Agostino e Attilio, partita a briscola per ricordare Pieve d'Olmi d'un tempo. Il campanaro e quel matrimonio con lo scaldino
Dopo la messa delle 16, il ritrovo è al bar dell’oratorio per la briscola.
Qui incontro Agostino Morandi, classe 1937, nato e cresciuto a Pieve d’Olmi e che da quando aveva 18 anni presta servizio come campanaro e sagrestano. «Me lo chiese il parroco, don Lino Albertoni – spiega Agostino – io ho accettato, anche se bisognava alzarsi alle 5.30 e suonare le campane a mano. Mica come oggi, che basta schiacciare un bottone». Ancora ragazzo, ma già impegnato nel lavoro dei campi a Ca’ de’ Staoli, il giovane accetta ed inizia la sua ‘avventura’ che ancora oggi porta avanti con grande orgoglio.
«Dovevo tenere pulita la chiesa, c’era da togliere le ragnatele, mettere i paramenti nelle diverse occasioni- ci racconta – salivo su una scala a pioli, fino in alto, mi tenevo con una mano e con l’altra appendevo il paramento. Oppure salivo sul cornicione, quasi al soffitto e lo percorrevo tutto per raggiungere l’altra parte. Pensi che il soffitto era a volta e quindi dovevo stare piegato» Ma Agostino era giovane ed agile e non era certo una passeggiata su un parapetto di pochi centimetri, a diversi metri di altezza, a spaventarlo.
«Oltre alle campane delle messe, suonavo anche la campana della scuola, un quarto d’ora prima dell’inizio delle lezioni. Poi due volte mi è capitato di suonare per il fuoco: un incendio a Cantarane e poi un altro a San Fiorano. Si suonava la campana per richiamare l’attenzione, la gente poi si radunava in piazza e se serviva, poteva andare ad aiutare». Ma non solo il fuoco e la scuola, Agostino era responsabile di suonare le campane anche in un’altra occasione, per la quale percepiva un rimborso di 24 mila lire dal Comune: «Una volta al mese suonavo per avvisare che in Municipio era presente l’esattore delle tasse per riscuotere le imposte. Allora salivo e suonavo il batacchio per segnalarlo». Per fare un parallelo con i nostri giorni, potremmo immaginarla come una versione d’altri tempi delle moderne Pec, ed anche il risultato era lo stesso: la gente temeva quella ‘notifica’ che arrivava puntuale, annunciata dal martellare della campana, a testimonianza che, gli esattori, un modo o l’altro lo trovavano per richiamare al proprio dovere i contribuenti… Anche i più lontani
«Un altro compito importante era caricare l’orologio: 170 giri di manovella, da fare a mano, per tirare su fino in alto i pesi che poi, pian piano durante il giorno scendevano facendo funzionare il meccanismo. Capitava poi che si rompesse il legaccio di cuoio che teneva le campane unite alle corde: allora andavo a chiamare èl selèer (colui che lavorava il cuoio, principalmente per le selle dei cavalli, ndr) che veniva ad aiutarmi, ma siccome era zoppo, ci mettevamo un sacco di tempo a salire fino in cima alla torre».
Altro capitolo, i funerali. Pieve d’Olmi si componeva di un centro abitato non molto ampio circondato da un gran numero di cascine e cascinali sparsi nei campi. Spesso quindi capitava che il defunto giungesse da fuori del paese. «Per sapere quando suonare le campane, dovevo salire sul campanile e controllare la strada. Quando vedevo il corteo che si avvicinava, iniziavo a suonarle. In questo caso però eravamo in tre perché nei funerali la campana va bloccata a metà dopo il primo tocco, per dargli la tipica cadenza ‘da morto’».
Poi c’erano i matrimoni, altra grande occasione solenne, per cui bisognava preparare i paramenti rossi, sistemare bene la chiesa e organizzare tutto per la celebrazione.
«Io sono stato il suo primo matrimonio, -ci racconta con grande entusiasmo il suo compagno di briscola Attilio Cigognini- Sa quanti anni ho? Sono del 1929». Nato a Pontenure, in provincia di Piacenza e giunto in fasce a Pieve d’Olmi lo stesso anno, insieme ai genitori ed ai 7 fratelli maggiori.
«Mi sono sposato il 6 febbraio e c’era giù tanta neve così! Le donne portavano lo scaldino in chiesa. Sa, dovevamo sposarci a novembre, ma poi ci sono stati dei problemi di salute e ci siamo sposati a febbraio». Poco dopo Attilio torna col suo album di nozze ed una vecchia foto di famiglia. Sfogliando le pagine delicate di quell’album emerge un mondo antico in bianco e nero, fatto di volti come oggi non se ne vedono più, visi dai lineamenti scolpiti dalla fatica, dal sole delle estati padane e dal freddo dei taglienti inverni. Tra tutte le foto, spicca quella della sposa, Silene, che sorride elegante nel suo abito bianco con la veletta in testa. «Ci siamo sposati dopo 7 anni di fidanzamento e l’ho sposata con questo bel vestito bianco» racconta orgoglioso Attilio, che ritrovo ancora nella foto accanto, scattata quasi 70 anni fa: lui e la sua Silene sorridono, sono già marito e moglie. Un’ultima foto di gruppo sul sagrato della chiesa, dove si vedono anche i cumuli di neve e, sopra il portone della chiesa, si nota il bel paramento di velluto che quella mattina del 6 febbraio 1956 il giovane Agostino aveva appeso, salendo in bilico su una scala a pioli.
Storie fatte da una serie di aneddoti di un mondo che oggi non esiste più, racconti che sembra di vedere in bianco e nero mentre li ascolti, fatti di famiglie numerose, cascine popolate da decine di persone, ritmi lenti che seguivano il corso delle stagioni, ma sempre scanditi, per ogni occasione, dal suono delle campane.
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commenti
Renzo
3 luglio 2023 07:22
Articolo bellissimo sul "mestiere" del campanaro/sagrestano. Anche mio papà lo era ed i ricordi abbondano.