I mulini sul Po e quelli sui canali attorno a Cremona, fondamentali per l'economia della città. La loro storia e il loro censimento
Prima che venisse regolamentata, verso la fine dell'Ottocento, la situazione idraulica del Comune di Cremona, e che sul Po iniziassero a transitare le prime bettoline, i tanti canali che circondavano la città ed il grande fiume che la costeggia hanno avuto un’importanza fondamentale per l'economia. E non solo per la movimentazione delle merci, ma anche per la produzione di beni di prima necessità. Un elemento fondamentale nel paesaggio della città fluviale erano i mulini, sia quelli terranei, che i natanti o galleggianti. Questi ultimi, ormeggiati a riva con grosse funi e catene, o come si diceva nel gergo “appiardati”, o ancorati al fondo del fiume, nel tratto dove la corrente era più profonda e scorreva più veloce, mediante le “burghe” (grossi cestoni di vimini o ferro riempiti di sassi), i mulini funzionavano grazie alla forza motrice dell'acqua, da sempre l'energia meccanica più disponibile e meno costosa.
Date le grandi variazioni stagionali del regime fluviale, i mulini non erano fissi, ma natanti, costretti a frequenti spostamenti lungo la sponda o anche da una sponda all'altra. I mulini del Po sono stati resi famosi dal romanzo storico di Riccardo Bacchelli “Il mulino del Po” e dai film e sceneggiati omonimi di Alberto Lattuada del 1949 e di Sandro Bolchi nel 1963. Data la diversità delle correnti, i mulini natanti del Po presentavano diverse tipologie, potendo essere appaiati o raggruppati in batterie.
Il primo accenno ad un mulino natante sul Po risale all’851 quando l’imperatore Lodovico investiva la “molitura dei molendinis”, la definizione tecnico‐giuridica del mulino natante all’epoca. I documenti che riportano la presenza dei mulini natanti nell’Italia settentrionale si moltiplicano verso metà del VII secolo. I mulini natanti fecero parte del patrimonio paesaggistico dei grandi fiumi fino agli inizi del ‘900 quando, a causa della comparsa sui fiumi della navigazione a vapore, dei battelli e dei rimorchiatori che necessitavano di grandi spazi, i mulini scomparvero. L’eliminazione dei mulini natanti avvenne tramite la non riconferma dell’utenza e della concessione delle acque, seguito dall’assoluto divieto di installazione di nuovi mulini. Questi provvedimenti portarono in breve tempo al completo smantellamento di tutti gli opifici in attività, con una conseguente crisi economica per i mugnai e le loro famiglie. Recentemente Andrea Breda, funzionario medievalista della Soprintendenza archeologica, ha ipotizzato che i resti murari che affiorano periodicamente emergendo dalla spiaggia dei Bruti in seguito alle magre del Po, siano proprio le fondamenta dell’edificio in muratura che accompagnava i mulini mobili sul Po, confermato dalla presenza di un edificio, pur modesto, nel catasto del 1869 nel Comune dei Corpi Santi e da altri due posizionati quasi dirimpetto sulla sponda piacentina. Nel 1902 la Commissione della Navigazione Interna nella Valle del Po registrò nei suoi atti 266 mulini, di cui tredici nel tratto cremonese, che funzionarono fino agli anni ’40 del ‘900.
I mulini erano macchine molto complesse, perchè i meccanismi di base erano stati nel tempo continuamente migliorati e affinati dall'ingegnosità e dall'esperienza dei molinari e soprattutto degli abilissimi costruttori di imbarcazioni, i “calafati”. A parte le macine, che erano in pietra, la struttura e gli ingranaggi dei mulini erano interamente in legno di quercia, di rovere, di noce, i più resistenti all'acqua, agli urti e al forte attrito cui erano sottoposti nel loro continuo lavoro. Essi erano costituiti da due zattere galleggianti con la chiglia piatta chiamati “sandoni”, le pareti e la poppa quasi verticali e la prua rialzata, collegati tra loro da un largo ponte, detto “andiale”, e da diverse assi, le “catene”. A poppa era situata la ruota a pale, montata su una trave orizzontale detta “fuso”, che, girando in senso antiorario, trasmetteva il movimento a una serie di ruote dentate, che facevano girare la macina, formata da una parte inferiore fissa e da una superiore rotante, da cui venivano immesse le granaglie, trasformate in farina dallo sfregamento. Normalmente le macine messe in moto dallo stesso meccanismo erano due, una per la molitura del frumento e una per il mais e gli altri cereali. Il tipo di mulino più diffuso dalle nostre parti era la cosiddetta “mulinella”, in cui il “sandone” che portava l'impianto di macinazione, il “palmento” era circa un metro più lungo dell'altro, che invece era adibito ad abitazione del molinaro, a magazzino dei sacchi di grano e ad officina per le frequenti riparazioni che occorrevano. L'altro tipo, a doppio palmento, uno per ogni “sandone”, era chiamato “mulinassa”.
I mulini erano macchine imponenti per la loro stazza e misuravano di lunghezza 12-13 metri e di larghezza intorno agli 11-12 metri. Anche la forza-lavoro dei mulini dipendeva dalla velocità della corrente: nei periodi di magra la ruota andava lenta e in una giornata si macinavano uno-due sacchi, mentre nei periodi più favorevoli si raggiungevano i cinque-sei sacchi (il sacco era una misura cremonese di capacità, corrispondente a circa kg. 71,200.
Accanto ai mulini natanti vi erano quelli terrestri, alimentati dalle acque dei tanti canali. Nel territorio comunale di Cremona ne sono stati censiti 27, sette dei quali lungo il corso della Cremonella, spesso all'origine di notevoli problemi di convivenza con la città. Spesso infatti i possessori restringevano l'alveo del canale a monte delle macine per innalzare il livello dell'acqua, aumentandone di conseguenza il salto, ma provocando anche l'allagamento delle cantine, l'inquinamento dei pozzi ed il rigurgito delle chiaviche che vi si riversavano. Per questi problemi fin dalla fine del 1700, quando si decise il risanamento del cavo, se ne iniziò l'abbattimento, concluso nel 1841 con l'acquisto da parte del Comune del mulino dei fratelli Berni per dar corso alla sua demolizione. Tra il 1892 ed il 1893 furono eliminati anche gli ultimi due mulini sul Naviglio Civico in modo da dare corso alla copertura della Cremonella.
Sulla Cremonella si trovava il mulino di Santa Caterina, in contrada del molino (poi diventata Oltracqua ed oggi via Antico Rodano), nella parrocchia di santa Cecilia, vicino al convento di santa Caterina; nel 1391 ne era proprietario il marchese Ugolino Cavalcabò, ma non se ne ha più traccia nelle tavole del catasto teresiano del 1756. A monte della Contrada santa Margherita (oggi via Guido Grandi), nella parrocchia dei santi Giacomo in Breda ed Agostino, poco distante dalla chiesa di santa Margherita c'era il mulino di Sant'Agostino, costruito probabilmente prima del 1387. I Padri Agostiniani ne mantennero il possesso almeno a partire dal 1539 al 1787, quando fu acquisito dal Comune e poi distrutto. Sempre sulla Cremonella era situato il mulino di Sant'Omobono, appena a valle di contrada Bassa (ora via Ruggero Manna), nella vicinia di sant'Egidio, poi parrocchia di sant'Omobono, nelle immediate vicinanze di piazza San Paolo; una carta di sublocazione del 1559 dimostra come in quell'anno fosse già funzionante, il Comune lo acquistò nel 1841 per disattivarlo. Altri mulini erano situati sulla Cremonella appena fuori dalle mura: i due mulini di San Cataldo l'uno di fronte all'altro, nel borgo di san Cataldo (o santo Stefano) nei Corpi Santi, a monte delle mura; erano sorti prima del 1588 e furono demoliti tra il 1862 e il 1864, in occasione della costruzione dell'area ferroviaria; e il mulino di Sant'Agnese, ubicato sul tratto di canale esterno alla porta Po, appena a monte dello sbocco nel Morbasco, nel borgo di sant'Agnese; potrebbe trattarsi del mulino di cui si parla in una supplica databile tra il 1555 e il 1556 per costruirne uno fuori di porta Po, vicino a una fornace del vetro; l'opificio, comunque, esisteva sicuramente nel 1562, distrutto nel 1781, fu poi ricostruito; nel 1865 il Comune concordò la sua definitiva demolizione, dati gli inconvenienti igienici provocati dal rincollo delle acque.
Altri due mulini si alimentavano con le acque della Fossa Civica: il mulino di porta Mosa, appoggiato ai bastioni, vicino alla porta; è citato in documenti del 1211, quando il Comune, che ne era proprietario, lo diede in investitura ad alcuni privati; nel 1447 il governo cittadino concesse di derivare acqua da un ramo del cavo Marchionis e fu distrutto per ragioni igieniche intorno alla fine del Settecento. L'altro era il mulino di San Luca, fatto costruire a ridosso delle mura della rocchetta dal Governatore e Castellano di Cremona don Alvaro de Luna tra il 1547 e il 1556; nel 1574 era già in predicato di essere demolito, perché il ristagno dell'acqua favoriva il deposito di immondizie nel fossato. ma esisteva ancora nel 1631 quando fu visitato dall'ingegner Pietro Lissa.
Anche nel fossato del castello di Santa Croce c'era un mulino, citato in un documento collocabile fra il 1555 e il 1556 e visibile sulla pianta del Campi del 1583; in un documento del 1585 si legge che il Governatore dello Stato di Milano dava «licenza a Giovannino Mozzo di far scavare un condotto d'acqua e di costruire dei mulini presso il castello di Cremona», forse una ricostruzione dello stesso, piuttosto che la messa in opera di altri opifici. Sull'ultimo tratto del Naviglio Civico verso la fossa civica esistevano i due mulini di San Luca; uno, detto «dell'Ospitale», era funzionante nell'anno 1609; l'altro, detto «del Governatore», esisteva prima del 1631, e furono entrambi demoliti tra il 1830 e il 1889.
Tre mulini sfruttavano le acque del cavo Baraccona: il primo, situato all'inizio del fugatore del Naviglio, precedentemente denominato «cavo del Maglio», forse esisteva nella prima metà del XV secolo, sicuramente nella seconda metà del Cinquecento, quando l'energia disponibile azionava un maglio per la carta, è chiamato anche, più recentemente, «delle Passere» o «Molinetto», era ancora funzionante nel 1860; è tuttora esistente, seppur diroccato. Il secondo era ubicato un po' più a valle, a lato di via Filzi ed esisteva già nel 1562, anche se probabilmente più antico; nel 1585 aveva due ruote, una per la molitura dei grani e l'altra per la follatura dei panni; oggi rimane solo il salto. Infine appena a valle del ponte di via Castelleone, che collegava la città e i Corpi Santi con il borgo di san Simone (o dei santi Simone e Giuda, o di San Simonesco, o Spera) c'era il terzo mulino già attivo nel 1560; nell'Ottocento era noto col nome di «mulino Maglia»; il fabbricato è tuttora esistente, ma non utilizzato.
Appena fuori la cinta muraria, sulla roggia Rodano, c'erano altri tre mulini: il primo era situato alla cascina Cambonino di sotto; gli altri due nel borgo di san Simone, uno appena a monte dell'odierna via Milano (adiacente all'attuale Seminario), l'altro qualche decina di metri a valle della strada stessa; a uno di questi ultimi potrebbe riferirsi una pergamena degli Umiliati della casa di san Guglielmo stesa nel 1351; appartennero per diverso tempo alle nobili famiglie Trecchi e Cattaneo; di essi non rimane che il terzo (detto anche “dell'Angelo” o “Mangianti”), dismesso. Nei pressi della vecchia chiesa di Sant'Ambrogio sulla roggia Corrada, esisteva un mulino costruito prima del 1617, quando l'Ufficio del Naviglio concesse al Consorzio della Donna di poter utilizzare le acque di roggia Cavo, attraverso il bocchetto della Lupa, a favore del detto mulino; trasformato in pila per la lavorazione del riso, è divenuto col nome degli ultimi proprietari, i Morandi e fu disattivato pochi decenni fa.
Nei pressi della frazione Migliaro, lungo la strada che collega Cremona con Breda de' Bugni, vi era un mulino in località Pissinola costruito nel 1479; nel corso dei secoli appartenne anche al Consorzio della Donna e alle nobili famiglie Trecchi e Vidoni; verso la metà del secolo scorso fu trasformato in opificio a vapore; seppure inattivo, il complesso, ruota compresa, esiste tuttora. A occidente della via Bergamo al Migliaro, era funzionante un mulino nel 1555; tra i proprietari succedutisi nel tempo figurarono le nobili famiglie Soresina, Trecchi e Vidoni; il cascinetto, comprendente l'opificio, è stato ristrutturato e adattato ad abitazioni a schiera. Un altro mulino era situato ad occidente del cimitero nella località San Zeno sul cavo Fregalino, costruito nel 1588; per il suo funzionamento la città concesse alle Madri del Monastero di san Giovanni Nuovo di poter usufruire di acqua estratta, durante la stagione invernale, dal Naviglio attraverso uno dei bocchetti aperti sull'asta terminale del civico acquedotto. Sempre sulla roggia Fregalino, alla confluenza con il cavo Robecco, esisteva un mulino nel 1566, disattivato nel 1905 quando lo sfocio del Fregalino fu spostato per lasciar posto alla strada di collegamento tra la statale per Brescia e la località Boschetto; esiste ancora il cascinetto, disabitato.
Situato appena a valle dello sbocco del colatore Pippia, poco distante dal Monastero di san Giovanni della Pippia, che per molto tempo ne è stato proprietario, c'era il mulino di San Lazzaro sul cavo Cerca; se si dà credito a un inventario degli opifici (con relative concessioni) di pertinenza del Consorzio di bonifica Dugali, stilato dall'Ente nel 1827, la prima concessione riguardante il predetto mulino risalirebbe addirittura al 1241; dell'opificio, ancora funzionante nella seconda metà dell'Ottocento, non rimane nulla. E sempre sul cavo Cerca, a valle di via san Rocco, esisteva nel 1631 un mulino, ancora funzionante nella seconda metà dell'Ottocento di cui oggi rimane la cascina alla quale era annesso. Un altro mulino esisteva sulla roggia Fregalino, poco distante dalla frazione di San Savino, se ne fa cenno in una pergamena del 1421, quando gli utenti della roggia stabilirono che esso potesse utilizzare, insieme all'opificio di Farisengo, la metà della portata non riservata alla irrigazione, fu disattivato nel 1957, ma l'edificio esiste tuttora.
Ed infine c'erano i due mulini di Cavatigozzi sul cavo Morbasco: il primo, noto come “mulino Grassi”, è ubicato in località Passirano e continua l'attività molitoria, seppure con macchinari di avanguardia impiantati nelle adiacenze; il secondo era situato a valle della strada per Milano, vicino all'Abbazia dei Padri di santa Maria Maddalena della Cava; la città di Cremona concesse gratuitamente, nel 1498, la quarta parte dell'acqua scorrente nell'asta maestra del Morbasco a favore di questi e degli altri opifici costruiti sul tronco compreso tra la località Cura e lo sbocco nel Po, a quel tempo appena a valle della Cava.
Il mulino natante sul Po, quello del Migliaro e quello di Revere (MN)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti