In piazza Lodi una incredibile scoperta: sulla facciata di palazzo Cicognini-Fieschi simboli massonici e una frase latina tratta dall'orazione contro Verre di Cicerone
“Domus erat non domino magis ornamento quam civitati”. La casa dava lustro non tanto al suo padrone quanto alla città. La frase, tratta dall’orazione contro Verre di Cicerone, è comparsa sulla facciata del palazzo Cicognini Fieschi sul lato breve di piazza Lodi, tra via Radaelli e via Carlo Speranza, durante i lavori di restauro. In verità le prime due parole, scolpite sul lato verso via Radaelli, sono state coperte da cemento durante precedenti lavori. Il resto della frase, invece, campeggia sulla fronte in parte nascosto dai due balconi, inseriti arbitrariamente all’inizio del secolo scoro. La citazione ciceroniana è ribadita dalle due lettere M e T, Marco Tullio, e dalla nota posta sull’angolo verso via Carlo Speranza “ 6 Ver”, che ne indica la fonte, cioè il sesto paragrafo della seconda orazione. Verre aveva sottratto le statue del sacrario di Elio a Messina. Cicerone così lo descrive: “Per parlare di quel sacrario c'era questa statua in marmo di Cupido, di cui dico; sull'altro lato c'era un Ercole di ottima fattura, in bronzo. Esso era detto essere di Mirone, come credo, anzi, (è) certo. Di poi, davanti a queste divinità c'erano dei piccoli altari, che potrebbero testimoniare a chiunque la santità del sacrario. C'erano, inoltre, due statue in bronzo, non molto grandi, tuttavia di raffinata bellezza, raffiguranti delle fanciulle in abito verginale, che, con le mani sollevate, portavano in testa certi oggetti sacri, secondo l'usanza delle fanciulle ateniesi. Le stesse venivano dette "canefore" Ma chi, chi mai, (u il loro artefice? suggerisci giusto! a quanto dicevano, era Policleto. Quando chiunque dei nostri giungeva a Messina, era solito contemplare queste; esse, ogni giorno, si mostravano per essere viste a tutti; la casa era di lustro non più al proprietario che alla città, Tutte queste statue, che ho menzionato, o giudici, Verre le rubò ad Elio, dal sacrario”.
Quando Gaio Licinio Verre era governatore della Sicilia, tra 73 e 71 a.C., si era enormemente arricchito, rubando tutto quello che c'era da rubare; in più, aveva corrotto o intimidito chi cercava di opporsi ai suoi metodi. L'avvocato dell'accusa era Marco Tullio Cicerone: le orazioni da lui scritte erano state così efficaci che Verre aveva preferito lasciare Roma prima della fine del processo, perché aveva capito che sarebbe stato sicuramente condannato.
Questa curiosa scritta, che denota la cultura classica del committente, era già stata cancellata prima del 1868, anno a cui risale la fotografia scattata da Aurelio Betri, in cui compare sulla facciata un solo balcone centrale. Il palazzo è poi ricco di simboli massonici: le due sfere armillari e l’obelisco sormontato dal disco solare sulla sommità della facciata, posto al centro di quattro statute di impronta classica che potrebbero essere identificate con Cerere, dea dell’agricoltura, Marte dio della guerra, Giove e, appunto, una canefora, cioè una portatrice di vasi. L’edificio che risale all’inizio dell’Ottocento, è stato ingiustamente trascurato dagli studiosi locali. L’attuale restauro potrebbe invece sollecitare un maggiore interesse sia verso l’abitazione che per il suo committente, sicuramente una personalità di una certa importanza e levatura sociale.
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