Racconti "di-vini" di famiglia. Storie vinicole di nonni e zii nella memoria familiare della Cremona d'una volta
In questo tempo in cui nelle cantine si sta preparando il vino della nuova stagione, mi viene come naturale il rimando a memorie personali e a narrazioni trasmesse in famiglia che sono legate alla bevanda di Bacco. Fu èl nòono Rìco, il mio nonno materno Enrico Pedretti, classe 1887, il responsabile del mio primo approccio al vino. Io ero un bambino grande quel tanto che bastava per essere in grado di restare seduto su un triciclo e dare ogni tanto qualche colpo di pedale. Al resto aveva pensato l’ingegno e l’ingenuità di mio nonno che portava con sé qualcosa che non doveva esser nulla di più di una corda in iuta e con la quale al momento opportuno legava il mio triciclo alla sua bicicletta. Questo “ancoraggio di sicurezza” avveniva in prossimità dell’attraversamento di viale Trento e Trieste allo sbocco di via Palestro, a cui seguiva, proseguendo per il secondo tratto di via Palestro, quello di via Dante. Io non so se agli inizi degli anni Sessanta il transito per le due arterie raggiungesse le cento automobili al giorno, ma lui “per sicurezza”, mi legava e mi tirava. L’itinerario si giustificava in ragione della meta. “Ndùa vèet incóo cul pütél?”. La risposta a mia madre era standardizzata quanto la domanda: “Ala cuperatìiva!”. E la Cooperativa Ferrovieri era al fianco della Stazione, proprio al di là dei due fatidici attraversamenti stradali. Una mattina però le cose non andarono per il verso giusto, perché uno zelante vigile fermò mio nonno e dopo un panegirico sui massimi sistemi gli fece slegare la corda e gli intimò di proseguire secundum rationem.
Alla Cooperativa mio nonno appoggiava sul tavolo il suo cappello in feltro che aveva una piumina arancione inserita sul lato nella fascia; ordinava sempre del bianco, glielo versavano al tavolo fino al raso estremo negli indimenticabili calici in vetraccio a pallina sostenuta da un gambo un po’ spesso e non troppo alto. Lui, senza toccarlo, avvicinava al bordo la bocca e dando un bèl tiròt aspirava il primo dito di vino, con contenuto ma pur sempre udibile rumore. A quel punto sapevo che sarebbe toccato a me. A bassa voce, guardandosi d’intorno con fare forzatamente furtivo, “dammi la manina”, mi diceva. E isolandomi da essa l’indice, mi sibilava nell’orecchio “pùcia dèenter”, guidandomi verso il bicchiere; il servizio guida del dito era all inclusive perché comprendeva l’intinzione e l’indirizzamento verso la bocca per la ciüciàada finale. Non ho ricordi gustativi di quei primi assaggi del vino da tanto erano infinitesimali, ma ho impresso la ritualità di quel gesto che veniva come celebrata in mezzo a tutti quegli uomini, a quegli alti tavoli di legno e a quelle voci che si accavallavano.
Ma a proposito di Cooperativa Ferrovieri, èl nòono Ètore, il nonno paterno Cariani Giuseppe (detto da tutti però Ettore), classe 1883, ne era il Presidente nel periodo precedente la seconda guerra mondiale. Ferroviere come suo padre Odoardo, un semplice manovale, di lui ricordo che fino all’ultimo aveva sempre nel taschino del gilè il suo orologio a cipolla Longines che usava quando era capotreno. Ebbene mio padre mi raccontava che il nonno Ettore teneva una gestione un po’ austera della Cooperativa. La cosa che lasciava qualche perplessità agli avventori era il divieto di gioco con le carte, sul quale lui non mollava per ragioni sia morali che di ordine pubblico. Con le carte non era infrequente infatti il gioco coi soldi e con esso il rischio della rovina di qualche famiglia, inoltre con la rabbia per le perdite e il molto vino, l’esperienza insegnava che poteva saltar fuori qualche coltello di troppo. Però malgrado questo svantaggio ambientale, la Cooperativa era frequentatissima perché mio nonno pur essendo moderato bevitore, era valido intenditore del prodotto e attraverso giri che neppure mio padre è stato in grado di ricostruire, riusciva a a farsi rifornire nientemeno che dalla Puglia quello che all’epoca a Cremona costituiva una rarità e che chiamavano èl mandüüria, vale a dire il Primitivo di Manduria, un rosso fermo ricco di sapori e… di gradazione alcolica. Con questa convincente “argomentazione” poteva così permettersi qualche rigore gestionale.
Mio nonno Ettore, evidentemente in omaggio a suo padre, chiamò il suo primogenito col nome di Odoardo, la cui carriera lavorativa si svolse all’estero, dapprima in India e poi, negli anni ’60 e ’70, in Brasile. Col tempo riuscì a regolarizzare il suo ritorno in Italia; ogni due anni lui e la moglie Renata trascorrevano i mesi estivi a casa nostra. E quando ci veniva detto che “tra un po’ arrivano gli zii del Brasile”, già sapevamo che anche noi quattro fratelli avremmo dovuto contribuire, attraverso migrazioni e intensificazione della densità abitativa, alla ristrutturazione radicale della casa allo scopo di lasciare l’ultima stanza in fondo all’appartamento a piena disposizione dei due zii. I quali, oltre che dagli affetti, pativano la lontananza dagli affettati, soprattutto dal nostro salame cremonese; ma anche dal vino, costretti com’erano a sorbirsi birraccia paulista. Sicchè, in previsione del loro arrivo, mio padre procurava un rinforzo di fornitura di lambrusco di Torrile e di salame con l’aglio che sistemava in cantina per far fronte adeguatamente al previsto incremento di domanda estiva. Mio padre lavorava ancora a Milano ed era tutta la settimana lontano da casa, ma alla sera del giovedì tornava sempre. Così accadde che durante un’estate lo zio Odoardo gli fece sempre trovare per cena una bella bottiglia appena stappata di lambrusco fresco che mio padre beveva tra il sorpreso e il compiaciuto per cotanto riguardo. Così andò per tutta l’estate di quell’indimenticabile anno. Ma ad ottobre, quando gli zii del Brasile erano ormai ben lontani in quel di San Paolo, tutto si chiarificò. Sceso in cantina mio padre scoprì un clamoroso ammanco e risalito sconcertato in casa chiese dove fossero finite quelle bottiglie che egli teneva da qualche anno in un angolo della cantina, collocate dietro le damigiane vuote e ulteriormente nascoste da un’asse. “Le ha bevute lo zio Odoardo”, rispose candido Antonio, il più piccolo dei miei fratelli che ingenuamente aveva informato suo zio che “lì dietro il papà tiene il vino buono”. L’Oceano Atlantico si rivelò un’utile barriera per contenere la reazione di mio padre verso suo fratello, che lungo tutta l’estate gli aveva metodicamente prosciugato tutta una riserva di Gattinara che era curata da anni. Non solo, ma gli aveva accuratamente lavato ogni bottiglia ricollocandola diligentemente al suo posto. Perché le cose van fatte sempre per bene…
Lo zio Odoardo, poi, era quello che, scoperto dal sottoscritto mentre nascondeva dietro il vaso di una pianta in cucina, non un bicchiere, ma una caraffa di vino, mi chiamò a sé e schiacciando l’occhio sussurrò: “Questo è un segreto tra noi due, non diciamo niente alla zia Renata, mi raccomando”. Lui in qualsiasi momento della giornata voleva poter avere a disposizione un sorso di vino da poter bere in clandestinità evitando i richiami della moglie. Non che ne bevesse a volontà perché quelle quattro dita che si versava, frequentemente neppure le finiva, però quel senso di pronta disponibilità e di giovanilistica libertà gli bastavano. Io che sapevo del trucco, mi divertivo a curarlo per vedere tutte le sue creative manovre per giungere all’obiettivo; peraltro ogni momento poteva essere buono per èn sgurlòt. Lo zio andava così, a sentimento, perfino durante il Rosario che lui recitava ogni sera: andava avanti e indietro per tutta la lunghezza della casa, da camera sua alla cucina con passo cadenzato e le mani raccolte dietro la schiena da cui penzolava la corona che sgranava nel discreto mormorio delle Ave Maria. E così il passaggio in cucina costituiva a volte l’occasione per finire “al volo” la sua caraffa quotidiana.
Su questa commistione vino e divino, c’è un episodio che riguarda anche mio padre Umberto. Nell’immediato dopoguerra aveva trovato lavoro come perito elettrotecnico nella ditta C.I.M.E. a Milano, fondata dal cremonese ing. Bianchi, in cui lavorava anche qualche altro cremonese. Per un po’ di anni si fermò a Milano tutta la settimana, solo in seguito, migliorato il collegamento ferroviario, riuscì a ritagliarsi una comparsa infrasettimanale a casa. Ebbene nei primi anni, la sera del Giovedì santo, lui e qualche altro collega cremonese – tra tutti nominava sempre Egidio Gandolfi, col quale nel 1973 fondò la ditta ETA in via Sabotino, insieme a Livio Peruzzi – per mantenere viva la nostra tradizione cittadina, si organizzavano per compiere in Milano il giro dei “sette sepolcri”, come allora veniva detto. Sta di fatto che per questo gruppetto di pii giovani cremonesi non era infrequente lungo il trasferimento da una chiesa all’altra, far devota visita anche a qualche osteria. Mio padre mi rassicurava sul fatto che ad ogni sepolcro non corrispondeva rigorosamente una sosta di diverso ordine “spirituale”, però ammetteva che in quell’itinerario parallelo non era prevista un'unica “meditazione”…
Gran finale. Èl nòono Cariàn, al secolo Odoardo, nonché padre del nòono Ètore, il mio nonno paterno, trasferitosi da Porotto di Ferrara nel cremonese come ferroviere, oltre che il manovale, faceva il casellante al Vho di Piadena, al passaggio a livello che ancora oggi è presente sulla strada che porta a San Lorenzo Guazzone; un compito svolto in realtà per buona parte dalla moglie Emilia Moggi. Ora, io non ho presente se nel frattempo si sia modificata la situazione, però il racconto di famiglia attesta che ai primi del ‘900 il binario era collocato su un livello più alto rispetto allo “stradòon” che attraversa tutta Piadena e il Vho e che la stradina per San Lorenzo iniziasse a salire non gradualmente ma con uno strappo solo in prossimità del passaggio a livello. In casa mia si tramanda come èl nòono Cariàn per favorire un commerciante di uva e di vino, si fosse per gentilezza con lui accordato di segnalargli il momento opportuno per affrontare la salitella col carro trainato dal suo cavallo. Nell’imminente necessità di abbassare le sbarre, gli avrebbe fatto segno di fermarsi prima della salitella stessa, così da non fare affaticare il cavallo nel tenere da fermo in tiro il carico in pendenza. E così fu per molto tempo, la nonna Emilia, più frequentemente di lui, gli faceva questo semplice piacere. Venne il momento in cui questo commerciante sentì il bisogno di sdebitarsi in qualche modo nei confronti dei due casellanti e in un suo transito in cui vide al casello il mio bisnonno, si fermò per invitarlo ufficialmente a visitare la sua fornita cantina, a fare qualche assaggio, un pretesto per scambiare soprattutto un po’ di vedute con una persona che nei suoi confronti si era manifestata essere in gamba nel proporgli quell’utile accordo.
Odoardo ringraziò con modestia sia per la considerazione che per l’invito, accettato con medesima modestia. Comunicata la notizia alla moglie, le diede l’ordine tassativo di preparare pasta con abbondanti acciughe a pranzo e a cena nei tre giorni precedenti l’invito. Inoltre: poca acqua e niente vino. E in questa condizione èl nòono Cariàn si presentò all’appuntamento in cantina di primo pomeriggio. “Vede, Cariàn, qui tengo i vini rossi…”, “Ah, bene, questo che tipo è…?”, “Glielo faccio assaggiare…”, “Ma Cariàn, mi interessava conoscere le sue vedute su questa questione, e su quest’altra…”, “Ma i bianchi dove sono?”, “Vuole assaggiare anche questi…?”, “Certo, però prima torniamo su quel rosso lì che non mi ha convinto…”, “Ma lei Cariàn come la vede su quest’altra faccenda…?”, “Le dico subito, intanto mi faccia assaggiare quello di cui mi parlava prima…”. Mio padre mi raccontò che suo padre a sua volta gli raccontò che la visita del nòono Cariàn alla cantina si concluse a sera inoltrata. E al momento dei saluti il commerciante congedò il visitatore con queste icastiche parole che in famiglia vengono trasmesse in dialetto: “Cariàn, l’è ‘n brav’òm. Però l’àn che vèen pütòst fùm le scàarpe a töta la famìiglia, ma lüü chi dèenter èl ghe mèt pö pée”. Non sappiamo di preciso quanto èl nòono Cariàn corrispose al desiderio di un confronto del suo interlocutore, se fu di ristrette o di ampie vedute: quel che è certo è che fu piuttosto di ampie bevute.
Nelle foto di Ezio Quiresi la cantina di una vecchia Osteria (da Quinto a Picenengo) e avventori in osteria
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commenti
Lilluccio Bartoli
23 settembre 2024 10:43
Racconto madido di vino, letto tutto d'un sorso. Nonni cosi vanno protetti dal WWF, nipoti così dall'Unesco.
Firmato: un fotografo dalla nascita, oste subito dopo e iscritto a pieno merito alla lega antiAnalcolica.
Giancarlo
24 settembre 2024 05:41
Grazie Maurizio i racconti della tua infanzia di una Cremona e delle sue osterie che non c'è più.