Marco Villa, classe 1969. Cinquant’anni trascorsi quasi tutti in bicicletta: dal giorno in cui papà Ettore lo mise sul triciclo, non ha più smesso di pedalare, almeno fino al giorno in cui, a 39 suonati e alla vigilia di disputare l’ennesima Sei Giorni, quella di Cremona che nel 2009 (la si organizzava per la prima volta e sarebbe stata anche l’ultima), un medico sportivo gli riscontrò un’aritmia cardiaca e gli consigliò di lasciare l’attività agonistica.
Marco non ci pensò due volte: va bene smettere di correre, in fondo l’età giusta per abbandonare era ormai arrivata, ma vivere senza il ciclismo, senza la pista, non gli era proprio possibile, così prese la via più naturale per un campione, che è poi quella di trasferire la propria esperienza ai più giovani, nella speranza di vederli ripetere e magari migliorare le proprie imprese sportive.
Marco c’è riuscito in fretta, nel giro di qualche stagione è passato dall’allenare i giovani della UC Cremasca, la società la cui maglietta aveva vestito sin da bambino, a quelli della Lombardia, poi alla squadra nazionale. E i risultati si son visti in fretta: la passione e soprattutto la capacità che ha messo in questo nuovo e appassionante lavoro, lo hanno subito premiato. Sapeva che in Italia i talenti esistevano, l’importante era motivarli e soprattutto convincere le loro società di appartenenza a lasciar loro praticare gli anelli. Il mondo della pista era in crisi in Italia.
Non si vinceva un titolo internazionale da anni e gli ultimi seigiornisti che come lui avevano illuminato il mondo dei velodromi nelle ultime stagioni, i suoi grandi compagni di avventure come Adriano Baffi, come Ivan Quaranta, Giovanni Lombardi o il suo coequipier preferito, Silvio Martinello, avevano ormai smesso di pedalare.
Marco ha fatto il miracolo: ha scoperto (forse proprio alla Sei Giorni di Cremona) e plasmato un Elia Viviani che gli ha regalato la soddisfazione di vincere l’olimpiade di Rio de Janeiro nell’omnium, la più difficile delle specialità, quindi un fenomeno come Ganna che già gli ha portato tre titoli mondiali nell’inseguimento individuale e che ha guidato il quartetto degli inseguitori a Tokyo nella più difficile e prestigiosa prova a squadre della pista.
Ed oggi, contro ogni più rosea previsione dell’antivigilia ha coronato il sogno di tutti gli amanti del ciclismo vincendo quella medaglia d’oro che più di ogni altra qualifica il valore di una nazione nel mondo del ciclismo. Nell’inseguimento a squadre non si improvvisa nulla, non ci si può affidare al talento di un singolo (vedi Viviani) che comunque va guidato, sostenuto, allenato alla perfezione. Nell’inseguimento a squadre serve una preparazione che viene da lontano, un lavoro certosino, la scelta degli atleti, lo studio e lo sfruttamento al massimo delle singole loro caratteristiche per fonderle in una sola formazione. Bisogna studiare e prevedere ogni pedalata, ogni metro di gara, ogni millesimo di secondo. E tutto questo va fatto dall’allenatore.
Puntiglioso e meticoloso forse più di quanto lo sia stato con se stesso, ha saputo creare un gruppo di lavoro eccellente nonostante le mille difficoltà che incontrano i pistard italiani per la mancanza di velodromi coperti, con l’unico esistente, a Montichiari, in cui, per molto tempo, quando pioveva non ci si poteva allenare perché l’acqua filtrava dal tetto, bagnando la pista, ma Marco è, come tutti i campioni ciclisti, abituato a lottare contro tutto: le difficoltà della vita non lo spaventano e questo suo carattere sembra aver pienamente trasferito ai suoi atleti, tutti combattenti, tutti pronti a rialzarsi nei momenti più difficili. Come Lamon, pronto a sacrificarsi nello scatto iniziale e nella conduzione del primo giro, come l’immenso Ganna su cui sono piovute ingiuste critiche dopo la corsa a cronometro su un percorso inadatto alle sue caratteristiche, come il giovanissimo Milan, fotocopia di Ganna, cui ha dato fiducia nonostante l’inesperienza, come Consonni che sembrava l’anello debole del quartetto, ma che è stato il mastice che ha tenuto insieme la squadra nei momenti difficili.
La Danimarca era la formazione favorita per tutti ed ha messo tanto in pista, anche oltre il lecito (vedi i cerotti, vedi le canottiere). Ha oltretutto fatto meglio del suo ormai demolito record mondiale, ma l’Italia di Marco, pulita, puntigliosa, perfetta nel rispettare i tempi dettati ha vinto su tutti e su tutto.
Schivo e refrattario ad ogni gesto da palcoscenico, modesto quanto è possibile, Marco crede nel lavoro e nei risultati che il duro lavoro produce e se, all’inizio ha trovato più di un ostacolo nell’ambiente, ora si può ben ammettere che ha vinto e conquistato tutti.
E probabilmente non è finita, perché c’è ancora un Elia Viviani che tenterà di confermare l’oro di Rio e cercare una medaglia nella madison e c’è un Lamon che sull’onda dell’oro nel quartetto venderà cara la pelle nel chilometro da fermo.
Non dimentichiamo, però, il Marco Villa corridore, uno che ha saputo esaltare gli appassionati di ciclismo accorsi in tutti i maggiori velodromi del mondo, uno che in quanto a Sei Giorni vanta un numero di vittorie e di partecipazioni da far invidia a chiunque (Patrick Sercu escluso, naturalmente).
In bici già tra i giovanissimi, ha sempre corso e vinto con estrema correttezza, rispetto degli avversari, grande impegno personale, sempre seguito da Papà Ettore.
Da junior i primi successi importanti, soprattutto sugli anelli di mezza Italia: campione italiano nella corsa a punti nel 1988, vinse poi tre titoli tricolori consecutivi nell’inseguimento a squadre dal 1989 al 1991. Nel 1989 fu anche terzo ai campionati del mondo nell’inseguimento a squadre e nel ‘91 si prese la medaglia d’oro nell’individuale ai Giochi del Mediterraneo.
Buon dilettante, ha messo in carniere parecchie vittorie, soprattutto in volata, ma ricorda forse più d’ogni successo la bruciante sconfitta subita al Circuito del Porto del 1991.
Militava nella Caneva, aveva aiutato parecchie volte i compagni di squadra a vincere. A Cremona, nell’ambitissimo Circuito el Porto, la squadra doveva essere tutta per lui. Così fu, infatti, fino a cinquecento metri dal traguardo, quando Claudio Camin, che avrebbe dovuto, secondo gli accordi, tirargli la volata, partì in contropiede sull’attacco di un’avversario, non lo attese e andò a vincere con una decina di metri di vantaggio.
Una delusione cocente, più che per il mancato successo nella corsa di casa, per il mancato rispetto delle consegne da parte del compagno di squadra.
Correttezza, spirito di servizio e d estrema professionalità sono stati i fondamenti su cui ha fissato la propria vita sportiva, doti che gli hanno permesso di farsi sempre apprezzare non solo dagli amici, ma soprattutto dai colleghi e avversari nel mondo estremamente difficile delle Sei Giorni che lo hanno visto sempre protagonista, sin dai primi anni di professionismo.
Professionista a 24 anni legato ad un contratto biennale all’Amore e Vita, poi per altri due anni alla Brescialat e ancora alla Cantine Tollo, Marco non ha avuto vita facile soprattutto perché gli si richiedeva un certo rendimento nelle corse su strada. Vinse infatti solo una tappa al Coca Cola Trophy nel 2005 oltre a qualche circuito locale di minore importanza, ma non abbandonava mai la bicicletta su pista, soprattutto d’inverno e andò così affinandosi nella difficile arte di interpretare le corse sui tondini.
La svolta alla sua carriera nel momento in cui incontrò Silvio Martinello, già famoso per aver vinto le Olimpiadi di Barcellona, tre anni prima, nella corsa a punti. L’affiatamento tra i due fu subito importante tanto che ai mondiali di Bogotà, proprio nel ‘95, sbancarono la concorrenza. Una vittoria forse inattesa, ma netta, da dominatori sin dalle prime battute della corsa che risultò una vera e propria cavalcata verso la maglia iridata.
Avevano impostato la loro collaborazione in occasione dei campionati italiani e in Colombia, pur non partendo da favoriti, erano comunque una coppia da tener d’occhio per chi voleva conquistare il podio
Martinello era in forma smagliante, al punto da vincere in quella edizione dei mondiali anche l’oro nella corsa a punti, ma l’apporto di Marco e della sua saggezza in corsa fu fondamentale.
Favoriti erano gli argentini Esteban e Gabriel Curuchet, vecchie volpi degli anelli, sempre protagonisti sulle piste di tutto il mondo e, naturalmente, affiatatissimi, ma nulla poterono contro la strapotere degli azzurri. Si inchinarono anche gli specialisti rossocrociati Risi e Betshart che chiusero con la medaglia di bronzo. Si sarebbero rifatti, i fratelli sudamericani, vincendo le Olimpiadi del 2000 di Sidney quando i nostri finirono al terzo posto.
Visto che il binomio funzionava, i due cominciarono a presentarsi insieme alle Sei Giorni invernali. Vinsero quella inaugurale della stagione, a Grenoble suscitando l’entusiasmo del competente pubblico francese. Il sodalizio è naturalmente continuato nella stagione successiva e la coppia ha infilato quattro successi consecutivi nelle Sei Giorni: a Bassano del Grappa, Brema, Bordeaux e Milano: proprio in quest’occasione, con la disputa della Sei Giorni che ripartiva dopo dieci anni di assenza i due, superando quella che era fino ad allora considerata la coppia più forte del mondo (gli svizzeri Risi-Betschart) confermarono di essere quasi imbattibili. Riconquistarono in estate il mondiale dell’americana sulla pista di Manchester mettendosi alle spalle quasi con irrisoria facilità, gli inglesi Scott Mc Grory e Stephen Pate cui nulla valse l’incitamento del pubblico di casa.
Insieme vinsero ancora a Milano, Bordeaux, Zurigo e Medellin, poi nel 1998 furono costretti a cedere lo scettro mondiale all’astro nascente del ciclismo spagnolo su pista, il fortissimo Llaneras accoppiato a Miguel Azamora.
Per i due azzurri, la medaglia d’argento, i Curuchet in terza piazza, ma ancora quattro furono le vittorie nelle Sei Giorni: Berlino, Copenaghen (un successo, questo, voluto ad ogni costo ed anche sofferto perché nei due anni precedenti erano finiti al secondo posto superati da Risi-Betshart poi dai locali Madsen-Veggerby) Bassano del Grappa e Gand.
Le numerose vittorie su tutte gli anelli delle Sei Giorni costrinsero in pratica la coppia a dividersi. Di volta in volta venivano accoppiati ad altri campioni, soprattutto stradisti che si cimentavano nelle kermesse di tutta Europa. Insieme dominarono comunque le due edizioni di Bordeux, ancora Berlino, Stoccarda, Gent e Copenaghen.
In mezzo, naturalmente, l’Olimpiade di Sidney alla quale arrivarono in forma, consci di dover lottare con le migliori coppie del mondo: una vera e propria battaglia che diede ragione, nel finale, alla freschezza dei due velocisti di casa, Brett Aitken e, soprattutto Scott Mc Gregory protagonisti coi belgi Etienne De Wilde e Matthew Gilmore di una corsa straordinaria e di una partenza al fulmicotone. I nostri difesero una medaglia di bronzo che coronava una carriera grandissima e li manteneva nel novero dei migliori pistard della loro epoca.
Insieme si aggiuducarono ancora le Sei Giorni di Berlino (per la terza volta9 poi di Stoccarda e in ultimo di Amsterdam (la sedicesima in coppia). Fermatosi Martinello, Marco rimase ancora a lungo in bici: vinse a Grenoble con Baffi, tre volte a Torino (con Quaranta. Marvulli e Donadio), a Fiorenzuola (con Marvulli l’ultima grande vittoria nel 2006 a Fiorenzuola).
Marco ha chiuso la sua stagione agonistica con un bilancio di ben 164 Sei Giorni disputate, delle quali 26 vinte, cui vanno ad aggiungersi due ori ed un argento mondiali nell’americana, un bronzo alle Olimpiadi, un bronzo mondiale nell’inseguimento a squadre e numerosi titoli italiani.
Si è scomodato persino l’”Imperatore”, per chi non lo conoscesse, Patrick Sercu, venuto appositamente dal Belgio per onorare l’uscita di Marco Villa dal mondo delle Sei Giorni, di cui è stato padrone indiscusso da mezzo secolo sia come corridore (ne ha disputato 223 vincendone 88) quanto come manager e organizzatore, poi l’inseparabile Silvio Martinello e Giovanni Lombardi, che vive a Barcellona ed è l’amico con cui ha condiviso le prime esperienza sulla pista di Crema e tutti i protagonisti delle Sei Giorni Internazionali col loro presentat arm al suo passaggio. Tra loro, un giovanissimo alle prime esperienze in pista corta, Elia Viviani che a Rio gli avrebbe dato la prima gioia da CT, l’oro nell’omnium.
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