17 ottobre 2023

Anna Rossi e Reno Riboni, una storia di accoglienza degli ultimi nella missione in Brasile

Missionarietà vuol dire accoglienza degli ultimi. Questo è il carisma della famiglia che i coniugi Anna Rossi e Reno Riboni di Cremona hanno formato quasi quarant’anni fa e che da subito si è aperta a bambini e ragazzi di ogni età, prima in Italia e dal 1998 in Brasile. Ascoltare i loro racconti apre il cuore a un modo speciale di vivere la fede e la famiglia, seguendo il solco tracciato da don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, di cui fanno parte. Un’esperienza nata nel 1968 e che oggi conta 41mila persone nel mondo.

Come è nato il desiderio di partire?

«Noi diciamo di essere stati chiamati, anche se è un’espressione che ci fa paura. Don Oreste un giorno ci disse: “Non abbiate paura: se vi sentite realizzati e felici, vuol dire che state camminando nel progetto che Dio ha su di voi”. Così abbiamo lasciato l’Italia. Per tredici anni abbiamo vissuto a Minas Gerais e poi, grazie alle suore della Sacra Famiglia di Savigliano che ci hanno donato la casa, ci siamo trasferiti a Salvador de Bahia, che è una megalopoli, quindi più pericolosa, ma che offre ai nostri ragazzi più possibilità per studiare e lavorare. E poi la presenza della Diocesi di Cremona, con don Emilio Bellani prima e don Davide Ferretti ora, è un grande aiuto».

Quanti ragazzi avete accolto in Brasile?

«Tanti, forse una cinquantina, di tutte le età: da neonati ad adulti in recupero dalla tossicodipendenza o ragazze madri. In modo stabile 15 e di questi 9 sono stati anche adottati. Il nostro scopo è accogliere questi giovani fino a che le famiglie di origine non possono tornare a occuparsene».

Avete incontrato momenti di difficoltà?

«È meglio parlare al presente! I momenti di serenità sono i più numerosi, ma come in tutte le famiglie anche qui i problemi non mancano. Tra di noi, con i nostri figli e tra di loro. Noi ora abbiamo otto tra ragazzi e ragazze che vivono insieme. Noi li educhiamo tutti allo stesso modo, ma tra di loro sono molto diversi e con un passato difficile segnato dall’abbandono. Quello che hanno vissuto e che si ricordano riaffiora quando devono affrontare un conflitto o un momento di frustrazione».

Reno, per un periodo ha vissuto con voi anche Gioconda, tua mamma, venuta dall’Italia…

«Sì, ed è stata un’esperienza bellissima. Ha vissuto qui per due anni ed è arrivata che aveva già l’Alzheimer, quindi abbiamo dovuto accudirla. È morta qui, in casa con noi. Ai nostri figli manca il contorno dei parenti fatto di zii e cugini, perciò avere qui la nonna ha permesso loro di vivere anche questa dimensione. E poi è stata una donna eccezionale, che ci ha sempre accompagnato e sostenuto nelle nostre scelte, senza far pesare ai suoi figli l’ansia di dover realizzare ciò che lei non ha potuto. Questo è un grande insegnamento per noi, come genitori e come cristiani».

Cosa vi dà la forza per andare avanti?

«Loro sono figli nostri. Non possiamo abbandonarli. Il nostro compito è far sentire loro che la famiglia è il luogo dove c’è sempre qualcuno su cui contare. Non desistiamo nei confronti di nessuno. Per noi accettare il povero vuol dire accogliere Gesù. Non possiamo lasciarli, anche se irrecuperabili, perché sono strumento della nostra conversione. Lo dice anche lo statuto della Comunità Papa Giovanni XIII. Non siamo qui per salvare qualcuno, non ne siamo in grado, ma per santificare noi stessi».

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