Maurizio Baglini e il Köln Concert di Keith Jarrett: un rito di rinascita al Teatro Ponchielli
Più che una sala da concerto, stasera il teatro Ponchielli assomigliava al set di un film alla maniera di Kubrick: una cornice di occhi che convergevano sull’esile e solitaria silhouette del pianista. Un concerto senza poltrone e senza proscenio, la tradizionale geometria della sala svuotata e ridisegnata: il pianoforte collocato nello spazio normalmente riservato al pubblico, gli spettatori distribuiti nei palchi come testimoni privilegiati di un esperimento, umano e sonoro. Così Maurizio Baglini ha scelto di restituire al Teatro Ponchielli un’opera irripetibile, il Köln Concert di Keith Jarrett, a cinquant’anni dalla sua storica esecuzione.
La storia è nota: il 24 gennaio 1975, a Colonia, Jarrett fu sul punto di abbandonare: in uno stato di stanchezza estrema, affamato ed esausto dopo un lungo viaggio da Zurigo, un pianoforte malridotto ad aspettarlo, la tentazione di far saltare la data. Ma la sua scelta di suonare, grazie all’ostinazione della giovanissima promoter Vera Brandes, divenne leggenda: da quell’improvvisazione nacque l’album jazz di pianoforte solista più venduto di tutti i tempi, un flusso musicale che trasforma ogni nota in vita pura, ogni gesto in resistenza e grazia.
Baglini sceglie di non replicare l’impossibile, non imita bensì trasfigura. Si misura con la domanda che ogni interprete incontra davanti a un capolavoro nato per dissolversi: come restituire oggi l’essenza di un’improvvisazione irripetibile? La sua risposta è un’esecuzione che non mira a “ripetere”, ma che cerca dentro la scrittura la vibrazione originaria di libertà, trasformandola in nuova esperienza condivisa. I mezzi non gli mancano: il fraseggio di cristallina purezza, il nitore e la sconfinata gamma delle dinamiche, l’uso sapiente del pedale. Una trascrizione rischia sempre di essere lettera morta rispetto alla sua matrice: se, come disse Miles Davis, per fare il jazz occorre suonare quello che non c’è, la prospettiva ermeneutica di stasera ha ribaltato i parametri dell’interpretazione restituendo l’esatto contrario: Baglini ha suonato quello che c’è, o meglio, quello che rimane una volta che l’istante si è dissolto. E allora cosa non c’è? Non c’è l’affanno, il disagio di un pianoforte non perfetto, la stanchezza, la riottosità di non essere sicuri di voler essere seduti su quello sgabello in quel momento. Baglini, invece, è esattamente dove vorrebbe essere, e la differenza si sente: il suo è il gesto chirurgico e amorevole dell’archeologo che, con cura certosina, rimuove il terriccio con un pennello dalle setole morbide, con attenzione e delicatezza maniacale, per non rovinare il manufatto.
Da eccezionale interprete quale è riporta alla luce e ricompone ogni piega dello spartito, con il merito di ridarle vita, ma, come sappiamo, anche Jarrett approvò sempre malvolentieri la trascrizione, seppur fedele, del suo concerto. Cosa è che manca allora? La scelta interpretativa esclude il groove, agisce per sottrazione eliminando la tensione sotterranea di ciò che esiste nel momento stesso in cui nasce, e che non è mediato da alcun pensiero; un flusso di coscienza che prende forma nell’inconscio e non è mediato dal raziocinio. Nell’esecuzione di Jarrett ogni attimo di musica è un attimo di vita realmente vissuto dall’artista, la musica si crea nello stesso momento in cui viene suonata; invenzione ed esecuzione coincidono, non c’è bisogno di interpreti. Jarrett non suona ciò che ha pensato di suonare, ma quello che affiora alla sua coscienza. L’algido doppelgänger di Baglini smentisce e contraddice il suo gemello naturale.
Se Beethoven è sempre Beethoven, essendo stato composto per vivere nel tempo, nascendo diacronico, Jarrett non è Jarrett nella sua esecuzione, nascendo, e, ci viene da dire, morendo, sincronico.
La scelta di eseguire il concerto in un teatro-cantiere amplifica questo senso di straniamento. La precarietà della platea smantellata, i bordi sfrangiati dei rivestimenti mancanti, non sono solo un progetto architettonico: sono il simbolo di una rigenerazione collettiva, di un’attesa, di un ripensamento dello spazio scenico, con le sedute dismesse che troveranno nuova vita in spazi privati e sociali; il teatro diventa esso stesso strumento, luogo sonoro e sociale, memoria che si apre al futuro.
Il pubblico, disposto nei palchi, non ha percepito il suono provenire da un palcoscenico distante, ma dal cuore stesso della sala trasformata felicemente in una grande cassa armonica. L’ascolto di stasera è stato intimo, il dialogo con il pubblico diretto, quasi confidenziale: la musica ha abbattuto le distanze, trasformando ogni ascoltatore nell’adepto di un rituale laico.
Così, nella lettura di Baglini, il Köln Concert, profondamente trasfigurato, chimera riportata in vita in una forma completamente differente dal suo omologo del 1975, non è rimasto un ricordo fissato su vinile, ma si è reso udibile in un presente assoluto: un miracolo che si è rinnovato, capace di trasformare non soltanto una sala da concerto, ma l’idea stessa di una comunità che intorno alla musica si ritrova e si riconosce.
Il pubblico plaudente ha ottenuto un bis, lo studio S.140 n.3 di Franz Liszt, più noto come La Campanella.
Questa scelta, quanto mai azzeccata, ha fatto da trait d’union, attraverso la raffigurazione sonora di un oggetto, – l’incredibile campanella quasi liquefatta nelle sonorità cesellate da Baglini che, si dice, abbia ispirato il tema del Köln Concert di Jarret e quella del concerto di Paganini - tra due idee contrapposte di musica, ultraterreno tintinnabulum e ostinato memento mori. Un’esecuzione per un Baglini di sovrumana bravura che ha lasciato nel pubblico convenuto il vivissimo desiderio di riaverlo presto sulle scene cittadine, stavolta alle prese con un repertorio classico, spumeggiante tra le sue mani prodigiose.
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