Quella croce in cemento sulla Giuseppina ricorda Giovanni Finardi, 17 anni, ucciso dai tedeschi il 26 aprile '45. Perchè? Aveva la divisa di un pilota americano abbattuto e cercò di scappare
Che cos’è la guerra?
Una domanda a cui è sempre difficile rispondere. Sono le storie delle vittime e dei sopravvissuti a raccontarne l’essenza di dolore, paura, orrore.
La guerra è la storia che ancora oggi ci racconta Giovanni Finardi, classe 1927: della sua vicenda resta una croce di cemento che si trova lungo la Via Giuseppina, in prossimità dell’incrocio per Pugnolo, frazione di Cella Dati.
Giovanni aveva 17 anni: è morto solo, nel buio della notte tra il 26 ed il 27 aprile 1945, braccato dai soldati tedeschi, colpito dai proiettili di mitragliatrice, buttato in un fosso ed abbandonato. A maggio avrebbe compiuto 18 anni
La sua storia ce la racconta la sorella Rosa, che ancora vive a Gussola come allora. «Giovanni era un giovane pieno di vita e di ideali, studiava a Cremona, alla scuola per geometri. Era atletico e giocava come riserva della Cremonese» Perché anche se c’era la guerra, la voglia di vivere dei giovani non si poteva fermare. Giovanni aveva anche la ‘morosa’, la bella Gina, di Gussola anche lei. Erano due ragazzi cresciuti in fretta durante la guerra. «Lui la odiava, la guerra. Aveva sentito raccontare di torture che avvenivano a Villa Merli a Cremona da parte della polizia fascista e non se ne capacitava».
Giovanni e Rosa, pur avendo sette anni di differenza, erano legati da un tenero affetto fraterno: «Lui era per me come un eroe, un idolo -racconta Rosa- il mio fratello maggiore, che mi aiutava sempre a studiare perché non voleva che crescessi senza sapere niente. Dopo la sua morte non mi interessò più nulla della scuola»
Nel 1945 Rosa aveva solo 10 anni, ma ricorda benissimo gli anni della guerra, i bombardamenti aerei di ‘Pippo’ che passava di notte, i soldati tedeschi in paese. E ricorda bene anche gli eventi di quella notte, di 78 anni fa.
Il 25 aprile 1945, il giorno che avrebbe segnato la storia d’Italia, è appena trascorso; la fine della guerra porta concitazione, con i tedeschi in ritirata, ma ancora presenti nei paesi, nelle case, nelle caserme. Rappresaglie, esecuzioni, pestaggi si registrano in tutta la zona. I partigiani ed i militari tedeschi si scontrano sempre più spesso; persino un aereo militare americano viene abbattuto nella zona di Gussola.
Giovanni quel 26 aprile indossa proprio la divisa che era stata del pilota statunitense; la indossa per gioco, per orgoglio, perché non tollera più la presenza e la prepotenza delle milizie tedesche e fasciste. Passa il pomeriggio con gli amici e la sera decide di andare dalla sua Gina, anche se il padre cerca di dissuaderlo. Ma Giovanni non demorde, non ha paura, vuole vivere la sua libertà di diciassettenne e si dirige dalla sua morosa. Non sa che in realtà sta andando incontro al suo tragico destino: viene infatti catturato da un gruppo di militari che stanno rastrellando la zona. Lui ed altri giovani e uomini vengono caricati su una camionetta militare, che parte e si dirige fuori dal paese, verso la via Giuseppina in direzione Cremona.
A casa di Giovanni non lo sanno ancora che il ragazzo è stato catturato e lo stanno portando via. Non lo sapranno finché qualcuno non irromperà a casa loro per dirglielo: il padre corre in paese, ma ormai è tardi, la colonna è già partita verso la città. L’uomo si mette subito ad inseguirla col cuore in gola, ma è notte e il vantaggio dei militari è troppo grande.
«Giovanni era su quel mezzo, vestito da militare, -prosegue il racconto Rosa- probabilmente voleva spiegare che in realtà lui quella sera era per strada solo per andare dalla morosa, ma non sapeva parlare il tedesco». Non ci sta ad essere portato via, non vuole arrendersi ai nemici, ma soprattutto non sa verso che destinazione lo stanno portando e gli tornano alla mente i racconti delle torture subite dai prigionieri in quella Villa Merli di cui aveva tanto sentito parlare.
Così è un attimo, una decisione repentina, istintiva: buttarsi giù dalla camionetta e scappare per i campi. Poco fuori l’abitato di Cella Dati deve essere sembrato il posto più adatto, senza illuminazione, solo campi, fossi ed alberi dove correre come il vento e fuggire dal nemico.
Giovanni salta dalla camionetta e inizia a correre: è buio, è notte, c’è silenzio. Giovanni scappa, è giovane ed atletico, fugge nel buio, veloce come non mai. Ma non abbastanza, purtroppo: il silenzio della notte è squarciato dal fragore secco delle mitragliatrici. Le fredde pallottole non gli lasciano scampo. Doveva andare dalla sua Gina, quella sera.
Giovanni muore così, solo, ferito, agonizzante sulla fredda terra. Colpito dai proiettili sparati da militari che forse erano ragazzi come lui o forse erano padri di figli come lui.
Toccherà invece proprio a suo padre trovare il suo ragazzo in un fossato, morto ed abbandonato. «Chi era con lui in quel momento -racconta Rosa con la voce spezzata dall’emozione- ha detto che ha urlato tanto che l’hanno sentito fino in paese». Un urlo di strazio e di dolore che echeggiò per tutta la zona.
L’uomo raccolse il corpo del suo Giovanni e lo portò in braccio fino al vicino cimitero di San Lorenzo Mondinari, per essere poi riportato a Gussola, dove venne allestita una camera ardente nell’asilo del paese ed insieme a Giovanni furono ricomposti anche i corpi di altri 13, tra giovani ed adulti, morti in quei giorni di concitazione dopo il 25 aprile.
Oggi Giovanni avrebbe quasi 95 anni, ma quel giovane pieno di vita non è mai invecchiato, non ha mai visto la sua Patria libera, non ha mai sposato la sua Gina. Il suo volto di ragazzo sorride da una foto in bianco e nero: guarda in avanti, verso un futuro che invece non vedrà mai.
Della sua drammatica storia resta quella croce di cemento con una piccola siepe ed una piantina di rosa che la madre piantò per il suo ragazzo.
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