Il Po verso una magra record. A fine giugno è già a meno 7 metri e 14 centimetri sullo zero idrometrico alle porte di Cremona. Numerose isole di sabbia. E potrebbero riemergere antichi resti
Dopo la piena ordinaria, ma significativa, che due mesi fa aveva fatto alzare “la guardia” nelle terre del Po, dell’una e dell’altra riva, ecco che sessanta giorni dopo, si arriva alla situazione opposta col livello del fiume che, complici anche i prelievi irrigui a scopo agricolo, sta precipitando. I grandi spiaggioni e le “isole di sabbia” che si stanno già formando lungo il Po sono la testimonianza chiara di una magra che si sta facendo sempre più evidente. Come evidenzia anche “Il Nibbio”, storico e attivissimo gruppo di protezione civile di Spinadesco, il Po già oggi è arrivato a 7 metri e 14 centimetri sotto lo zero idrometrico a monte di Cremona e, salvo fatti clamorosi e precipitazioni abbondanti (non previste) si arriverà presto a 8 metri sotto lo zero idrometrico, quindi a livelli molto simili a quelli della storica magra del 2022.
Già una settimana fa, all’ingresso del porto di Cremona, due spintori che dovevano portare un grosso trasformatore, via acqua, sull’Adriatico, erano rimasti bloccati a causa dei fondali troppo bassi e si era reso necessario l’intervento di una draga per liberare spazio. Oggi il fiume, nelle condizioni attuali, in certi punti a monte di Cremona non supera i 20 metri lineari e la profondità non va oltre i quattro metri nei punti con più acqua. Una situazione che, stante le previsioni (che annunciano sole e soltanto qualche raro sporadico temporale), temperature elevate e considerando che siamo ancora a giugno, potrebbe farsi ancora più significativa. Non è nemmeno escluso che a breve possano anche riaffiorare i resti degli antichi centri che un tempo sorgevano laddove oggi scorre il fiume. Tra questi Olzula Vetula, Tinazzo, Marianne e Castelletto (nel Piacentino ma alle porte di Cremona), Polesine San Vito e Polesine Manfredi tra il Parmense ed il Cremonese. Per quanto riguarda questi due ultimi centri, un tempo, come ricorda anche Dario Soresina nella sua Enciclopedia Diocesana Fidentina, di Polesine ne esistevano di fatto due: Polesine dè Manfredi, situata nei pressi di Stagno Parmense e Polesine di San Vito, situata invece nelle immediate vicinanze dell’attuale Polesine Parmense. La prima (Polesine dè Manfredi) con chiesa dedicata a San Martino sottoposta alla giurisdizione della pieve di San Genesio (San Secondo Parmense) e l’altra con chiesa dedicata ai santi Vito e Modesto, sottoposta alla pieve di Cucullo (Pieveottoville) in diocesi, allora, di Cremona.
Polesine dè Manfredi scomparve a causa delle erosioni create dal Po: il Della Torre, in un suo manoscritto del 1564 che elenca le chiese, i monasteri ed i benefici esistenti a quella data nella diocesi di Parma cita la sua chiesa quale “Ecclesia Polesini curata”, da molti anni occupata dai cremonesi aggiungendo la seguente postilla “Quae noncupabatur Polesini Manfredorum et erat in Parmensi, sed Ecclesia et tita villa fluit a flumine Padi consumpta et exportata: ideo de ea nulla est habenda ratio”. L’ultimo atto che faccia esplicito riferimento al paese è del 12 luglio 1219 (L. Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae, vo.II, pag.137) e riguarda il pagamento di dazi al vescovo di Cremona, che esercitava nella zona anche potere temporale.
Nell’opera dell’Astegiano tanti sono i riferimenti anche a Polesine di San Vito, a partire dal 1186, ma in nessuna delle pergamene comunali pubblicate è citata la sua chiesa, tradizionalmente ritenuta di antica fondazione. Bisogna arrivare alla bolla di Eugenio IV del 9 luglio 1436 che vederla figurare, per la prima volta, accanto alle chiese della diocesi cremonese, che erano sottoposte alla collegiata di Busseto, eretta su istanza di Orlando Pallavicino, feudatario del luogo, e da lui ampiamente beneficiata. La storia informa che la prima chiesa parrocchiale di Polesine di San Vito venne demolita nel 1400 perchè gravemente danneggiata dalle acque del Po. La successiva, costruita intorno al 1400 in sostituzione della precedente, fu a sua volta distrutta dalle acque del Po nel 1720. E’ tra l’altro certo che il Marchesato di Polesine e Santa Franca ebbe un castello, come informa anche Guglielmo Capacchi nel suo libro “Castelli Parmigiani”. Castello che era posto a difesa di quell’importante porto fluviale che si apriva immediatamente a nord ovest del “Palazzo delle Due Torri” (l’odierna Antica Corte Pallavicina). Fonti storiche alla mano, un duplice ordine di fortificazioni esisteva in Polesine poiché il trattato di pace e di alleanza tra il Duca di Milano Filippo Maria e il Marchese Orlando Pallavicino del 5 gennaio 1431 parla espressamente di “castrum et rocha Polesini” lasciando intendere che l’abitato intorno al porto era cinto di mura e difeso da una piazzaforte. E’ quindi molto probabile che le mura già più volte emerse durante le magre del fium possano appartenere a una delle due chiese, a al vecchio castello, sommersi dalle acque del Po. A questo proposito va ricordato che, negli anni Ottanta del Novecento, un palombaro venne inviato a far esplodere, in acqua, i resti degli antichi edifici che ostruivano il passaggio delle bettoline. Parte di questi resti si trovano tuttora dietro al vecchio municipio di Polesine Parmense; altri compongono invece la massicciata che delimita il corso del Po in territorio di Stagno Lombardo e sono ben visibili specie nei periodi di magra. Non è comunque escluso che i resti possano appartenere all’antico centro di Vacomare che, a sua volta, sorgeva nei pressi dell’odierna Polesine Parmense. Per quanto riguarda invece Polesine dè Manfredi, come già anticipato, questo sorgeva nelle vicinanze dell’attuale Stagno Parmense, del grande e leggendario bosco detto “del Vajro” (in larga parte spazzato via dalle piene del Po) e di altri due luoghi di cui non resta che la memoria storica: Tolarolo e Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo). Tolarolo sorgeva tra Roccabianca e Stagno e tuttora, a poche centinaia di metri dal centro di Roccabianca, esiste un’arteria comunale denominata “Tolarolo” e si trovano pochi, poveri resti di un antico cimitero. A Tolarolo già nel 1058 sorgeva un castello che Arrigo IV, Re di Germania e d’Italia, concedette ai Borghi (o Da Borgo) di Cremona. Nuove notizie su questo luogo compaiono nel 1316 quando vi trovò rifugio un nerbo di truppe fedeli a Giberto da Correggio (e forse Giberto stesso), appena cacciato dalla Signorìa di Parma. Proprio da Tolarolo, Giberto attendeva aiuti cremonesi proprio per muovere alla riscossa, ma dopo pochi giorni perse anche quella signoria e, furioso, si diede a saccheggiare la campagna parmense, scatenando così la reazione dei cittadini che, alternandosi per “Porte” avvicendarono forze sempre fresche all’assedio di Tolarolo (18 ottobre – 22 novembre 1316. I correggeschi alla fine vennero a patti e, se il Podestà di Parma si era accontentato di presidiare il forte con truppe fedeli alla città, il capitano del Popolo, Guiscardo, della Società dei Crociati, cavalcò a Tolarolo spianandolo fino alle fondamenta e colmando i fossati. Un ultimo documento, che parla del castello di Tolarolo ormai distrutto, è datato 1375. Oggi non resta alcun rudere di quell’edificio come non resta nulla della sua chiesa che era dedicata a San Michele e della vicina fortezza di Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo), località che per la prima volta compare nell’elenco di ville di cui Federico Barbarosssa infeuda, nel 1189, Oberto Pallavicino ed è opinione di Francesco Luigi Campari, nel suo libro “Un castello del Parmigiano attraverso i secoli” che il nome del luogo derivasse da “argine” (la forma dialettale è “àrzen). A Rezinoldo, di fatto “inglobato” nell’odierna Roccabianca esisteva anche un chiesa dedicata a San Bartolomeo. L’attuale chiesa di Roccabianca, dedicata ai “Santi Bartolomeo e Michele” rappresenta, di fatto, una sintesi, e quindi un ricordo, dei due sacri edifici scomparsi. Altro castello scomparso è quello di Torricella di Sissa Trecasali, anticamente detta San Donnino del Castello di Torricella, per distinguerla da Torricella ultra Padum, vale a dire Torricella del Pizzo, posta sulla sponda casalasca del fiume. E’ probabile che il castello, citato ufficialmente per la prima volta nel 1284, esistesse quando le due “Torricella” erano di fatto una unica località. Il maniero venne distrutto, al termine di una cruenta battaglia fluviale nel 1427. Non resta alcuna traccia neppure di Isola dei Bozardi, località situata tra Gambina e Polesine di San Vito che, nel 1219, figurava come Insula de Committibus e successivamente denominata Ysoleta Domini Bozardi De Burgo nella quale si trovava anche una chiesa, dedicata a San Domenico. Nei presi di Pieveottoville, anticamente, sorgevano invece le località di Caprariola (a sud del paese, nella zona che conduce a Samboseto), Tecledo e Brivisula. In particolare, come si può leggere anche nel Codice Diplomatico della Lombardia Medievale (sec. VIII-XII) Carlo II imperatore, su richiesta di Benedetto, vescovo di Cremona, assunse sotto la sua protezione tutti i beni e i diritti pertinenti alla Chiesa cremonese, confermando i diplomi di immunità e protezione, già emanati da Carlo Magno, Ludovico I, Lotario I e Ludovico II, e ribadisce le concessioni alla Chiesa cremonese, contenute nei citati diplomi di Carlo Magno, Lotario I e Ludovico II relative alle località di Tecledo, Brivisula e Cucullo, al porto sul Po e ai diritti di passaggio, molitura e attracco fino alla confluenza dell'Adda nel Po; conferma infine il diritto della Chiesa cremonese ad esigere le tasse di palifictura e ripaticum senza alcuna contestazione. Anticamente, in epoca longobarda, tra le odierne Pieveottoville e Ragazzola, sorgeva inoltre la località di Carpaneta, di cui non resta tracia alcuna. Passando quindi al territorio cremonese, non è escluso che possano riemergere i resti della vecchia chiesa di Brancere. Località, questa, che come si può leggere anche sul sito della parrocchia di Stagno Lombardo, grazie alle memorie lasciate da don Remo Caraffini, “rispolverate” e valorizzate dall’attuale parroco don Pierluigi Vei, nel 1756 l’antica chiesa del Real Ordine Costantiniano o Costantinopoliano della Steccata di Parma era costruita nei pressi di San Giuliano/Soarza e, a causa dell’inondazione del Po di quell’anno, venne abbandonata e finì per essere distrutta. Sempre nelle memorie di don Caraffini si rileva che nel 1801 un’altra grande alluvione allagò la chiesa rimanendovi per 22 giorni e cinque anni più tardi di nuovo il Po sommerse il “nuovo” cimitero benedetto nel 1791 rendendo inservibili chiesa e canonica. Il territorio di Brancere, come altri vicini dell’Emilia Romagna (in particolare quelli di Olza, Castelletto, Tinazzo e Marianne) subì, nel corso del tempo, i pesanti effetti delle erosioni operate dal Grande fiume. Nel 1813 una nuova chiesa fu costruita, con annessi cimitero e casa parrocchiale, oltre l’argine maestro, grazie alla donazione dell’avvocato Coppini, proprietario della Cascina Rondanina, su disegno dell’architetto cremonese Domenico Voghera (fratello del più famoso architetto Luigi) e venne consacrata il 2 maggio 1813, con asse della chiesa in direzione Nord-Sud e facciata rivolta a Sud. Nel 1867 la chiesa subì importanti lavori ma solo un anno più tardi, nel 1868, subì una nuova inondazione del Po con le acque che si ritirarono solo sei giorni dopo. In quello stesso anno venne definitivamente soppresso il Comune di Brancere, inglobato in quello di Stagno Lombardo. Passando all’area casalasca. i luoghi spazzati via, nel tempo, dall’azione del Po sono Barcello, Cella, Casale dè Ravanesi, Scurdo e Gurgo. Di tutti restano solo documenti in cui vengono menzionati, in gran parte di carattere ecclesiastico. Come nel caso di Cella che era sottoposto alla giurisdizione del vicariato di Casalmaggiore. Dall’arciprete di Casalmaggiore riceveva l’olio santo e nominava i. reggente della chiesa di Cella stessa. Una carta topografica di Antonio Campi datata 1583 vede Cella situata sulla sponda destra del Po e, pertanto, il suo distacco dalla riva casa lascia va collocato anteriormente a quella data. L'esistenza di Cella coincide dunque con il tempo in cui Casalmaggiore godeva di un più vasto diritto sui territori staccatisi dalla sua sponda. All’inizio del 1600 Cella esisteva ancora e aveva 140 abitanti, oltre ad una piccola chiesa dedicata a San Pietro, composta da una sola navata, con un tetto basso e piuttosto pericolante. La chiesa, tra l’altro, non consacrata, non aveva la sagrestia ed era priva di Sacramento a causa della povertà degli abitanti. Tra i suoi titolari, il benedettino padre Angelo Dè Tei. Le attività principali erano quelle legate all’agricoltura e ai mulini sul Po. Infine, nel terzo volume della “Storia di Casalmaggiore” dell’Abate Giovanni Romani, sono citate anche le località di Casale dè Bellotti che dipendeva dalla curia di Fossacaprara e Casale dè Zani, che dipendeva dal territorio di Cogozzo. Le potremmo definire le “Atlantidi” del Po. In ogni caso, al di là delle definizioni più o meno fantasiose, tracce preziose di un passato che va tramandato e conosciuto.
Tornando alla magra che si va sempre più evidenziando va aggiunto che l’ultimo Dossier del CNR aggiorna, con una messe di dati e analisi di scenario, la vulnerabilità del nostro paese nella morsa sempre più stringente di siccità e crisi idrica. La siccità è una delle conseguenze più eclatanti dei cambiamenti climatici in corso, come ammonisce da tempo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), Forum scientifico intergovernativo sul cambiamento climatico istituito presso le Nazioni Unite. Nell’agosto 2022 lo stesso “Osservatorio europeo sulla siccità” riportava che il 64% del continente era in allerta e il 17% in allarme. I dati suggerivano che il fenomeno registrato era il peggiore degli ultimi 500 anni e che la temperatura media in Europa nel 2022 era stata la più alta mai registrata per il mese di agosto e per il periodo giugno-agosto. Per provare a fornire i contorni scientifici più chiari di quella che è una vera emergenza in atto, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) ha pubblicato il volume “Siccità, scarsità e crisi idriche”, un lavoro imponente che si snoda lungo 564 pagine fitte di dati, analisi e scenari poco rassicuranti. Un lavoro scritto a più mani dal Dipartimento di scienze del sistema terra e tecnologie per l’ambiente del CNR, con il supporto di altre Istituzioni (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, Dipartimento della protezione civile, Struttura commissariale per l’adozione di interventi urgenti connessi al fenomeno della scarsità idrica), coinvolgendo quasi cento ricercatrici e ricercatori che hanno tentato di dare risposta a principali quesiti, fornendo elementi tecnico-scientifici a supporto di tutti i soggetti che, con diversi ruoli, contribuiscono alla governance dell’acqua.
Nell’Introduzione si legge che “la siccità del 2022, che ha colpito in particolar modo il Nord Italia e in misura minore il Centro Italia, e la crisi idrica che ne è conseguita hanno lasciato nell’immaginario collettivo un ricordo ancora vivo per l’eccezionalità del fenomeno rispetto ai dati storici e per la portata dei danni economici prodotti”. In particolare, nelle aree nord-occidentali del paese si sono registrati deficit di precipitazione già a partire dalla fine del 2021, che sono perdurati fino all’inizio del 2023. In Piemonte, una delle aree più colpite, nel corso del 2022 si è registrata, a scala regionale, un’anomalia negativa di precipitazione del 41%, rispetto al dato di riferimento del trentennio climatologico 1991-2020.
Ad ogni modo, l’Italia, come Spagna, Grecia e Portogallo, è tra i paesi in Europa più esposti al rischio di siccità in termini di popolazione esposta a stress idrico, principalmente a causa delle caratteristiche del clima e all’elevatissimo livello di consumi idrici legati alle pratiche irrigue e agli usi civili in genere. “Gli eventi di siccità verificatisi in Italia negli ultimi decenni, con una frequenza caratteristica di alcuni anni, hanno evidenziato numerose criticità in tutta la filiera nella gestione delle risorse idriche in condizioni di emergenza, con gravi danni, oltre che all’economia, alla qualità ambientale dei corpi idrici superficiali e sotterranei, i quali vengono spesso sfruttati anche in deroga ai requisiti di qualità e quantità previsti dalla norma”. Il territorio italiano, e quindi in particolare la Pianura Padana, per le sue caratteristiche climatiche, rientra tra le aree del globo maggiormente esposte al rischio di siccità, un vero e proprio hot spot climatico. Le analisi condotte dall’ISPRA nel contesto delle valutazioni del bilancio idrologico mostrano che, dagli anni ‘80 del secolo scorso, l’Italia è stata interessata, con crescente frequenza, da episodi di siccità estrema, con un trend crescente, statisticamente significativo, delle percentuali del territorio italiano soggetto a tale condizione su scala annuale. La necessità di rispondere al protrarsi della situazione di scarsità idrica, unitamente all’urgenza di assicurare il coordinamento delle attività finalizzate alla mitigazione dei danni connessi al fenomeno, ha portato nel mese di aprile del 2023 all’adozione del cosiddetto Decreto Legge Siccità, che ha previsto la nomina di un Commissario Straordinario nazionale per l’adozione di interventi urgenti connessi al fenomeno della scarsità idrica. Nel contributo al volume a cura di Gerardo Sansone della Strutta Commissariale, non manca, infatti, una critica alla governance nazionale, la cui legislazione si caratterizza da troppa complessità e mancanza di chiarezza, a causa di una mole di leggi, regolamenti e direttive, che frenano l’efficienza nella gestione della risorsa idrica, sia a monte che a valle del suo utilizzo. Si contano, ancora oggi, più di 1.200 enti gestori, di cui ben 800 esercitano il servizio idrico senza le necessarie autorizzazioni; si tratta, soprattutto, di Comuni che forniscono direttamente il servizio in assenza dei requisiti di legge. Il contributo di Stefano Mariani di Ispra enfatizza, invece, come il perdurare della siccità nel corso del 2022 abbia prodotto diversi impatti sulle matrici ambientali e sui comparti economici, insieme a condizioni di stress nella crescita delle colture. Nei corsi d’acqua soggetti al marcato minor afflusso meteorico, “dovuto a quantitativi di pioggia e neve molto al di sotto delle medie di riferimento, sono state osservate portate inferiori ai valori tipici del periodo e in alcune sezioni, come quelle del fiume Po, sono state registrate portate inferiori ai valori caratteristici di magra. Nelle zone del delta del fiume Po, ciò ha comportato problematiche relative all’uso della risorsa idrica per fini agricoli e idropotabili a causa della risalita del cuneo salino”. A incidere in modo particolare sulla scarsità dell’acqua, il settore agricolo, che rimane quello che preleva più acqua, più del 50% del totale (Istat, 2019). Allargando la prospettiva, studi a scala europea esibiti nello studio mostrano negli ultimi anni un aumento degli eventi di siccità e un loro peggioramento in termini di gravità e durata, anche per il Nord Europa e non solo per il Mediterraneo. “Valutazioni economiche sul periodo 1981-2010 stimano le perdite annue dovute alla siccità in circa 9 miliardi di euro per l’UE e il Regno Unito”, escludendo però nel conteggio le conseguenze della siccità sugli ecosistemi e sui servizi ecosistemici, che sono, in genere, difficili da monetizzare.
“Queste perdite riguardano in particolar modo la Spagna (1.5 miliardi di €/anno), l’Italia (1.4 miliardi di €/anno) e la Francia (1.2 miliardi di €/anno). Nell’ipotesi di un riscaldamento globale di 3 °C nel 2100 (senza un approccio di mitigazione volto alla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra), le perdite economiche dovute alla siccità potrebbero essere anche cinque volte superiori e riguarderebbe maggiormente le regioni del Mediterraneo e quelle atlantiche dell’Europa”. Dato l’impatto crescente di tali eventi siccitosi a una scala pan-europea, la Commissione europea ha intrapreso una forte azione conoscitiva e di policy attraverso l’istituzione di uno specifico gruppo di lavoro, il “Task Group on Water Scarcity and Droughts” all’interno della programmazione 2022-2024 della Common Implementation Strategy per l’attuazione delle direttive in tema di tutela della risorsa idrica. Obiettivo della Commissione è arrivare a una migliore comprensione degli impatti e dei rischi di siccità e scarsità idrica in Europa e a una maggiore consapevolezza riguardo l’aumento del rischio di siccità dovuto al cambiamento climatico. Indicando quale strada intraprendere per garantire maggiore efficienza nella gestione dell’acqua, il Commissario Straordinario Nicola Dall’Acqua, nella sua premessa al volume sottolinea che “Per vincere la sfida della scarsità idrica è poi fondamentale procedere alla predisposizione di bilanci idrici aggiornati per distretto e sub-distretto attraverso un coordinamento interistituzionale che possa garantire, tra le altre, una più efficace e concreta interoperabilità delle numerose banche dati esistenti”. Serve un lavoro di squadra, insomma, e un approccio differenziato e coordinato ai vari livelli territoriali, nel tentativo di affrontare al meglio situazioni sempre più complesse, in contesti diversi e sempre più imprevedibili a causa, soprattutto, dell’emergenza climatica in atto.
Eremita del Po
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commenti
Alessandro
28 giugno 2025 16:36
E non abbiamo tenuto neppure mezzo litro d'acqua della abbondanti piogge primaverili. Abbiamo interrato tutti i Bodri per coltivare anche l'ultimo cm di terra disponibile. Questo è il risultato. Parole al vento come sempre. Costruiamo invasi, ripristiniamo i Bodri, sbarriamo si qui, sbarriamo di la...NON È STATO FATTO NULLA DI TUTTO CIÒ. Ma è sempre colpa del cambiamento climatico ahimè
Marco
28 giugno 2025 18:15
Nei primi anni 2000 viene più volte riproposta l'ipotesi di bacinizzare il percorso del fiume po.
AiPo, Agenzia Interregionale per il fiume Po, sulla base di un apposito finanziamento di 2 mln di euro, ha sviluppato a partire dal 2012 un Progetto preliminare per il potenziamento della navigabilità del fiume Po dal porto di Cremona al mare Adriatico“ con un sistema di 5 sbarramenti a utilizzo idroelettrico ed irriguo .
Si doveva anche confrontare in termini di costi – benefici la bacinizazione con il completamento della sistemazione a corrente libera.
Purtroppo è stata valutata non possibile prima di valutarne la compatibilità con la pianificazione di bacino e gli Assessori delle Regioni Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto, preso atto degli esiti del progetto e considerando più conveniente in termini economici e di benefici ambientali, ha deciso all’unanimità che la scelta da portare avanti fosse quella della sistemazione a corrente libera.
Quindi di è fatta la scelta di rinaturare il fiume Po ripristinando i pennelli per il recupero morfologico ed ambientale del percorso del fiume anche per creare dei laminatoi per gestire le piene.
Ma l'acqua non verrà trattenuta, verrà poi rilasciata e saremo punto e capo in caso di siccità che si prevede saranno più frequenti a causa del previsto innalzamento di tre gradi delle temperature.
Sono scelte dell'Unione Europea alle quali ci si è prontamente adeguati.
Chi ha ragione e chi torto?
Lo scopriremo a nostre spese come sempre.