21 aprile 2024

L'Orchestra da Camera di Mantova ha chiuso la stagione concertistica del Ponchielli. Entusiasmo del pubblico (con tre bis) per la semplicità esecutiva e il virtuosismo del violinista Kristóf Baráti

E’ stato affidato all’Orchestra da Camera di Mantova, ensemble a cui il pubblico cremonese è particolarmente affezionato, il concerto conclusivo della stagione musicale del Teatro Ponchielli; con l’orchestra il violinista ungherese Kristóf Baráti, che ha suonato lo Stradivari “Lady Harmsworth” del 1703.

Il programma ha schierato alcuni tra i compositori più rappresentativi del Settecento strumentale, in una giustapposizione di stilemi del periodo classico italiano e quello viennese solo geograficamente distanti. Un “matrimonio segreto”, quello tra Cimarosa e Mozart - come affermò il celebre critico musicale e musicologo austriaco Eduard Hanslick – che ha posto le fondamenta dell’evoluzione della musica sinfonica e operistica europea. La sinfonia da “L’Olimpiade”, dramma serio andato in scena per la prima volta al Teatro Eretenio di Vicenza nel 1784, ha proiettato immediatamente il pubblico nella temperie culturale che ha costituito la cifra stilistica della serata: lo spessore del compositore aversano è tutta racchiusa nella purezza della scrittura; frizzanti sincopati e ribattuti nervosi che sostengono linee melodiche dall’equilibrio perfetto in un continuo scambio tra archi e fiati che racchiude il superamento della seicentesca alternanza tra concertino e concerto grosso. Tutto è finalizzato a preparare l’azione scenica creando quello che adesso si definirebbe “hype”, che nel frangente della serata non si è sciolto nel successivo svolgersi dell’azione scenica bensì nella prosecuzione del programma, il concerto RV 158 di Antonio Vivaldi. L’orchestra si è destreggiata tra le pagine vivaldiane con compassata disinvoltura e grande compattezza sonora ma non accogliendo del tutto le proposte interpretative lanciate dal brioso e trascinante violino concertatore Carlo Fabiano.

L’esecuzione è stata molto più convincente e partecipata nella sinfonia di Luigi Boccherini “La casa del diavolo”: articolazioni sgranate in ogni dettaglio, estrema cura nelle dinamiche ed equilibrio con la sezione dei fiati; il movimento finale, che dà il titolo alla sinfonia e reca nel manoscritto la dicitura "Chaconne qui reprèsente l'Enfer et qui a été faite à l'imitation de celle de M. Gluck dans le Festin de pierre", è basato sul finale del balletto “Don Juan” del compositore tedesco Christoph Willibald Gluck. In questo movimento si ravvisa l’antecedente vivaldiano del Presto de L’Estate, ma allo stesso tempo l’orecchio allenato coglie gli echi beethoveniani del temporale nel quarto movimento della “Pastorale”. 

Nell’ultimo tempo di questa bellissima sinfonia preromantica la forma ciclica è analoga a quella dell’ultimo tempo del concerto di Mozart K 219: la forma sonata, ancora giovane e appena codificata nello stile nascente del classicismo musicale, sta già stretta al genio dei compositori che la utilizzano; va scardinata, messa alla prova: infine negata.

La guida sicura e infaticabile di Fabiano coglie e mette in evidenza la modernità insita nel Boccherini precursore del romanticismo e allo stesso tempo saldamente ancorato alla scuola compositiva di cui è figlio; l’ensemble mantovano si muove con destrezza e agilità nelle pieghe della partitura e regala chiaroscuri timbrici e scatti agogici di notevole fattura.

Per l’ascoltatore è affascinante assistere ai modi in cui i mille rivoli della creatività musicale creano nuove suggestioni: tutto si tiene. La storiografia musicale ci suggerisce che probabilmente Boccherini avesse ascoltato i temi dell’ultimo movimento in occasione dei suoi soggiorni viennesi. Vienna, crocevia di giganti della storia della musica: Gluck, Haydn, Mozart, Cimarosa… nel grande gioco dell’invenzione musicale niente si perde e tutto entra nell’amalgama creativo che getta le basi per il grande sinfonismo ottocentesco.

In questo gioco delle parti (musicali), Vivaldi, il grande padre del Settecento, osserva dall’alto con sovrana bonarietà.

Nel secondo tempo del concerto il palcoscenico è tutto per il violinista Kristóf Baráti, alle prese con il concerto di Mozart K 219, caposaldo notissimo della letteratura violinistica di epoca classica: già nei suoni filati dell’Adagio introduttivo il concertista ungherese mette in evidenza il retaggio della civiltà musicale magiara che gli ha dato i natali: prodigiosa freschezza e nitore interpretativi, tecnica stupefacente unita a sonorità corpose e luminose. La sua arcata perfetta evoca la scuola violinistica di cui è diretto discendente, come discepolo di Eduard Wulfson, a sua volta studente di Yehudi Menuhin, Nathan Milstein e Henryk Szeryng. Nomi che hanno fatto la storia dell’interpretazione violinistica e che si pongono come ceppo possente da cui si diramano gli eredi legittimi della tradizione più eccelsa. Nell’Adagio le sonorità dello Stradivari hanno incatenato l’attenzione del pubblico, che ha potuto apprezzare la straordinaria gamma timbrica, intensa e corposa, quasi da Guarneri, quando la cavata di Baráti lo richiedeva, e subito dopo di cristallina trasparenza nelle melodie spianate delle linee melodiche mozartiane. Il rondò in Tempo di Minuetto trascina con le stravaganze delle turcherie che l’orchestra non manca di sottolineare battendo i tacchi sull’assito del palcoscenico.

La seconda “Vivaldi- Renaissance”, a cui si può dire stiamo assistendo in questo nuovo secolo, dopo quella storica che segnò a Siena agli inizi del Novecento la riscoperta mondiale del genio veneziano, rappresenta la cornice ideale che dà senso al programma ascoltato in questa magnifica serata, che non ha brillato forse per originalità come scelta dei brani ma descrive uno spaccato importantissimo della storia della musica strumentale italiana con le sue derivazioni europee.

I bis richiesti dal pubblico entusiasta e plaudente hanno finalmente dato la possibilità di apprezzare l’eccellente violinista ungherese alle prese con il virtuosismo del repertorio ottocentesco. Nell’Introduzione e Rondò capriccioso di Camille Saint-Saëns la facilità e l’agilità della mano sinistra hanno fatto faville, e i prolungati applausi hanno donato al pubblico cremonese altri due generosi fuoriprogramma: il Largo dalla Terza Sonata e la Giga dalla Terza Partita per violino solo di Johann Sebastian Bach. Camei eseguiti con impareggiabile bellezza ed eleganza di suono, tra nostalgia e gioco infantile, che hanno salutato il pubblico festante con un librarsi lieve dell’arco, in un omaggio alla sublime semplicità che solo i grandi posseggono.

Fotoservizio di Gianpaolo Guarneri (FotoStudio B12)

Angela Alessi


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