. Ad esempio, vista l’importanza che le donne e le questioni di genere hanno assunto nei decenni successivi, è difficile non ammettere che vi fu un’innegabile sottovalutazione di queste tematiche. Se vi va a vedere la presenza delle donne tra gli iscritti, poi nel Comitato Federale, infine in Segreteria, si noterà come il vertice del partito per decenni fosse tutto maschile. Il che veniva confermato nelle giunte più importanti come quelle di Comune e Provincia di Cremona, dove manco si vede l’ombra di una donna. I centri di potere erano saldamente nelle mani di “uomini” (come negli altri partiti, del resto). Ma anche realtà importanti, articolate, vive come l’Arci a partire degli anni ’70, in quanto organizzazione cresciuta fuori dal Partito, non vengono neppure prese in considerazione.

Come avviene del resto nei giudizi sulla realtà del socialismo reale e sulla politica sovietica, o sul modello comunista realizzato in molte realtà internazionali, a parte un generico giudizio negativo sulle “degenerazioni burocratiche” presenti in quelle realtà. L’evoluzione storica di questi ultimi tre decenni ha mostrato che il male era molto più profondo, e si era manifestato ben prima, connaturato con un sistema di potere senza articolazioni pluraliste e spazi per le minoranze, dove tutto era centralizzato in partito-stato, che assommava in sé scelte politiche, gestione dell’economia, controllo dei servizi segreti e dell’esercito, della giustizia e dell’informazione. 

Il partito fu praticamente muto su Pol Pot e Khmer Rossi in Cambogia (1975-79), sull’invasione sovietica in Afganistan (1979-1989), sulla realtà che si andava delineando in Corea del Nord, sulla crisi irreversibile che si stava manifestando in URSS e i paesi del Patto di Varsavia. Che società sono nate dalle macerie di quel tipo di socialismo e da quel modello di potere? Poteri personali tenuti per decenni (vedi Putin), con figure di multimiliardari che tengono rapporti con tutto il mondo; partiti comunisti che governano società capitalistiche con fortissime diseguaglianze sociali (vedi Cina); concezioni populiste che negano ogni diritto individuale e ogni tipo di solidarietà.

Alla fine di questo lungo racconto di Giorgio, Giuseppe ed Evelino, rimane un grande rimpianto, come ricorda Abeni, per il fatto che con la fine del PCI “si è accantonato un modo di far politica che rendeva più solido, partecipato il quadro democratico”. I pericoli dell’oggi sono lì a dimostrarlo.

Carmine Lazzarini


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


Michele de Crecchio

12 luglio 2021 23:28

Contributo interessante del mio, da sempre, amico Carmine Lazzarini, anche se non ne condivido il giudizio negativo sul "centralismo democratico" (che fu in realtà un contributo formidabile alla stabilità della fragile repubblica italiana, come lo definì lo stesso Altiero Spinelli che di tale centralismo era stato in altri tempi vittima) ed anche una certa sottovalutazione della rigorosa moralità amministrativa che caratterizzava la grande generalità dei suoi esponenti (la famosa "diversità" di comportamento rivendicata da Enrico Berlinguer). Non dimenticherei neppure la straordinaria capacità di aggiornamento culturale del PCI, nettamente superiore a quella degli altri tradizionali partiti italiani, come riconosceva quell'autentico pensatore liberale e acuto, anche se riservato, osservatore della politica italiana che fu il cremonese Giulio Grasselli.