Quando la magra del Grande Fiume restituisce frammenti di storia: un viaggio lungo le sponde del Po alla riscoperta di un mondo sepolto
La magra del Po, che a Cremona ha ampiamente oltrepassato i 7 metri e mezzo (per la precisione - 7,72) sotto lo zero idrometrico sta restituendo, ancora una volta, pagine e pagine di storia che possono essere osservate, conosciute e studiate percorrendo a piedi, in silenzio, e con massima prudenza i grandi spiaggioni.
Una vera e propria “miniera di storia” (ma non l’unica) è quella che si incontra in quell’area del medio Po compresa tra Polesine Zibello, Castelvetro Piacentino e Monticelli d’Ongina da un a parte; Pieve d’Olmi, Stagno Lombardo, Gerre dè Caprioli e Cremona dall’altra.
Il professor Vito Rastelli, docente di lettere e padre del Servo di Dio Giancarlo (il celebre cardiochirurgo che con le sue tecniche innovative ha contribuito a salvare la vita di tanti bambini e padre altresì, il professor Vito, della professoressa Rosangela, scomparsa da diversi anni, in passato docente di scuola media e giornalista raffinata, che sulle pagine della Gazzetta di Parma stessa firmava articoli di costume e società riguardanti, in particolare, il mondo giovanile) nei suoi scritti, avvalendosi dello studio di documenti d’epoca, ripercorre l’evoluzione del territorio di Polesine che riguardava ampiamente anche la riva cremonese e che fino a metà del 1700 occupava quello che oggi è l’alveo stesso del Grande fiume, territorio che si estendeva tra i “Ronchi Pallavicino”, di fronte a Santa Croce, in terra emiliana, fino a Le Brancere, in terra cremonese. Era un grosso borgo Polesine che contava fino a duemila abitanti.
All’epoca il fiume correva più nord rispetto ad oggi; se ne rinviene qua e là qualche traccia, segnata sulle mappe come “Po morto” e il suo vecchio fondale mappato come “Fossadone”, ora in buona parte interrato e coperto dalla vegetazione. Gravi e bizzarre furono, nei secoli passati le deviazioni del corso del Po anche a causa delle arginature, che quand’anche ci fossero state, erano modeste per altezza e poco affidabili per solidità, dando così modo alla corrente di spaziare e irrompere in ogni dove, trascinando con sé tutto ciò che incontrava lungo il suo corso, comprese giare, sabbie, ma anche interi paesi, come nel caso di Polesine il cui toponimo deriva dal latino “laesus a Pado”, ossia: leso, corroso dal Po. Il compianto professor Carlo Soliani di Zibello, nei suoi numerosi studi sul territorio (su tutti “Nelle Terre dei Pallavicino”) ne dà però, ad onor del vero, altre interpretazioni. Se è vero che dopo una piena o a una serie di piene, il fiume può mutare il suo corso, non può stupire che un sedime già appartenuto ad una giurisdizione amministrativa, venga strappato e vada a depositarsi sulla sponda opposta, senza peraltro che ne venga necessariamente mutata l’appartenenza giurisdizionale.
Può anche accadere che in occasione di un evento eccezionale la violenza della corrente irrompa in una bassura e spezzi una terra che prima costituiva un unico sedimento. Questo è verosimilmente accaduto a Polesine dove, ancora oggi, una porzione del suo territorio (su cui sorgono anche alcune abitazioni), su cui corre anche una strada comunale, si trova oltre il Po, in sponda cremonese, comprendente, guarda caso, l’area definita Porto Polesine. Per contro, a due passi ormai da Cremona, esiste, come noto, la località chiamata Bosco Ex Parmigiano.
Tornando alla magra di questi giorni d’estate. Ecco che sia lungo gli spiaggioni che sulle stesse massicciate del Po, sono ancora una volta riemersi importanti resti del passato. Accade ogni volta che il Po è in magra, giusto ribadirlo, e ogni volta non è solo la restituzione di pagine di storia ma, grazie ai mutamenti creati dal fiume stesso, non è raro che possano emergere resti che in passato non si erano ancora visti.
In particolare, proprio sulla sponda sinistra (quella cremonese) del Po si possono ben notare i resti dell’antico abitato di Polesine, borgo da secoli “divorato” dal Po. Un tempo, come ricorda anche Dario Soresina nella sua “Enciclopedia Diocesana Fidentina”, di Polesine ne esistevano di fatto due: Polesine de’ Manfredi, situata nei pressi di Stagno Parmense e Polesine di San Vito, situata invece nelle immediate vicinanze dell’attuale Polesine Parmense.
La prima (Polesine de’ Manfredi) con chiesa dedicata a San Martino sottoposta alla giurisdizione della pieve di San Genesio (San Secondo Parmense) e l’altra con chiesa dedicata ai santi Vito e Modesto, sottoposta alla pieve di Cucullo (Pieveottoville) in diocesi, allora, di Cremona. Polesine de’ Manfredi scomparve a causa delle erosioni create dal Po: il Della Torre, in un suo manoscritto del 1564 che elenca le chiese, i monasteri ed i benefici esistenti a quella data nella diocesi di Parma cita la sua chiesa quale “Ecclesia Polesini curata”, da molti anni occupata dai cremonesi aggiungendo la seguente postilla “Quae noncupabatur Polesini Manfredorum et erat in Parmensi, sed Ecclesia et tita villa fluit a flumine Padi consumpta et exportata: ideo de ea nulla est habenda ratio”.
L’ultimo atto che faccia esplicito riferimento al paese è del 12 luglio 1219 (L. Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae, vol. II, pag.137) e riguarda il pagamento di dazi al vescovo di Cremona, che esercitava nella zona anche potere temporale. Nell’opera dell’Astegiano tanti sono i riferimenti a Polesine di San Vito, a partire dal 1186, ma in nessuna delle pergamene comunali pubblicate è citata la sua chiesa, tradizionalmente ritenuta di antica fondazione. Bisogna arrivare alla bolla di Eugenio IV del 9 luglio 1436 che vederla figurare, per la prima volta, accanto alle chiese della diocesi cremonese, che erano sottoposte alla collegiata di Busseto, eretta su istanza di Orlando Pallavicino, feudatario del luogo, e da lui ampiamente beneficiata.
La storia informa che la prima chiesa parrocchiale di Polesine di San Vito venne demolita nel 1400 perché gravemente danneggiata dalle acque del Po. La successiva, costruita intorno al 1400 in sostituzione della precedente, fu a sua volta distrutta dalle acque del Po nel 1720. E’ tra l’altro certo che il Marchesato di Polesine e Santa Franca ebbe un castello, come informa anche Guglielmo Capacchi nel suo libro “Castelli Parmigiani”. Castello che era posto a difesa di quell’importante porto fluviale che si apriva immediatamente a nord ovest del “Palazzo delle Due Torri” (l’odierna Antica Corte Pallavicina). Fonti storiche alla mano, un duplice ordine di fortificazioni esisteva in Polesine poiché il trattato di pace e di alleanza tra il Duca di Milano Filippo Maria e il Marchese Orlando Pallavicino del 5 gennaio 1431 parla espressamente di “castrum et rocha Polesini” lasciando intendere che l’abitato intorno al porto era cinto di mura e difeso da una piazzaforte.
Polesine di San Vito, nel corso dei secoli, di fatto fu due volte spazzato via dalle acque del Po e poi ricostruito. L’attuale paese è, in pratica, il terzo ed è stato realizzato a maggiore distanza dal fiume e, quindi, in un luogo più sicuro. Il tutto grazie all’iniziativa del marchese Vito Modesto Pallavicino, ultimo signore di Polesine, sepolto sotto il presbiterio dell’attuale chiesa dei santi Vito e Modesto. Per entrare maggiormente nelle pieghe della storia va ricordato che agli inizi del XVI secolo il fiume spostò il suo letto più a sud, fino a lambire le fondamenta della rocca, che nel 1547 crollò e la stessa sorte toccò pochi anni dopo anche alla chiesa costruita da Giovan Manfredo nei pressi dello stesso maniero. Il crollo della rocca fu accompagnato da diverse testimonianze, una su tutte citata anche da Vito Rastelli e ripresa di recente dallo storico locale Gaetano Mistura è quella di Geminiano da S.Agata che scriveva: “Mi ricordo bene quando il Po tirò giù parte della rocca, di notte appena (io ed altri) avemmo il tempo di uscire prima che ci cascasse addosso. Venti anni dopo (il fiume) tolse il resto della rocca. Crollò la parte di mezzo, “alla infine (il Po) menò via il tutto con la piazza, chiesa et altre terre et case che erano lì et mangiò l’argine di qua dalla rocca sin tanto che si accostò ai campi et ne tirò giù parte et fece un gran danno”.
Successivamente il fiume riprese il suo corso e il borgo di Polesine rifiorì, con la costruzione di abitazioni e di due palazzi marchionali; la situazione precipitò ancora agli inizi del XVIII secolo, quando il Po deviò nuovamente verso sud e, straripando, distrusse nel 1720 la cinquecentesca chiesa di San Vito e, alcuni anni dopo, il palazzo delle Fosse, residenza di Vito Modesto Pallavicino. Quest’ultimo finanziò i lavori di costruzione di una nuova chiesa (l’attuale) in una posizione più distante dalla riva, fulcro dello sviluppo successivo del paese. Vito Modesto morì nel 1731, nominando erede universale il <ventre pregnante> della moglie, che tuttavia partorì una femmina, Dorotea e, quindi, il feudo fu assorbito dalla Camera ducale di Parma, che lo assegnò, unitamente a Borgo San Donnino, alla duchessa Enrichetta d’Este, vedova del duca di Parma e Piacenza Antonio Farnese.
Il legame tra Polesine ed il fiume è sempre stato molto profondo, lo si intuisce fin dal nome stesso del paese, che potrebbe derivare dal latino <Laesus a Pado> , vale a dire <distrutto dal Po>. Scritta, questa, che era stata inserita anche nello stemma dell’ex comune di Polesine Parmense (fuso da alcuni anni con quello di Zibello). Stemma su cui comparivano anche il dio Eridano, personificazione del fiume Po, il castello a rappresentare il Palazzo delle Due Torri considerato il simbolo del paese; l’aquila e lo scaccato simboli dei Pallavicino, signori del luogo fino al XVI secolo. E’ più che probabile quindi che le mura emerse anche in occasione della storica magra del 2022 possano appartenere a una delle due chiese, a al vecchio castello, sommersi dalle acque del Po. A questo proposito va ricordato che, negli anni Ottanta del Novecento, un palombaro venne inviato a far esplodere, in acqua, i resti degli antichi edifici che ostruivano il passaggio delle bettoline. Parte di questi resti si trovano tuttora dietro al vecchio municipio di Polesine Parmense; altri compongono invece la massicciata che delimita il corso del Po in territorio di Stagno Lombardo e sono ben visibili specie nei periodi di magra. Non è comunque escluso che almeno parte dei resti che stanno riemergendo possano appartenere anche all’antico centro di Vacomare che, a sua volta, sorgeva nei pressi dell’odierna Polesine Parmense o che possano anche appartenere alla vecchia chiesa di Brancere.
Per quanto riguarda invece Polesine de’ Manfredi, come già anticipato, questo sorgeva nelle vicinanze dell’attuale Stagno Parmense, del grande e leggendario bosco detto <del Vajro> (in larga parte spazzato via dalle piene del Po) e di altri due luoghi di cui non resta che la memoria storica: Tolarolo e Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo). Tolarolo sorgeva tra Roccabianca e Stagno e tuttora, a poche centinaia di metri dal centro di Roccabianca, esiste un’arteria comunale denominata “Tolarolo” e si trovano pochi, poveri resti di un antico cimitero.
A Tolarolo già nel 1058 sorgeva un castello che Arrigo IV, Re di Germania e d’Italia, concedette ai Borghi (o Da Borgo) di Cremona. Nuove notizie su questo luogo compaiono nel 1316 quando vi trovò rifugio un nerbo di truppe fedeli a Giberto da Correggio (e forse Giberto stesso), appena cacciato dalla Signorìa di Parma. Proprio da Tolarolo, Giberto attendeva aiuti cremonesi proprio per muovere alla riscossa, ma dopo pochi giorni perse anche quella signoria e, furioso, si diede a saccheggiare la campagna parmense, scatenando così la reazione dei cittadini che, alternandosi per “Porte” avvicendarono forze sempre fresche all’assedio di Tolarolo (18 ottobre – 22 novembre 1316. I correggeschi alla fine vennero a patti e, se il Podestà di Parma si era accontentato di presidiare il forte con truppe fedeli alla città, il capitano del Popolo, Guiscardo, della Società dei Crociati, cavalcò a Tolarolo spianandolo fino alle fondamenta e colmando i fossati.
Un ultimo documento, che parla del castello di Tolarolo ormai distrutto, è datato 1375. Oggi non resta alcun rudere di quell’edificio come non resta nulla della sua chiesa che era dedicata a San Michele e della vicina fortezza di Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo), località che per la prima volta compare nell’elenco di ville di cui Federico Barbarosssa infeuda, nel 1189, Oberto Pallavicino ed è opinione di Francesco Luigi Campari, nel suo libro “Un castello del Parmigiano attraverso i secoli” che il nome del luogo derivasse da “argine” (la forma dialettale è “àrzen"). A Rezinoldo, di fatto “inglobato” nell’odierna Roccabianca esisteva anche un chiesa dedicata a San Bartolomeo. L’attuale chiesa di Roccabianca, dedicata ai “Santi Bartolomeo e Michele” rappresenta, di fatto, una sintesi, e quindi un ricordo, dei due sacri edifici scomparsi. Altro castello scomparso è quello di Torricella di Sissa Trecasali, anticamente detta San Donnino del Castello di Torricella, per distinguerla da Torricella ultra Padum, vale a dire Torricella del Pizzo, posta sulla sponda casalasca del fiume. E’ probabile che il castello, citato ufficialmente per la prima volta nel 1284, esistesse quando le due “Torricella” erano di fatto una unica località. Il maniero venne distrutto, al termine di una cruenta battaglia fluviale nel 1427. Sempre in terra parmense non resta alcuna traccia di Isola dei Bozardi, località situata tra Gambina e Polesine di San Vito che, nel 1219, figurava come Insula de Committibus e successivamente denominata Ysoleta Domini Bozardi De Burgo nella quale si trovava anche una chiesa, dedicata a San Domenico.
Nei presi di Pieveottoville, anticamente, sorgevano invece le località di Caprariola (a sud del paese, nella zona che conduce a Samboseto), Tecledo e Brivisula. In particolare, come si può leggere anche nel Codice Diplomatico della Lombardia Medievale (sec. VIII-XII) Carlo II imperatore, su richiesta di Benedetto, vescovo di Cremona, assunse sotto la sua protezione tutti i beni e i diritti pertinenti alla Chiesa cremonese, confermando i diplomi di immunità e protezione, già emanati da Carlo Magno, Ludovico I, Lotario I e Ludovico II, e ribadisce le concessioni alla Chiesa cremonese, contenute nei citati diplomi di Carlo Magno, Lotario I e Ludovico II relative alle località di Tecledo, Brivisula e Cucullo, al porto sul Po e ai diritti di passaggio, molitura e attracco fino alla confluenza dell’Adda nel Po; conferma infine il diritto della Chiesa cremonese ad esigere le tasse di palifictura e ripaticum senza alcuna contestazione.
Anticamente, in epoca longobarda, tra le odierne Pieveottoville e Ragazzola, sorgeva inoltre la località di Carpaneta, di cui non resta tracia alcuna. Passando quindi al territorio cremonese, e in particolare all’area casalasca. i luoghi spazzati via, nel tempo, dall’azione del Po sono Barcello, Cella, Casale dè Ravanesi, Vulturnia, Scurdo e Gurgo. Di tutti restano solo documenti in cui vengono menzionati, in gran parte di carattere ecclesiastico. Per quanto riguarda Vulturnia, questa località, stando anche alle memorie di Don Faverzani (Gussola 1875-1889) sorgeva in località Valdoria ed era impreziosito dalla chiesa dedicata a San Lorenzo. Vulturnia era un centro portuale di notevole importanza, da tempo scomparso e “inghiottito” dal Po. Dai suoi abitanti sarebbe poi sorte, o comunque si sarebbero ingrandite, Gussola, la Ravèra, Bosco Mina, Bosco Piazza, Torricella del Pizzo e Motta Baluffi. Altro centro di particolare interesse era Cella che era sottoposto alla giurisdizione del vicariato di Casalmaggiore.
Dall’arciprete di Casalmaggiore riceveva l’olio santo e nominava il reggente della chiesa di Cella stessa. Una carta topografica di Antonio Campi datata 1583 vede Cella situata sulla sponda destra del Po e, pertanto, il suo distacco dalla riva casa lascia va collocato anteriormente a quella data. L’esistenza di Cella coincide dunque con il tempo in cui Casalmaggiore godeva di un più vasto diritto sui territori staccatisi dalla sua sponda. All’inizio del 1600 Cella esisteva ancora e aveva 140 abitanti, oltre ad una piccola chiesa dedicata a San Pietro, composta da una sola navata, con un tetto basso e piuttosto pericolante. La chiesa, tra l’altro, non consacrata, non aveva la sagrestia ed era priva di Sacramento a causa della povertà degli abitanti. Tra i suoi titolari, il benedettino padre Angelo Dè Tei. Le attività principali erano quelle legate all’agricoltura e ai mulini sul Po. Infine, nel terzo volume della <Storia di Casalmaggiore> dell’Abate Giovanni Romani, sono citate anche le località di Casale dèe’Bellotti che dipendeva dalla curia di Fossacaprara e Casale de’ Zani, che dipendeva dal territorio di Cogozzo. Senza dimenticare il fatto che centri quali Martignana di Po, Gussola e Vicobellignano, furono ricostruiti in posizioni più sicure (le attuali) perché i precedenti insediamenti furono in larga parte distrutti, in più occasioni, dalle piene del Po: su tutte la rovinosa alluvione del 1873. Ma le <Atlantidi> del fiume non finiscono qui.
Proprio a due passi da Cremona, importanti furono i mutamenti del corso del Po che interessarono, in modo particolare, la dirimpettaia zona del basso piacentino dal 1816-21 fino al 1978, come si può osservare anche dai rilievi che emergono dalla sovrapposizione del primo catasto ordinato da Napoleone Bonaparte (1816-21) con le mappe eseguite dall’Istituto Geografico Militare datate 1974. Tutto è ampiamente e minuziosamente descritto anche nell’ “Enciclopedia Diocesana Fidentina” di Dario Soresina: tre volumi, in tutto, che non possono mancare a coloro che intendono approfondire meglio la storia dei territori, dell’una e dell’altra riva, bagnati dal Po. Tra le località scomparse da citare anche Castelletto o Rottino (che scomparve praticamente del tutto a causa della progressiva erosione culminata nel 1868), Tinazzo, il vecchio abitato di Olza (Olzula Vetula), Mortesino e Marianne. Infine, uscendo “un attimo” dall’area cremonese, piacentina e parmense, ecco che il fiume ha restituito, in occasione della magra storica del 2022 e di altri importanti periodi di secca, resti di antichi villaggi anche nella zona compresa tra le province di Alessandria, Lodi e Pavia, un’area che nel Medioevo era densamente popolata. Dal Po, in quella zona, sono stati spazzati via Sparvara, Borgofranco Lomellino, Bric di San Martino, Cambiò Vecchia e Villanova di Cambiò. Inoltre, tra Corte Sant’Andrea e Boscone Cusani, sono riemerse le rovine delle prime abitazioni del Boscone che venne fondato verso fine 1600, ma anche quelle di Casa Nuova Gerra e delle Gabbiane su cui sono stati effettuati studi, verifiche e approfondimenti da parte di Umberto Battini, insigne studioso di storia locale ed esperto conoscitore del Grande fiume e del suo passato. Pagine di storia che, nel tempo della grande e storica magra, <riemergono>ù e confermano, se mai ce ne fosse bisogno, quanto il vecchio Eridano sia, da sempre, un protagonista assoluto del cammino delle nostre terre.
Eremita del Po
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commenti
Daniro
18 luglio 2025 19:10
Il Po ha sempre mutato il proprio corso o naturalmente o per opera dell'uomo. Sarebbe interessante fare una ricerca invece della solita tiritera su com'era e dov'era, che tanto non c'è più nulla se non sulle carte storiche, su come la società moderna ha modificato in sett'anni di rettifica e canalizzazione, di disboscamento, di soppressione di zone umide, di peggioramento della qualità delle acque, ovviamente in peggio, l'ambiente, il paesaggio e il territorio lungo le golena del Po. Se non altro per capire cosa si potrebbe fare per migliorare. Ma forse non interessa a nessuno.