2 novembre 2023

La nostra storia. 1949, la libertà dei ragazzi di scorrazzare nelle campagne. Le vacanze alla fine della scuola, i giochi, il Natale, il presepio

Continua il racconto di "come eravamo" nelle nostre campagne. Giorgio Peri racconta gli anni del dopoguerra a Gussola. Le vacanze alla fine della scuola, il Natale, il presepio, la scomunica per i comunisti.

I ragazzi durante le vacanze scolastiche estive gustavano una libertà sconfinata: i giorni erano lunghissimi ed era perfino difficile occupare tutto il tempo in maniera soddisfacente: vagabondaggi per le strade del paese, arrampicate sui gelsi per coglierne le more dolcissime, partite chiassose di calcio: si disputavano rincorrendo una palla non perfettamente gonfia, sul campo  erboso a chiazze, davanti la casa del prevosto, cioè dietro la chiesa; una alternativa erano partite di ping-pong all’ombra delle strutture parrocchiali, che erano un vecchio magazzino agreste con annesso portico rustico, chiamato “l'Oratorio”. Trascorsa la fiera di metà Agosto, con il primo acquazzone l'estate se ne andava e in un baleno giungeva l'inizio del successivo anno scolastico con l'apprensione per non aver fatto nessuno dei compiti delle vacanze. Oltre le novità degli insegnamenti prescritti, quell'anno per i ragazzi ce n'era una che suscitava aspettative: una proiezione   cinematografica. La televisione non esisteva, il concetto di spettacolo era molto diverso da oggi e quindi l'avvenimento era comunque interessante, anche se il tema, visto con gli occhi di adesso, non era esattamente da visibilio. Si trattava di mosche, dei danni che possono provocare e dei possibili rimedi. Prima di allora le mosche non avevano mai preoccupato il piccolo Egidio, ma dopo quella proiezione sono diventate insetti fastidiosi e lo dimostrava anche il fatto che quell'anno, a inizio estate, l'amministrazione comunale del paese, per la prima volta, aveva provveduto per una disinfestazione, la quale aveva sparso sul marciapiedi della via principale, dove abitava Egidio, mucchietti di insettini lucidi e neri, morti non senza qualche vano tentativo di riprendere il volo ronzando rumorosamente con le ali semiparalizzate dal veleno che le copriva. 

Christus vincit,... Christus imperat” si cantava con impeto negli ambienti religiosi; “ Siamo arditi della fede.... al tuo cenno e alla tua voce, un esercito all'altar.” La Chiesa con i suoi ministri allora si presentava trionfante e battagliera, essendo riuscita in Italia a mantenere inalterato il proprio prestigio anche quando tutto stava crollando durante la catastrofe della guerra finita qualche anno prima. Il suo atteggiamento tuttavia non appariva sempre di misericordia, ma spesso si creava qualche contrapposizione dura e puntigliosa contro le ideologie considerate atee. Da ciò nascevano invettive e messe all'indice; quell'anno, era il 1949, fu decretata anche la scomunica per il partito dei lavoratori e i suoi iscritti. Da quel momento ai comunisti fu proibito di accedere ai luoghi sacri, come la chiesa, ma già essi, in paese, non avevano mai manifestato grande smania di accedervi, avendo sempre preferito stare per conto loro nella “Casa del Popolo”, per discutere e per giocare a carte, senza disdegnare qualche bicchiere di Malvasia; eppure la spaccatura che si creò tra chi inneggiava “Avanti o popolo” e chi  cantava “O bianco fiore” fu profonda. 

Il turismo di massa non esisteva ancora e praticamente nessuno d'estate partiva, tuttavia i ragazzi erano un’altra volta nel pieno delle loro vacanze estive. Un invito ad una partita di caccia nelle savane africane o lungo lo Zambesi ai tempi di Livingstone non avrebbe entusiasmato alcun cacciatore come entusiasmò Egidio l'occasione di una gita organizzata dall'Oratorio per arrivare fino alla riva del Po, quattro chilometri attraverso boschi e  campagne, da percorrere a piedi, perché quasi nessuno disponeva di una bicicletta. Su una stradicciola erbosa oltre l'argine i ragazzi più piccoli, come Egidio, vedevano da vicino per la prima volta la lanca. Ai due lati della strada, che l'attraversava, il luccicare di acque palustri traspariva tra il folto di sterpi e di canne sottili; tonde foglioline verdissime galleggiavano immobili a chiazze sul nero brillante dello stagno. Il silenzio pareva sospeso in attesa di ore più fresche e un fugace apparire di uccello faceva sussultare il fogliame leggero dei salici. Sul bordo dell'acqua e preceduto da un baffuto spinone un cacciatore vagava tranquillo col fucile appoggiato sul braccio; calzava due stivali di gomma coi gambali afflosciati alle cosce. La stradicciola proseguiva oltre solitaria, a tratti ombrosa sotto una verde galleria di rami, a tratti aperta sotto l'abbaglio vivace del sole; ora di qua si ergevano i tronchi di un bosco fitto di ombre e di sterpaglie ove talvolta riecheggiava improvviso e alto il grido squillante del fagiano, poi di là un campo a riposo dopo la mietitura, sovrastato in lontananza dai riflessi tremolanti del calore; un ramarro azzurrino attraversa la strada all'improvviso; inerpicata fino al culmine del cielo e nascosta dietro la luce del sole l'allodola spandeva il suo canto concitato. I boschi finirono, un campo di sterpaglie, una piccola salita ed ecco più sotto apparire il grande fiume Po: una massa enorme di acqua si muoveva lentamente quasi con solennità nel silenzio della canicola. Velata da un leggero vapore, si scorgeva l'altra sponda lontana, irta di pioppi, di salici e di robinie; nessuno sapeva cosa c'era oltre: c'era un altro paese? Come ci vivevano? Ci facevano qualche fiera? A sinistra, coperta di vegetazione, emergeva dall'acqua un'isola che, pur senza la presenza di chicchessia, appariva ordinatamente coltivata: era l'isola denominata Maria Luigia, come l'antica duchessa di Parma, ed era terra demaniale similmente a quelle golenali che costeggiavano tutto il Po.

Attraversando la piazza per tornare a casa i ragazzi intercettarono la notizia, data dalla radio, che Fausto Coppi aveva vinto il giro ciclistico di Francia, dopo aver vinto, poco prima, anche il giro d'Italia; i più grandicelli manifestarono una chiassosa esultanza, inspiegabile per Egidio. Gli apparecchi radiofonici erano molto rari laggiù, a casa di Egidio non lo possedevano, ma in cortile egli sentiva quello di una autorità indiscussa: una anziana maestra che aveva anche un fratello parroco in un altro paese abbastanza lontano oltre il capoluogo. Era un apparecchio sorprendente, chissà che cosa c'era dentro; Egidio lo chiese a sua sorella più grandicella, giudiziosa e già allora  non priva di ingegno. “Dentro ci sono boccette di vetro piene di pezzettini di ferro.” Lo aveva sentito a scuola dove forse si riferivano al coherer di Temistocle Calzetti Onesti e già usato da Marconi neanche molti anni prima. In paese così non arrivava la massa di notizie, come succede attualmente, riguardanti il mondo intero e quindi suscitavano interesse e partecipazione molti degli eventi locali. D'altronde tante informazioni non sempre fanno un'idea. 

Quell'anno, in autunno, con grandi festeggiamenti era arrivato il nuovo parroco, Don Gino. Il corteo era accompagnato da cavalieri agresti, con cravatta e giacchetta della festa, essi montavano un cavallo rassegnato appena staccato dal biroccio; festoni arborei attraversavano in più punti la strada e due ali di popolo acclamavano plaudenti. I preti anziani in quella zona, una volta, vivevano nella convinzione, evidentemente imposta, che era meglio stare male che stare meglio, in virtù di una volontà sublime, che sovrastava il mondo e l'intero universo ed alla quale non ci si doveva ribellare: la regola insomma doveva essere: austerità, sacrifici e rinunce; la speranza per di più era pesantemente condizionata. Egidio non poteva assimilare simili idee; però esse rappresentavano un modello sostenuto da una autorità prestigiosa e gli pareva ovvio che ci si dovesse ad esso uniformare. In seguito egli fu aggregato al gruppo dei chierichetti, doveva servire la messa in chiesa secondo turni prestabiliti, però, quando toccava a lui, non riuscì mai ad alzarsi all'alba per la prima messa delle sei; si aspettava qualche rimbrotto, ma nessuno gli contestò mai qualcosa. 

Il presepe allestito in chiesa faceva parte degli eventi annuali notevoli. Quel Natale la rappresentazione non era più tutta statica, come in passato, ma vi appariva un nuovo effetto luminoso, per cui, ai comandi dell'elettricista, il cielo proiettato su un telo, da buio diventava lentamente splendido di luci dorate e azzurrine, dando l'impressione dell'alba incantata sopra un villaggio berbero. I ragazzi assistevano affascinati all'allestimento; Chinchi, elettricista, falegname e pittore, controllava con un dito se arrivava corrente toccando il conduttore  rapidamente come se scottasse, e regolava l'intensità della luce con un secchio in lamiera zincata pieno di acqua salata: uno dei due fili che alimentavano le lampade era interrotto, un capo dell'interruzione veniva messo a contatto con il metallo del secchio, all'altro capo uno spezzone di lamiera, immergendosi sempre più nell'acqua senza toccare il secchio, produceva il crescendo luminoso. Anche il partito dei poveretti, scomunicato, festeggiava il Natale sempre gelido e brumoso, addobbando paganamente la coppia di abeti avvolti dalla nebbia nelle due aiuole davanti al municipio: qualche lampadina domestica e pendenti in carta colorata. In periodo scolastico nella sguarnita cartoleria delle due sorelle Bertone, anziane e sole, le belle matite con lo smalto giallo profumavano di legno di cedro e l'inchiostro, che si vendeva versandolo nella boccettina da portare, odorava di asprigno.  Poco dopo la festa dei morti nella cartoleria si potevano acquistare le statuine in gesso colorato per il presepio domestico che molti ragazzi allestivano in un angolino della propria abitazione. I laghetti si facevano con gli stessi foglietti di stagno, vero stagno, che prima avevano già avvolto la barretta del torrone natalizio, unico dolce speciale di quella festa: il panettone era noto solo  dalle storie raccontate sui primi libri di lettura a scuola. La stagnola veniva stirata e lisciata, passandoci sopra il dorso di un’unghia, così da toglierle la patina cerosa e renderla luccicante; si conservava da un anno all'altro. La neve che imbiancava a chiazze la piccola scena era autentica farina; la segatura di legno segnava le stradicciole; il muschio raccolto a ridosso delle muraglie simulava l'erba dei campi; i ciocchi più contorti prelevati dalla legna da ardere servivano per fare le rocce scoscese con le grotte e i dirupi. Fuori della capanna del presepe sostava solitario qualche pastore che si contorceva, parandosi gli occhi, per guardare in alto la luce del cielo; ancora un paio di pecorelle e il presepe era completo. (5-continua)

 La foto è di Faliva

 

Giorgio Peri


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