Quando lungo la Giuseppina c'era la Ca' del Barba. La storia dell'Anaconda, sottane, donne nude e fiaschi di vino. E i segni pesanti della guerra
C’era una volta Ca’ del Barba, una casa costruita in mezzo ai campi nella prima metà del novecento, quando la vita era fatta di poche cose e tanto lavoro, di famiglie numerose e di pochi fronzoli.
Sul lato a sud della via Giuseppina, prima dell’ingresso a Cella Dati, nei campi dirimpetto al cimitero di San Lorenzo Mondinari, fino a qualche decennio fa si poteva ancora notare il rudere di una vecchia costruzione. Pochi muri ancora in piedi fino agli anni ‘80 dei quali poi inesorabilmente si è persa ogni traccia. Quella era la casa del ‘Barba’, al secolo Fermo Cadenazzi, classe 1882. Il nome ‘Barba’, come è facile immaginare, derivava dalla folta barba che incorniciava il suo volto da uomo d’altri tempi.
Oggi per chi vive in zona quel lembo di campagna è ancora identificato col nome di «Ca’ del Barba», perchè Fermo era un personaggio singolare e quella casa la costruì con le sue mani, modellandone i mattoni dalla creta e cuocendoli proprio in quel campo, per poi viverci per decenni con tutta la sua famiglia.
Una storia che si perde tra foto in bianco e nero e vecchi ricordi
Ma partiamo dall’inizio, facendo un salto indietro nel tempo di oltre un secolo. La storia ce la racconta Sergio Cambiati che per alcuni anni visse proprio in quella casa e che, essendo il nipote del Barba, per gli amici -va da sè- è sempre stato ‘èl Barbìn’ .
Quel 22 febbraio del 1882 a Cella Dati nasce Fermo, nella stanza di qualche modesta casa di campagna, come nascevano tutti i bambini. Passano gli anni, Fermo cresce e diventa un uomo ed un marito: si sposa con la giovane Maria Gambarotti e nascono i primi figli. In una foto di famiglia sono ritratti lui, Maria e 4 dei figli. Lui è un bell'uomo serio e fiero, occhi color del ghiaccio e due importanti baffi corvini, di moda all’epoca. Maria ha lo sguardo dolce di madre, circondata dai suoi bambini.
Le vicende della Storia fanno il loro corso, l'Italia entra in guerra nel 1915 e quelli a seguire sono anni di povertà e di difficoltà; ma la vita va avanti e Fermo è un giovane uomo intraprendente e decide che il piccolo mondo di Cella Dati non è abbastanza, la vita qui è sempre più difficile e con la moglie prende una decisione importante: emigrare in Sud America.
Quasi possiamo immaginare marito e moglie impacchettare le loro poche cose in semplici valigie di cartone ed allontanarsi dalle loro terre su un carretto per salire su una nave, attraversare un intero oceano ed andare dall’altra parte del mondo, in un posto lontano e davvero sconosciuto, mai visto e del qualei nella bassa cremonese arrivavano solo racconti. Una terra tanto lontana che oggi, nell’era della comunicazione e dei viaggi facili, fatichiamo ad immaginare.
L’anaconda, tra verità e leggenda
La coppia arriva in Brasile, dove Fermo lavorerà per alcuni anni in un’azienda agricola, governando e prendendosi cura dei cavalli, tra cui anche il suo personale, che chiama ‘Giurà’. Proprio qui in Brasile vive un’esperienza che caratterizzerà poi la sua figura per sempre: la storia -raccontata prima dallo stesso Fermo e quindi da tutti quelli che ne sentirono parlare-, narra che un giorno, trovandosi in una zona acquitrinosa, venne assalito da un enorme serpente, forse un’anaconda, che lo avvolse nelle sue spire. Ma l’uomo non si fece prendere dalla paura e riuscì a reagire uccidendo il serpente con una roncola che teneva nella cintola. Una volta libero dalla stretta mortale, Fermo decise di portarsi con sè il serpente, come trofeo; ne ricavò una lunghissima pelle che si mise addirittura sulle spalle durante il viaggio di ritorno a casa. «Hai visto l’Italiano!» diceva ai suoi conoscenti brasiliani, vantando una certa supremazia anche nella caccia al serpente.
Ed in effetti l'anaconda in Italia ci arrivò: «Quando ero alle elementari -raccontano- un giorno un nipote del Barba portò a scuola la pelle dell'anaconda. La maestra l'ha srotolata ed era lunghissima, come tutta la stanza».
Il ritorno in Italia ed i mattoni cotti a metà
Finita la guerra e racimolati un po’ di soldi in Brasile, Fermo e Maria salgono di nuovo sulla nave che li riporterà in Italia, nelle loro terre. Quando tornano, Fermo non è più il giovane uomo partito anni prima, ha una famiglia numerosa e il suo aspetto ora è più maturo. Una foto in bianco e nero lo ritrae ieratico in posa ancora accanto alla moglie: il suo volto è caratterizzato da una lunga e folta barba e per questo per tutti diventerà per sempre ‘èl Barba’.
Una volta di ritorno a Cella, il Barba investe i suoi soldi acquistando un appezzamento di terra ed inizia a costruire la sua casa. In Brasile ha imparato anche a fare i mattoni e per questo scava una fossa nel terreno, ne ricava l’argilla e realizza una sorta di fornace in cui cuocerli. Voci popolari raccontano che durante la ‘cottura’ improvvisamente scoppiò un temporale che spense il falò di fascine, lasciando i mattoni ‘crudi’ a metà. Ma il Barba non si fece scoraggiare e costruì la casa usando anche questi mattoni difettosi: tutto sommato le mura rimasero in piedi per decenni senza causare problemi. E per anni è rimasto rimasto ben visibile anche il disegno che il Barba fece sulla facciata, sotto la gronda: proprio lei, una grossa anaconda verde, lunga tanto quanto la casa.
‘Ca’ del Barba’ era questo: una casa, un pezzo di terra da coltivare, due o tre vacche, un pollaio con qualche gallina ed il maiale. Così si viveva a quei tempi e non fu un problema tirare grandi i cinque figli Guido, Giuseppe, Stella, Eugenio e Umberto, tra vestiti passati di mano, ginocchia sbucciate e qualche scappellotto ‘didattico’.
Sottane, donne nude e fiaschi di vino
Certo il Barba, vuoi per indole, vuoi per le sue esperienze in un’altra terra, era un tipo fuori dagli schemi: «Mio nonno di solito non portava camicia e pantaloni, ma una specie di tunica che arrivava fin quasi ai piedi. Con la sua barba lunga metteva una certa soggezione. A volte restava senza vino, allora aveva escogitato un trucco: esporre alla finestra delle immagini di donne nude proprio quando sapeva che sarebbe passato il prete. Allora il parroco gli diceva “qui Barba non andiamo bene così” e per convincerlo a tirare via quelle foto, gli offriva una damigiana di rosso». La buona creanza barattata per una buona scorta di vino.
Di nuovo la guerra
Passano gli anni e l’incubo della guerra torna a sconvolgere le vite della gente comune.
Al Barba, che all’inizio del secolo fuggì per evitarla, la guerra stavolta non risparmiò la più grande delle sofferenza: si portò via il figlio Guido, che era stato precettato dai tedeschi nella famigerata Linea Todt e portato nelle boschine lungo il Po, verso Motta Baluffi. Lì il giovane, durante un combattimento, fu colpito al capo da una pallottola. «Per il funerale, è andato al cimitero col ‘rampino’ nella cintura perché se ci fosse stata la persona che lo aveva mandato a morire, che era un fascista di Pugnolo, mio nonno avrebbe vendicato suo figlio». Fortuna migliore ebbe invece l’altro figlio Giuseppe, ‘Pinèt’, uno di quelli che venivano definiti ‘sbandati’ ossia i soldati fuggiti dal fronte che vivevano nascosti. «Ero un bambino e mi ricordo che di notte dormiva col mitra sotto il cuscino: io lo vedevo, dormivo lì vicino! Di giorno invece si nascondeva nella cantina sotto la casa oppure nei campi, in mezzo al granoturco. Una volta si è arrampicato su un noce; mentre era sulla pianta, ‘Tonna’ lo ha visto. Si sono guardati negli occhi. Poi però Tonna non ha detto niente, non lo ha denunciato e mio nonno, finita la guerra, è andato a ringraziarlo»
Panta rei, tutto scorre
Anche la seconda guerra mondiale finì, gli anni passarono lenti nella campagna. I bambini seguitavano a sbucciarsi le ginocchia in estate ed andare a liscare sui fossi d’inverno, i giovani si innamoravano alle sagre di paese ed i vecchi spiravano nei loro letti, tra quelle stesse mura che magari li avevano visti nascere. Anche il Barba finì i suoi giorni nel suo letto, nella casa che aveva costruito mattone su mattone, con la sua barba ormai canuta, mentre sullo stipite l’anaconda pian piano scoloriva.
Poi arrivarono gli anni del boom economico a portare via la gente dalla campagna per andare a vivere in città, in case migliori e con lavori meno pesanti e meglio pagati. E così anche la Ca’ del Barba si svuotò, figli e nipoti se ne andarono e rimasero solo il passare del tempo e l’edera a far compagnia a quelle mura che, piano piano, iniziarono a cedere: prima il tetto, poi qualche porzione di muro e così, mattone dopo mattone come era stata costruita, la casa si perse definitivamente, lasciando solo la memoria di sè in quella porzione di campagna che ancora ne porta il nome.
Le foto a colori del rudere di Ca’ del Barba risalgono al 22 dicembre 1995 e sono su gentile concessione di GianCarlo Bernardi Pirini. Poi la foto del "Barba" con tutta la famiglia, di Guido il figlio e di Sergio "Barbin"
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commenti
Michele de Crecchio
24 novembre 2023 11:27
La straordinaria vita dei personaggi di un tempo sembra tratta da un romanzo ottocentesco, con la differenza che qui si tratta di vicende reali e non inventate da un bravo scrittore!