Il 1° maggio di 75 anni fa (1949) e la lotta dei salariati agricoli. Lo sciopero dei 40 giorni. Solidarietà tra coltivatori diretti e scioperanti. Le disdette come arma
Nel maggio di settantacinque anni fa le nostre campagne furono teatro di uno degli scioperi più clamorosi e dolorosi dell’intera storia dell’Italia moderna. Per quaranta giorni i contadini ingaggiarono un braccio di ferro con la grande proprietà agraria da un lato e le forze di polizia dall’altro. Erano in gioco una serie di rivendicazioni che comprendevano il contratto unico dei salariati e dei braccianti agricoli, il sussidio di disoccupazione per i lavoratori della terra in analogia a quanto già avvenuto nell’industria, la parità assistenziale, il raddoppio degli assegni famigliari e la giusta causa nelle disdette. Era la fase iniziale di un periodo durissimo.
Di estrema arretratezza erano infatti le condizioni sociali ed igieniche che caratterizzavano ancora la vita dei salariati fissi in cascina: il salario, parte in natura e parte in denaro, veniva corrisposto ogni quindici giorni, con il saldo a fine annata. La “zappa” veniva data al terzo, al quarto, ed anche al quinto, per cui per ogni quintale di granoturco raccolto toccavano all’intera famiglia tra i venti e i trenta chili, raccolti in orario extralavorativo. La casa era spesso solo un tugurio umido e malsano in prossimità della stalla, veicolo di tepore ma anche di malattie, come la Tbc, che affliggevano il 70-80% dei bergamini e dei mungitori. I grandi proprietari terrieri, dal canto loro, ricorrevano sempre più spesso all’arma disumana e terribile della disdetta, che gettava sulla strada ogni San Martino migliaia di famiglie, costrette a girare da una cascina all’altra in cerca di lavoro. Un’arma usata senza pietà soprattutto nei confronti di quanti, nel clima arroventato successivo all’uscita dei comunisti dal Governo ed alla rottura sindacale del luglio 1948, erano ritenuti i veri agitatori: la lega, le cooperative di consumo, le sezioni dei partiti di sinistra, i consiglieri comunali “rossi”.
Con il ritorno a casa dei soldati smobilitati, dei partigiani e di quanti, reduci dai campi di prigionia, avevano portato con sé, insieme al rancore, anche il conto delle sofferenze patite, la situazione nelle campagne si era fatta incandescente.
Con il primo sciopero di 12 giorni nel 1948, e una lotta durata almeno sei mesi, 7.500 delle 11.000 disdette erano state ritirate, ma non erano mutate le condizioni di vita dei circa 35.000 salariati e braccianti agricoli cremonesi. Per questo motivo, forte dei successi ottenuti, la Federbraccianti nazionale aveva proclamato lo sciopero nazionale per il 18 maggio. Lo sciopero si concluse solo il 23 giugno 1949, anche se le agitazioni si protrassero fino all’anno successivo, con un bilancio pesantissimo: tre morti, tredici feriti dalla Celere, 2686 tra arrestati, denunciati e condannati, fra cui 250 donne. Oltre ottocento anni di carcere inflitti ai circa duemila condannati, il 90% dei quali iscritti al Pci. Terminato lo sciopero vi furono alcuni proprietari terrieri che non vollero riprendere i lavoratori che si erano allontanati. Uno di questi era un agricoltorei di Ossalengo, frazione di Castelverde, protagonista di uno degli episodi più tristi.
“Questi- raccontava Giovanni Chiappani – sparò a bruciapelo, colpendolo a morte, contro l’attivista della Lega, compagno Natale Denti. Egli si era recato, assieme ad altri due o tre compagni, in cascina, per parlare con questo agricoltore, che voleva sostituire i propri dipendenti con i due o tre crumiri che si era tenuto in casa durante lo sciopero. Eravamo nel giorno successivo alla fine dello sciopero nazionale, il 24-25 giugno 1949; alcuni agricoltori (pochi in verità), per ritorsione, non volevano far riprendere il lavoro a chi aveva scioperato. Quello che aveva sparato era uno di questi. Venne arrestato e processato l’anno dopo, ma fu assolto perché si era procurato il certificato di alienato mentale. La giustizia allora era fatta così. Venne assolto e denunciati furono il Denti Natale e i suoi compagni, per violazione di domicilio (si erano recati in cascina). Inoltre furono denunciati quei lavoratori e quei sindacalisti che tennero un comizio di protesta non autorizzato nel cortile della cooperativa di Livrasco”.
La prima vittima era stata, l’8 settembre 1946, un salariato agricolo di Cella Dati, Olimpo Puerari. Mentre tornava insieme ad altri da una manifestazione tenuta a Gussola, seppe che a Scandolara Ravara un agricoltore, Mario Morandi, aveva schiaffeggiato un lavoratore. Insieme ad altri Puerari andò a chieder spiegazioni, ma l’agricoltore lo uccise sparandogli a bruciapelo. Nel corso del processo, che si celebrò il 30 dicembre 1949, il Morandi, resosi latitante, fu assolto per aver agito in stato di legittima difesa. In un’altra manifestazione nel maggio 1948 venne ucciso dalle forze di polizia, sulla strada che da Pandino porta a Dovera, Luigi Venturini di 21 anni. Nel marzo del ’49 le leghe contadine avevano esaminato le proposte per il nuovo patto colonico. L’atmosfera si era fatta particolarmente tesa per le dimostrazioni di piazza del 16 marzo contro l’adesione dell’Italia al Patto atlantico. Il 24 e il 13 aprile la Confederterra aveva invitato con insistenza l’Associazione agricoltori ad iniziare la trattativa per i contratti delle diverse categorie e per i lavori di miglioria aziendale. Gli agricoltori, all’inizio di maggio, risposero che avrebbero garantito solo il rispetto del patto colonico dell’anno precedente, a condizione che i sindacati, senza ricorrere allo sciopero, avessero garantito un incremento della produzione e una revisione dell’imponibile di manodopera. Ma il dado era tratto, e Fogliazza e Ricca della segreteria della Federterra, risposero che si sarebbero attenuti alle direttive nazionali. Cercarono, però, di aprire un dialogo con l’associazione dei Coltivatori diretti. “Non intendiamo porre la vostra associazione sullo stesso piano di quella dei grandi proprietari terrieri- scrivevano Fogliazza e Ricca ancora il 9 maggio- anche se voi non avete esitato ad allinearvi alle posizioni intransigenti di questi ultimi, contrastanti con gli interessi tanto dei nostri che dei vostri organizzati”.
In effetti tra coltivatori diretti e scioperanti non mancarono gesti di reciproca solidarietà: gruppi di salariati in sciopero si recavano a lavorare gratuitamente in centinaia di aziende coltivatrici dirette, ricevendone in cambio sottoscrizioni in denaro a favore della lega e a sostegno dello sciopero. Gli stessi bergamini, esclusi in un primo tempo dallo sciopero, misero a disposizione della lega somme di denaro a favore delle famiglie più bisognose. Fino a quando, di fronte all’arroccamento degli agrari, anche i bergamini non decisero di scendere in sciopero a giorni alterni, due o tre giorni a settimana. A livello nazionale lo sciopero fu sostenuto anche dalla Libera Cgil, che in provincia di Cremona, unico sindacato in Italia, il 25 maggio sottoscrisse un patto colonico separato con agricoltori, confermando sostanzialmente quello esistente. Questo complicò notevolmente le cose, esacerbando ulteriormente gli animi. Amos Zanibelli, d’altronde, era stato indotto a firmare dalla convinzione che lo sciopero sarebbe stato un fallimento, pur ammettendo che era chiara la volontà degli agrari di “farla finita con le organizzazioni sindacali, qualunque esse siano”.
L’annata agraria era nel momento cruciale: erano in corso i lavori di fienagione e di semina del granoturco, si preparava il terreno per il trapianto del riso. Gli agrari facevano di conseguenza sempre più un uso massiccio del “crumiraggio”, proveniente soprattutto dalla Bassa bresciana e bergamasca, al quale la lega opponeva forme di vigilanza facendo ricorso alla persuasione, più o meno occulta, e più spesso ancora azioni di massa, con vere e proprie spedizioni all’interno delle cascine, cinte d’assedio di giorno dalla polizia, ma relativamente libere di notte. Gruppi di cento, duecento persone, uomini e donne, percorrevano allora le strade diretti alle cascine dove si pensava lavorassero i crumiri. Vastissima la zona d’azione: S. Savino, S. Felice, Gadesco Pieve Delmona, Pieve San Giacomo, Stagno Lombardo, Torricella del Pizzo, Spino d’Adda, Pessina Cremonese, Cà d’Andrea, Persico Dosimo, nel piadenese, pandinasco, soresinese e casalasco. Non mancarono neppure atti isolati di teppismo: la deviazione dell’acqua nelle rogge di irrigazione, la collocazione di punte di ferro nei campi per impedire la mietitura, il taglio dei lacci ai covoni di grano già mietuto. ”Durante questo sciopero – ricordava Chiappani – vi furono 732 lavoratori arrestati e 1.500 denunciati. Una serie di pubbliche manifestazioni promosse dal sindacato furono sciolte a colpi di manganello e di cariche della celere. Perfino le manifestazioni autorizzate dalla Questura, come è avvenuto a Cà d’Andrea, furono sciolte con l’intervento della celere. La rabbia degli agrari e della celere rasentava la pazzia. Quante volte le stesse biciclette degli scioperanti, lasciate disordinatamente ammucchiate per partecipare alle manifestazioni (o per sfuggire alla celere, quando questa si imbatteva nei cortei che percorrevano le strade dei nostri comuni) sono state stritolate dalle camionette delle forze dell’ordine”.
Tra gli interventi della polizia rimase famoso quello di Stagno Lombardo. Ricorda ancora Chiappani: ”A Stagno Lombardo gli agrari avevano trasferito numerosi crumiri raccolti nel bergamasco e nel bresciano. L’azione dei lavoratori e delle lavoratrici per allontanare dalle cascine questi crumiri è stata massiccia senza comunque recare ad essi danni fisici. Si tenga presente che allora a Stagno Lombardo esistevano circa 1.500 lavoratori agricoli di cui 1.300 organizzati alla Federbraccianti. Alcuni agricoltori, quando la massa dei lavoratori si avvicinava alle cascine, sparavano colpi di fucile a scopo intimidatorio. Non riuscirono nell’intento: i crumiri dovettero andarsene. Intervenne la celere con decine di camionette: 70 lavoratori furono arrestati. Il giorno seguente venne organizzata una manifestazione di protesta, con comizio da tenersi nella piazza del paese, alle 16 invitando a parteciparvi anche i lavoratori dell’intera zona. L’organizzazione sindacale chiese regolare permesso alla Questura che fu negato altrettanto regolarmente, poco prima dell’orario del comizio. Il compagno Mario Bardelli, allora vice segretario della Camera Confederale del lavoro, si recò sul posto. Mentre stava comunicando ai numerosi lavoratori presenti, da una sedia posta davanti alla porta della cooperativa, che la manifestazione non era stata autorizzata, incitando gli astanti a proseguire compatti nella lotta, irruppe nella piazza un ingente apparato di polizia, picchiando brutalmente i lavoratori e sparando in lato colpi di moschetto e di mitra. Vennero effettuati altri 60 arresti fra cui il compagno Bardelli. La cooperativa fu invasa e rovistata. Il processo agli arrestati sarà celebrato dalla Corte d’Assise dopo 23 mesi di detenzione preventiva, e quasi tutti vennero assolti”.
Ecco alcune testimonianze di quei giorni, raccolte da Giuseppe Morandi dieci anni dopo i fatti e pubblicate sui quaderni della Biblioteca popolare di Piadena.
“In quel tempo facevo “el famèi de fagot” a Tornata. Avevo 15 anni. Tutti i bergamini che lavoravano dal mio padrone erano in sciopero ed io, che ero come uno della casa, dovetti andare nella stalla. Non ti so dire il lavoro che ho fatto! Di notte nella stalla, alla mattina nei campi, al pomeriggio nella stalla e se terminavi presto, via ancora nei campi; alla sera non avevi voglia di uscire perché avevi gli ossi a mucchio e andavi a letto, perché al mattino bisognava alzarsi prestissimo. Ah, quanti accidenti ho augurato al padrone e a quelli che scioperavano. Ma cosa volevi farci, bisognava tirare e tacere. Giorni feriali e domenica non c’era sosta, le vacche bisognava mungerle, l’erba bisognava tagliarla, e allora sotto sempre a lavorare. Crumiri ce n’erano tanti, venivano da ogni parte perché i padroni, purchè portassero avanti i lavori, concedevano quello che richiedevano, 2.000, 3.000 e anche più lire al giorno. Certa gente, golosa del soldo, piombava giù dalla bresciana e dal bergamasco e da ogni parte, e mungeva, così, in qualche modo, basta prendere i soldi. Non sono state poche le vacche rovinate in quel tempo. Nelle mammelle il latte diventava come ricotta perché non mungevano la vacca o la mungevano male, e così era rovinata perché si formava la mastite. Non sai quanto danno hanno avuto i padroni! Con la metà dei soldi che hanno speso per pagare i crumiri e con quelle vacche che hanno dovuto vendere perché ammalate di mastite, potevano accontentare i contadini che facevano sciopero”. (B.E.)
“Allora avevo sedici anni, ma lavoravo già nei campi. Per noi giovani, quando c’era sciopero era un piacere, appena perché erano giorni di festa. Ma quella sono stati 40 giorni di festa. A S. Antonio, dove lavoravo io allora, 40 su 105 contadini, soltanto 5 non scioperarono. Quante volte, in gruppo, andavamo per la campagna a dire ai contadini nostri compagni che lavoravano, di andarsene a casa! Ma in quei giorni c’era in giro tanta polizia e quando ci vedeva in gruppo ci seguiva e a volte ci capitava lì all’improvviso intanto che andavamo in qualche cascina a convincere qualcuno perché scioperasse. La Celere manganellava e qualcuno le ha prese. Poi diversa gente è stata messa in prigione, in particolar modo i capilega. Poi ci sono state delle liti fra gli scioperanti e i crumiri. Allora anch’io avrei picchiato i crumiri: avrei fatto male però perché ora capisco che avrebbero scioperato anche loro se non avessero avuto paura del padrone; non riuscivano a capire il male che facevano a quelli che erano in sciopero. Tanti erano ignoranti e per questo erano da compatire. Ma in quel tempo non ragionavo così, ero un caldo e basta. Comunque c’è stato lo stesso, credo, l’85 – 90% di scioperanti e siamo riusciti a ottenere quello che volevamo. Ricordo che S., il padrone di S.Antonio, poiché non aveva uomini, è andato a prenderne 40 al casermone di Cremona: gente che non ha mai fatto niente per tutta la vita, sfrattati ricoverati dal comune, e poveri disgraziati. In quei giorni pagavano bene: 1.500 e anche 2.000 lire al giorno; ma non li ha subito pagati tutti. I più furbi, che avevano fatto il contratto prima di andare a lavorare, li hanno presi, ma gli altri, per prenderli hanno dovuto presentarsi ogni settimana, e per un bel pezzo. Intanto i giorni passavano: chi andava all’osteria, chi nell’orto, non si sapeva cosa fare. Certi avevano vergogna a farsi vedere dal padrone e qualcuno di questi, dopo una decina di giorni ritornò al lavoro. Allora mio fratello e altri andarono a casa sua, quando c’era; e riuscirono a convincerne qualcuno. Se il padrone veniva a sapere chi era stato a convincere quei lavoratori che stavano di nuovo a casa, lo faceva arrestare dalla Celere. Questi fin che lo sciopero finì. Allora tutti si trovarono nelle osterie, crumiri e non crumiri, a parlare e discutere, contenti di aver vinto”. (F.G.)
"Quella mattina ci alzammo presto. Eravamo già d’accordo dalla sera precedente: quando fummo tutte pronte, partimmo. Andammo per la strada che da Pontirolo porta a Voltido e sul ponte ci fermammo per mandare a casa le crumire che arrivavano da Voltido, Recorfano e da Cascina Campagnola per andare a lavorare da Scaramuzza. Dopo un po’ arrivarono e noi cominciammo a gridare in mezzo alla strada per non farle passare.
-Noi andiamo dove vogliamo, avete capito? Smettetela di tormentare la gente che lavora!
- Voi a lavorare non dovete andarci!
Intanto che stavamo discutendo passò una donna ben vestita, alla quale non facemmo caso. Era la cognata di S., che andava ad avvertirlo, lui aveva già mandato la figlia di L. alla latteria a far telefonare ai carabinieri. Intanto noi continuammo a discutere per far loro capire che era un danno anche per loro fare le crumire.
-Voi rovinate i nostri uomini che da 20 giorni sono in sciopero per avere un aumento della paga. Se voi lavorate i padroni non cedono, se invece state a casa il padrone non può fare da solo i lavori e deve cedere: così i nostri uomini ottengono l’aumento e anche voi ne beneficiate, non vi pare?
- Andatevene, voi e le vostre storie, comunistone! Noi a lavorare ci andiamo e non abbiamo bisogno dei vostri consigli!
Intanto arrivò Scaramuzza.
-Anca chè slandri vegni a fa del puler?
-Sa vot te?
Nel frattempo, discutendo, le crumire si erano raggruppate in quello spazio che è davanti a tutti i cimiteri: noi eravamo davanti a loro per non farle passare e dietro avevamo Scaramuzza. A un certo punto, durante la discussione, udii due colpi di rivoltella sparati dietro a noi. Io non so se furono sparati in aria o in mezzo a noi, comunque nessuna fu colpita. Era stato Scaramuzza, e noi subito gli demmo delle parole.
-Balos, che te ghet sparat alla schena! Al che cuma fì a difendive vualter majoni. Bella legge l’è questa!
-E allora, volete andare via e lasciar stare queste donne?- gridava lui.
-No, non le lasciamo venire! Sei un disgraziato a sparare in mezzo a madri di famiglia che fermano le crumire perché lavorando rovinano i nostri uomini. Noi a casa abbiamo dei figli: questo che facciamo lo facciamo per loro!
A quel punto si sentì gridare:
-I carabinieri! I carabinieri!
E qualche donna , alé, riuscì a scappar via.
Appena arrivato, il brigadiere gridò - Ferme tutte, e al muro! E ci fa mettere contro il parapetto del ponte. Poi si fece raccontare il fatto Scaramuzza. Così aspettammo una buon’ora che la celere venisse a prenderci. Poi un carabiniere ci venne a dire che la Celere non poteva venire, e alé, via tutti in bicicletta. Tutti non l’avevano e rimediammo salendo in due su una bicicletta, coi carabinieri davanti e dietro. Arrivate a Piadena, vedendoci accompagnate dai carabinieri, la gente ci guardò in faccia come per domandarci:-Ma cosa avete fatto?- e andammo in caserma.
Intanto la gente si ammucchiava davanti alla caserma e vennero alcuni a protestare, venne il sindaco a vedere se era possibile farci uscire. Nel frattempo noi, sotto la sorveglianza di un carabiniere, giocavamo nel cortile a bocce. Fuori la gente si faceva più numerosa, noi lo capivamo dalle voci che si udivano fuori. Due ore dopo (eravamo state arrestate alle 8) ci lasciarono uscire. La folla riempiva la strada davanti alla caserma e la piazza: la gente ci venne incontro, ci abbracciò contenta. C’erano le nostre mamme, i vicini, i contadini e i bergamini in sciopero e tutti ci dissero: -Siete state brave! Siete state brave! Mentre eravamo dentro, Scaramuzza venne col camioncino per la dichiarazione in caserma, ma la gente lo fece scappare. Non so dove si nascose, mi pare dove c’è adesso Calcina, in quel cortile. So che dovettero andare là i carabinieri a prenderlo; lo scortarono fino in caserma perché aveva paura ad andarci. (C.G.)
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