4 novembre 2023

La guerra del fante cremonese Giuseppe Gabbani: nelle sue lettere le trincee, la ritirata di Caporetto, la fine del conflitto. E il ritorno a Cremona

Il 4 novembre 1918 finiva la grande guerra. Tanti cremonesi sono partiti per il fronte senza fare più ritorno. Maurizio Cariani spulciando le lettere di Giuseppe Gabbani (padre del professor Piervincenzo), racconta la guerra di questo cremonese che ce l'ha fatta a tornare. 

La Grande Guerra di Giuseppe Gabbani ha una precisa data di inizio, il 24 luglio 1916; è la data dell’arruolamento con matricola 7214. Figlio di Vincenzo (classe 1870, carbonaio), è il primo di due fratelli maschi e in quel fatidico luglio ha da poco compiuto i 19 anni, essendo nato a Cremona da Giulia Magnanini (classe 1871, casalinga), il 17 maggio 1897. Poiché da adolescente, lavorando da apprendista, acquisisce una valida esperienza come fornaio, viene inviato alla 6a Compagnia Sussistenza Panettieri a Bologna, dove vi rimane per qualche mese, fino al settembre 1916.

E il 10 ottobre si trova in zona di guerra, col 1° Reggimento Fanteria della III Armata, a Polcenigo di Sacile (UD), sul fiume Livenza, vicino a Vittorio Veneto. I familiari hanno conservato una parte della fitta corrispondenza che da questo momento si avvia tra Giuseppe, i genitori, i parenti e gli amici. Possiamo partire da uno scritto abbastanza rappresentativo. Proprio da Sacile, con una cartolina postale scritta con matita copiativa dal classico color viola, lamenta di non avere ricevuto notizie dai genitori: «Vi faccio sapere che quest’oggi [si tratta del 16 marzo 1917] ho ricevuto il vaglia di lire 30, spedito il 13 corrente senza vostre notizie, ma con scritto solamente “Saluti, famiglia Gabbani”. Non capisco perché non mi date risposta a quello che vi ho scritto, se il babbo sia peggiorato. (…) Resto in pensiero che vi sia capitata qualche disgrazia ed il babbo stia molto male. (…) Ditemi la verità se è proprio ammalato gravemente, non lasciatemi in pensiero, mandatemi una lettera raccomandata così arriverà subito. Io di salute sto bene». Nella corrispondenza tra Giuseppe e i familiari, ricorre infatti spesso questa apprensione, e correlativamente la rassicurazione, per le reciproche condizioni di salute come pure per aspetti molto concreti come i  soldi o il vestiario; il 20 maggio 1917, ad esempio, Giuseppe, che si trova a Portogruaro (VE) sempre col 1° Fanteria, si premura di avvisare con un telegramma: «Tralasciate di spedire roba. Segue lettera».  La vita di famiglia sembra per certi versi poter continuare, sia pur ridotta all’osso e nonostante la separazione, le difficoltà di comunicazione e il fatto determinante che, spiega Giuseppe ai genitori, «non concedono licenze essendo Battaglione Marciante, e non posso venire».

Quindi le relazioni sono mantenute esclusivamente attraverso la corrispondenza scritta ed è interessante vedere la frequenza con la quale Giuseppe e la sua famiglia si scrivono e con quali tempi il servizio postale li mantiene in contatto. A titolo di esempio, la lettera (“Cartolina postale italiana in franchigia. Corrispondenza del R. Esercito”, è la dicitura stampata) scritta da Giuseppe il 4 ottobre 1917, giunge a Cremona il 6 (1 solo giorno di viaggio); in essa Giuseppe dichiara di aver ricevuto il 3 ottobre la cartolina dei genitori scrittagli il 30 settembre (2 giorni); in quest’ultima essi lo rassicurano per aver ricevuto lo scritto del figlio in data 23 settembre; ma sempre nello scritto del 4 ottobre Giuseppe avvisa che «in viaggio vi sono ancora due lettere spedite il 27 e 30 scorso», dunque in viaggio ormai da oltre una settimana: «come tardano ad arrivarvi», lamenta. Anche da altre lettere si capisce che da “via Guido Grandi n. 13, Cremona” e dalla “Zona di Guerra” approssimativamente partiva uno scritto alla settimana e che la Posta Militare aveva tempi di consegna piuttosto fluttuanti, a volte sorprendentemente rapidi, altre irrimediabilmente logoranti.

In questa rete di relazioni sono coinvolti ogni tanto anche i parenti, soprattutto gli zii Adele e Giuseppe, cappellaio, che non mancano di far sentire il loro affettuoso appoggio e i loro semplici consigli al giovane fante: «Ti vogliamo molto bene per i servizi di registrazione che ti presti a fare nella tua compagnia, questo va bene. Fai sempre l’ubbidiente che i tuoi superiori ti useranno anche loro qualche riguardo». Della loro salute Giuseppe si preoccupa in più occasioni e con spontaneità tutta giovanile ricambia anche qualche raccomandazione: «Mi rincresce molto sentire che la zia Adele è ancora indisposta, non potendo ancora digerire, ma speriamo che guarisca presto. Sento anche che lo zio Luigi stenta ad abituarsi [a un nuovo lavoro], ma spero che si abituerà. Dite pure di stare attento di non perdere il posto, che adesso è prezioso». Lo zio Celeste ha invece trovato un modo tutto suo per occuparsi del nipote in guerra: «Sono contento di sentire che ti trovi bene, sta sempre fiducioso nel Signore che ti salverà dai pericoli. Oggi stesso ti mando il giornaletto, ma avrei piacere sapere se lo ricevi settimanalmente, che te l’ho sempre spedito». Ma in questa “famiglia postale” rientrano anche gli amici stretti, come Alessandrina Peri, amica carissima di mamma Giulia che si firma sempre “zia”: «Caro Pino, ho tardato a risponderti perché aspettavo il tuo onomastico per farti gli auguri. Ti auguro una buona salute sempre e che presto venga a casa per non partir più». 

Sempre a motivo della sua competenza di panettiere, Giuseppe viene inviato di rincalzo a rifornire il 144° Reggimento impegnato nella zona di Bainsizza, l’attuale Bate in Slovenia, teatro dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, la penultima. Luigi Cadorna, il capo di stato maggiore italiano, aveva concentrato tre quarti delle sue truppe presso il fiume Isonzo: 600 battaglioni (52 divisioni) con 5.200 pezzi d'artiglieria. L'attacco, che gli storici indicano come la più massiccia offensiva di tutto il conflitto, venne sferrato su un fronte che si estendeva da Tolmino (nella valle superiore dell'Isonzo) fino al mare Adriatico.

Gli italiani attraversarono il fiume in più punti su ponti di fortuna, ma lo sforzo maggiore venne fatto proprio sull'altopiano della Bainsizza, la cui conquista aveva lo scopo di far proseguire l'avanzata e di rompere le linee austro-ungariche in due, isolando le roccaforti del Monte San Gabriele ed Hermada. Durante questa offensiva vennero utilizzati per la prima volta i Reparti d'Assalto o Arditi. Dopo un combattimento aspro e sanguinoso (a cui prese parte anche il tenente Sandro Pertini), la II Armata italiana, comandata dal generale Capello, fece indietreggiare gli austro-ungarici, conquistando la Bainsizza e il Monte Santo. Altre postazioni furono occupate dalla III Armata comandata dal Duca d'Aosta.

Tutto ciò avverrà tra il 17 e il 31 agosto sempre del ’17, con 250 mila perdite tra morti, feriti, ammalati, dispersi e prigionieri, ma Giuseppe fortunatamente non vi prenderà parte, sebbene un’esperienza di battaglia, a quell’epoca, già l’avrà avuta. La sua mansione di fornaio, che tutto sommato fino ad ora lo aveva protetto, non lo manterrà più decentrato dalle posizioni più pericolose. Con una lettera del 14 luglio Giuseppe annuncia ai genitori che «d’ora in avanti dovete spedirmi lettere e cartoline a questo indirizzo: 164° Reggimento Fanteria, 2 Compagnia, Zona di Guerra. Il Corpo d’Armata e la Divisione non mettetela più. (…) Fatevi coraggio sperando sempre in bene, pregando Iddio di tenermi lontano dai pericoli». Così in seguito a questo trasferimento del suo Battaglione, nel mese di giugno Giuseppe partecipa a una battaglia sul Carso isontino, in zona Merna – Molino di Raccogliano, a sud di Gorizia, annota Giuseppe nel suo curriculum militare autografo, oggi 2 km oltre il confine italiano. Da lì non si sposta più fino allo sfondamento di Caporetto dell’ottobre ’17.

Ma prima di allora il fante Giuseppe ha ancora occasione di toccare con mano la realtà cruda della trincea. In una cartolina postale del 1 luglio, infatti, la mamma Giulia gli chiede preoccupata: «Abbiamo piacere di sentire se sei proprio sicuro che ti hanno messo portaferiti. Pregheremo tanto Iddio che ti salvi dai pericoli e ti dia tanta forza e coraggio». Così agli inizi di agosto Giuseppe cerca di rassicurare i genitori in questo modo: «State pur sicuri che quando sarò in trincea sarò svelto e cauto da poter schivare più che sia possibile il pericolo». 

Giungiamo così all’avvenimento il cui ricordo verrà più insistentemente riproposto da Giuseppe ai propri familiari in tutti gli anni a venire, la grande ritirata di Caporetto. A testimonianza della assoluta sorpresa con cui venne colto l’esercito italiano, vi è quello scritto di Giuseppe, già sopra citato, di appena 20 giorni prima della catastrofe, in cui però non traspare in lui alcun segno di particolare tensione da potersi ricondurre in qualche misura alla situazione del fronte; come abbiamo visto, solo le ordinarie preoccupazioni per i tempi della posta, per la salute dei familiari e, aggiungiamo ora, anche per il fatto che «vi scrissi di mandarmi un vaglia, ma si vede che non avete capito». Null’altro. E invece il 24 ottobre 1917 reparti austriaci, ungheresi e tedeschi attaccarono le linee italiane nell’Alto Isonzo tra Plezzo e Tolmino, a metà strada dei quali si trova Caporetto, oggi la slovena Kobarid. Essi, attuando una fulminea manovra basata su un breve, intensissimo bombardamento (anche con nuovi micidiali gas) e la penetrazione in profondità di scelti reparti d’assalto, colsero di sorpresa i reparti italiani e costrinsero l’intero esercito a una rovinosa ritirata, dapprima al Tagliamento e poi al Piave, con 40 mila perdite, oltre 300 mila soldati caduti prigionieri, altrettanti sbandati e disertori nelle retrovie. Gli austro-tedeschi occuparono il Friuli e parte del Veneto; caddero in loro mano, oltre ai circa cinquemila cannoni, i campi di aviazione, i magazzini e i depositi che i militari italiani in ritirata non fecero in tempo a distruggere. Nelle sue annotazioni Giuseppe riduce in poche schematiche righe le sofferenze della propria ritirata, compiuta «assieme a diversi gruppi di militari, cavalleria, arditi, fanti, artiglieri, formando una piccola retroguardia, con diversi combattimenti all’arma bianca contro il nemico che avanzava, onde arginarne l’avanzata; passando appena in tempo sul ponte a Latisana [sul Tagliamento, prima della sua distruzione ad opera degli italiani], fino al Piave». E lì Giuseppe è tra i «primi militari distribuiti sulla costa del Piave in difesa e resistenza, sul ponte ferroviario della Priula, a Nervesa e Montello», a una ventina di chilometri da Treviso. In particolare, nella sua cartolina del 5 dicembre, egli intende informare i genitori sul luogo preciso in cui si è posizionato lungo il nuovo fronte: «Adesso mi trovo…», ma la censura interviene inflessibile a cancellargli per bene con righe di penna nera il nome del posto la lui ingenuamente indicato. Lascia però quanto segue, che costituisce comunque un conforto per papà Vincenzo e mamma Giulia: «… qui non ci si trova male e la salute mi è ottima, come spero di voi tutti». E nella cartolina che scrive tre mesi dopo, tra l’altro proprio nel giorno del suo onomastico, Giuseppe conferma che «come vi scrissi nella mia ultima lettera, adesso mi trovo al fronte, non però in trincea. Il Piave dista tre chilometri da dove è il 1° Battaglione, in linea vi si trova…», e qui di nuovo l’intervento della censura che gli cancella una riga intera del suo scritto. Ad ogni modo, in questo scritto Giuseppe conferma che non si trova più in prima linea perché, come riferito nella precedente lettera del 15 marzo, presta servizio in un «posto di medicazione», «sperando sempre di starci, e così sempre più riparato dai pericoli», aggiunge. È interessante leggere come Giuseppe descriva questa sua nuova collocazione che gli italiani assumono, rilevando «la casa per uso posto di medicazione che avevano gli inglesi, una piccola casa a sei stanze».

Le lettere di Giuseppe presentano errori di ortografia, a volte anche “da matita blu”, gli avrebbero detto alle elementari, e lo sviluppo della sua frase non è sempre lineare, in più di un’occasione poco comprensibile; però  riporto ugualmente questo breve brano, questa volta senza quegli aggiustamenti di punteggiatura, di ortografia e sintassi che ho fino ad ora qua e là apportato, per lasciare affiorare anche la freschezza con la quale egli racconta. È un testo che denota vivacità d’osservazione, vitalità nell’adattamento e per certi versi anche una ritrovata gioia di vivere in una situazione da lui percepita come più serena e protetta: «Gli inglesi sotto al ciglione dun canaletto d’acqua anno fatto delle galerie forte ed resistente, belle e ricoperte di lamiere per non far penetrare l’acqua e terra tutte imbiancate che dormivano gli inglesi: loro questo posto era una sezione di croce rossa inglese, avevano l’automobile, le barelle sopra due ruote di gomma che trasportavano i feriti, venuto giù dalla collina di trincea con quelle barelle, erano in molti i soldati che vi portai». E precisa tutto gioioso, parlando degli inglesi: «Prima di andar via ci anno lasciato delle scatole di biscotti inglesi ed marmelata, carne, scatole di fagioli ed carne con verdure, tè e zucchero ed …» e chissà che altro poi di così strategicamente compromettente da meritare un altro intervento della censura. Ma lungo le quattro pagine della sua lettera, Giuseppe racconta anche del capitano medico inglese che alle 11 viene per la visita e le punture, come pure di qualche inglese che «sa parlare in italiano, così si discorre un po’», ma soprattutto del fatto che quegli inglesi gli dicono «che dove mi trovo è un fronte buono perché sparano poco e niente». Questo scritto del 19 marzo ’18 è interessante anche perché mostra come si tentassero un po’ tutte le strade per cercare di allontanarsi dal pericolo della prima linea; qui in un paio di passaggi si intuisce come Giuseppe abbia presentato formalmente una domanda e che tale richiesta sia stata supportata anche dai genitori con uno scritto «a quei signori, ed appena riceverete posta me lo direte. Se la risposta è negativa, tralasciate pure di fare dei passi, che è inutile, perché non vogliono i comandanti». Dalla vicenda successiva di Giuseppe arguiamo che si tratta della domanda per passare nei Carabinieri; ma ci arriveremo.

Giuseppe comunque rimane ancora per mesi sul fronte del Piave, durante i quali ha anche modo di rammaricarsi «sentendo che lo zio Luigi ha dovuto chiudere il suo negozio [un’oreficeria in corso Campi] per andar militare, ma speriamo che prenda un posto buono essendo lavoratore». Inoltre, nei primi giorni del 1918 si ammala ed è ricoverato in ospedale, un malanno per il quale i genitori sono preoccupati, una volta che, il 12 gennaio, ricevono la cartolina su cui Giuseppe scrive: «al momento mi trovo in ospedale perché mi è venuta la febbre». È così che, per avere informazioni più precise, in quello stesso giorno mamma Giulia scrive una lettera al «Sig. Cappellano Cerati Giorgio, Ospedale da Campo n. 037, Zona di Guerra», mentre papà Vincenzo recapita un biglietto al «Preg. Sig. Monsignor Parroco di S. Ilario» chiedendogli di informarsi per Giuseppe presso il suddetto Cappellano. Il caso, o la Provvidenza, volle infatti che il Cappellano fosse quel don Giorgio Cerati che, ordinato sacerdote nel 1903 e destinato come Vicario a Isola Dovarese, nel 1910 venisse trasferito proprio nella parrocchia di S. Ilario a Cremona. «Di buon cuore e con cortese premura», si affretta a rispondere al sig. Vincenzo il sacerdote in data 14 gennaio, «appago il suo legittimo desiderio, molto più che si tratta di un giovane della mia Parrocchia! Le notizie richieste sono buone, si è trattato di una leggera febbre reumatica e di qualche altro piccolo malessere che hanno costretto il suo Giuseppe ad entrare il giorno 7 nel mio ospedale da campo. Dopo la necessaria cura, si vide in breve guarito e il soldato partì per il suo Reggimento il giorno 11 del corrente mese». E precisa che non è dell’ospedale la competenza di accordare la licenza invernale che spetta a Giuseppe dopo 15 mesi di fronte, «sì bene dei Corpi a cui i soldati appartengono». Ma la licenza arriva abbastanza presto; se nella lettera del 30 gennaio Giuseppe è ancora in attesa, sappiamo che gli viene accordata nelle settimane successive. Se ne ha la conferma nella corrispondenza del 18 e 28 marzo, nella quale si capisce anche che egli si sta ancora muovendo in ordine a quella domanda di cui sopra abbiamo accennato; quella faccenda, comunque, finisce con l’evolversi positivamente. Atteso, nel mese di maggio, anche al servizio di registrazione presso lo Stato Maggiore del 164° Reggimento, il 5 giugno 1918 il fante Giuseppe parte dalla zona di guerra e viene trasferito alla Legione Allievi Carabinieri di Roma, dove vi rimane, per l’istruzione, fino a fine agosto. È proprio in questo mese che il suo amico fante mitragliere Cesare Sanclemente gli scrive non senza stupore: «Dimmi come facesti ad andare nei Carabinieri! Facesti domanda? Spiegami in proposito, perché se è possibile verrei anch’io…». E così qui si chiude la campagna di guerra del fante Giuseppe, durata parte del 1916, tutto il 1917 e metà 1918. 

Quando la guerra finisce, il carabiniere Giuseppe si trova a Pozzuolo (Perugia), ove vi rimane fino al 13 aprile 1920 quando viene congedato e fa ritorno a Cremona. Fino ad allora la sua corrispondenza non si interrompe, e così veniamo a sapere dell’epidemia di febbre spagnola nel novembre ’18, poi del suo viaggio a Roma nell’agosto ’19 per accompagnare tre prigionieri, del suo temporaneo spostamento a Castiglione del Trasimeno (Perugia) nel mese successivo e infine delle due esercitazioni nel gennaio e marzo 1920 che va ad effettuare a Città di Castello (Perugia). A Cremona lo attenderà il lavoro nella ditta del padre, così si occuperà anch’egli del commercio di carbone e legna. Nel maggio del 1924 sposerà Angiola Preti e andrà ad abitare in via Paderna 22, divenuta in seguito via Magenta 38; avrà tre figli, Piervincenzo, Pierluigi e Giuliano.

C’è però un ultimo capitolo della vicenda militare del fante e carabiniere Giuseppe, quello delle onorificenze. Già nel 1919 riceve il distintivo di carabiniere «con diritto», annota non senza orgoglio Giuseppe sul suo memorandum scritto, «di fregiarsi del distintivo con una stelletta sul medesimo». Il 26 aprile 1921 è per lui giorno di gran gloria, gli viene infatti assegnata dal Ministro della Guerra la Croce al Merito di Guerra e successivamente, il 20 ottobre 1926 «è autorizzato a fregiarsi della Medaglia Interralleata della Vittoria». Ma è soprattutto quest’altro atto che suggella tutta la vicenda militare di Giuseppe, il conferimento dell’onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto con decreto del 22 ottobre 1968 del Presidente della Repubblica, capo dell’Ordine di “Vittorio Veneto”. L’evento cade nella celebrazione del 50° anniversario della Vittoria della prima guerra mondiale che qui a Cremona viene solennemente celebrata il 4 novembre alle ore 10 in piazza Duomo con la lettura del messaggio del Capo dello Stato e col discorso commemorativo pronunciato dal comandate del Presidio, gen. Mari,  al termine della Messa celebrata dal vescovo Bolognini. «Dopo il discorso del gen. Mari», scrive La Provincia del 5 novembre 1968, «il prefetto dott. Capasso e il sindaco dott. Vernaschi hanno proceduto alla consegna delle medaglie-ricordo e delle insegne dell’Ordine di Vittorio Veneto a cento ex-combattenti residenti nel comune di Cremona che commossi si sono presentati a ritirare tali attestati di riconoscenza». E tra questi anche il nostro fante Giuseppe.

Foto dall'archivio di Cremonasera: i fanti scavano la trincea e i tank inglesi al fronte nella prima guerra mondiale

Maurizio Cariani


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commenti


michele de crecchio

5 novembre 2023 22:17

Bravo Cariani! Molte famiglie (tra le quali la mia) hanno conservato gelosamente le lettere spedite dai loro cari in momenti terribili quali quelli del servizio militare in periodo bellico, ma non tutte hanno avuto la fortuna di trovare tra i propri discendenti un efficace divulgatore come sei stato tu.