1950, 75 anni fa: quella colonna di fuoco dal pozzo di Cortemaggiore visibile anche Cremona: 67 giorni d'inferno
Sessantasette giorni di inferno, con fiamme tanto alte quanto violente, ad una manciata di chilometri in linea d’aria da Cremona, ben visibile da tutta la città e dalla provincia cremonese. Un incendio drammatico che provocò, in dicembre, e nel vero senso della parola, una sorta di primavera anticipata facendo germogliare grano e foraggio e facendo spuntare le foglie sugli alberi da frutto. A Cremona il Torrazzo dovette essere addirittura chiuso a causa dell’affluenza, troppo elevata, di curiosi che volevano salire sulla sua sommità per assistere alla tragedia. Sono passati 75 anni (era il 1950) dallo storico incendio del pozzo di petrolio di Cortemaggiore , non il solo grave incidente del dopoguerra legato allo sfruttamento degli idrocarburi nelle terre del Po. Fu comunque il peggiore, durò più di due mesi e anticipò di un paio d’anni il rogo che, nell’aprile 1952, colpì il giacimento sotterraneo di metano di Bordolano. Episodio, quest’ultimo, che si guadagnò anche la copertina della “Domenica del Corriere” ed il cui video è ora facilmente accessibile dopo che buona parte dei documenti dell’archivio storico dell’Istituto Luce sono stati ospitati sul canale ufficiale Youtube dello stesso istituto.
A Cortemaggiore, al pozzo 18, nell’ottobre del 1950 divampò il primo incendio, domato n 24 ore. Quindi, la notte del 3 dicembre 1950, 75 anni fa, l’episodio più grave, a Bersano, a due passi da Cortemaggiore, ma in comune di Besenzone, un “tiro di schioppo” dal cremonese. Per oltre due mesi dal pozzo di Bersano si levò una colonna di fuoco alta 100 metri, visibilissima da Cremona. Con un continuo rombo assordante andarono in fumo 67 milioni di metri cubi di idrocarburi: una quantità spropositata che può reggere il paragone con il famoso disastro della Deepwater Horizon, avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico. Quando il pozzo andò a fuoco era inverno pieno, ma nei campi della Bassa Piacentina il grano mise la spiga per il gran calore. Per domare il pozzo, si mandò a chiamare un superesperto statunitense. Ci provò, ci riprovò e si arrese: se ne andò alla chetichella, senza neanche salutare di persona. Sembrava che l’incendio dovesse proseguire finché nel sottosuolo non si fosse consumato l’intero giacimento. A spegnerlo invece furono i tecnici dell’Agip. In quel 1950, l’Agip stava cominciando a mettere in produzione i giacimenti di gas metano e di petrolio di fresca scoperta attorno a Cortemaggiore. Per l’Italia del dopo secondo conflitto bellico, quegli idrocarburi sembravano una promessa di energia pressoché infinita e quindi una manna dal cielo. In realtà i giacimenti si esaurirono abbastanza presto, ma tuttora si cerca perfino davanti al delta il poco gas e il poco petrolio che ancora restano. Senza contare che si fanno impianti avveniristici facendoli passare per “green” (perché l’immancabile inglesaggine utilizzata dal popolo dei furbastti forse fa più effetto, mentre a chi scrive queste righe provoca il vomito come lo provocano i depositari dall’anglosassonia) e si parla anche della riapertura della centrale nucleare di Caorso: altra furbata che probabilmente, a chi scrive queste righe costerà l’ennesimo invio di qualche minaccia scritta in privato (i delinquentelli che fanno queste cose sappiano che eventuali messaggi saranno subito oggetto di querela). L’avvio dello sfruttamento del gas e del petrolio a Cortemaggiore fu segnato da svariati incidenti. L’incendio che fece spuntare le spighe di grano in inverno coinvolse il pozzo numero 21: oltre ad essere il più grave, fu anche l’ultimo fra quelli degni di maggiore nota. Il pozzo 18 sprigionò per 24 giorni un getto a 150 atmosfere di metano e di petrolio nebulizzato. Lo ha ricordato anche il giornalista Giacomo Scaramuzza, che, a suo tempo, si occupò sia di quell’incidente sia, poco dopo, del pozzo numero 21. La Camera di Commercio di Piacenza ha pubblicato le memorie di Scaramuzza in uno dei suoi bollettini. Attorno al pozzo 18, per 24 giorni ci fu un rumore assordante. Ovunque puzza di petrolio, fanghiglia ed un’innaturale nebbia bigia e sporca. Anche per venire a capo di quell’incidente l’Agip si rivolse al superesperto statunitense, mister Miron Kenley. La sua attività di domatore di pozzi incendiati gli era costata la perdita di una gamba e gli aveva fruttato la fama di essere il migliore al mondo. Pare che, prima dell’intervento di Kenley, il pozzo 18 abbia disperso nell’ambiente 15 milioni di metri cubi di idrocarburi. Compiuto il lavoro, Miron Kenley era in navigazione per tornare negli Stati Uniti quando l’Agip lo richiamò in fretta e furia a causa dell’esplosione e dell’incendio del pozzo numero 21, verificatisi il primo dicembre 1950. Anche se si trattava sempre del giacimento di Cortemaggiore, in realtà il pozzo situato a Berzano. Vetri delle case in frantumi per chilometri e chilometri a causa del poderoso botto, traffico bloccato sulla via Emilia perché gli automobilisti si fermavano a guardare l’immane colonna di fuoco, coda per salire la sera sul Torrazzo di Cremona, dal quale – ad una ventina di chilometri in linea d’aria – si aveva una vista panoramica sul terrificante spettacolo. L’afflusso di gente era tale che il Torrazzo dovette addirittura essere chiuso. Qui sotto le immagini dell’Istituto Luce, in apertura di un cinegiornale di pochi giorni successivo allo scoppio. Nessuna vittima ma 300 milioni di danni, diceva il cinegiornale: tuttavia i danni continuarono poi ad aumentare. In uno dei primi fotogrammi si vedono foglioline appena spuntate sui rami di un albero: ed era dicembre. Negli archivi dell’Istituto Luce c’è anche un altro video, ma senza sonoro. Miron Kenley provò per una decina di giorni a fare tutto quel che sapeva, servendosi di attrezzature speciali fatte arrivare con un aereo. Poi mollò di brutto un’impresa che gli sembrava assolutamente impossibile. Affidò il commiato ad un telegramma indirizzato ad Enrico Mattei, allora presidente dell’Agip e pochi anni più tardi presidente dell’Eni: ”Sorry, mister Mattei. Fatto il possibile. Questa volta non si può, penso che lei ha un nuovo Vesuvio”. Quel “nuovo Vesuvio” continuò ad eruttare la sua colonna di fuoco, mentre attorno al pozzo andava formandosi un profondo cratere che poi raggiunse il diametro di 80-100 metri. I danni aumentavano di giorno in giorno. Fin dall’inizio per il gran calore si era fusa l’incastellatura in acciaio del pozzo. Poi l’acqua dei pozzi cominciò a bollire e a prosciugarsi mentre dei campi il grano e il foraggio crescevano come se fosse primavera. Furono i tecnici AGIP a trovare il modo di spegnere quell’incendio apparentemente indomabile. A poca distanza dal pozzo 21, scavarono un altro pozzo inclinato che intercettava in profondità il primo, così da tagliare dal basso l’alimentazione dell’incendio. Il “vulcano” smise di eruttare il 6 febbraio, dopo 67 giorni. Si suppone che in ognuno di quei 67 giorni sia bruciato un milione di metri cubi di gas e di gasolina. Si pensi che nel 2010, durante i circa cinque mesi del disastro della Deepwater Horizon, si sparsero in mare fino a 60 mila barili di petrolio al giorno. Ovvero, circa 9.500 metri cubi al giorno. Nel caso della Deepwater Horizon si trattava di petrolio, non di gas e gasolina come a Cortemaggiore, ma i numeri furono enormemente inferiori. Un fatto che, settantacinque anni dopo, merita senz’altro di essere ricordato e che anticipò di due anni l’incendio al giacimento sotterraneo di metano di Bordolano.
Eremita del Po
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti