Rinvenuta in Scozia la tomba di uno dei naufraghi della Arandora Star. Sulla nave, silurata dai tedeschi il 2 luglio 1940, anche cinque cremonesi che il mare non ha mai restituito
Il ritrovamento in Scozia in questi giorni della tomba di Francesco d’Inverno, uno dei naufraghi dell’Arandora Star, deportati nel 1940 a Londra perché considerati fascisti, riapre la ferita su una tragedia dimenticata di cui già il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva sollecitato il ricordo in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’affondamento. La nave britannica, carica di internati destinati alla deportazione in Canada, venne silurata da un sommergibile tedesco il 2 luglio 1940, provocando l’annegamento di 865 persone, di cui 446 immigrati italiani, presenti in Inghilterra anche da tempo, ma definiti indesiderati dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Il 16 agosto 1940 un pastore di Colonsay, un’isola delle Ebridi trovò sulla spiaggia di Eilean nan Ron un corpo restituito dal mare. Era quello di Giuseppe Delgrosso, identificato grazie alla sigla stampata sull’abito: “14700 G. Delgrosso”. Nato a Borgotaro nel 1889, come tanti italiani era partito anni prima dal suo borgo sull’Appennino parmense per stabilirsi a Hamilton, una piccola città nel sud della Scozia, insieme con la moglie e i tre figli. E al pari dei suoi compagni di sventura, Delgrosso non era affatto diventato un potenziale nemico per la Gran Bretagna. Anzi, si sentiva parte di quella terra che lo aveva accolto, prima che i venti di guerra incattivissero gli animi falsando la realtà. Tra gli innocenti che persero la vita quel giorno vi furono anche cinque cremonesi, che il mare non ha mai restituito. Si chiamavano Carlo Bissolotti, di Soresina; Ettore Feraboli di Pessina cremonese; Gaetano Fracassi di Pescarolo; Battista Piloni di Crema e Patrocco Ribaldi di Cremona. Di Bissolotti e Rivaldi si hanno poche notizie, si conosce solo la loro provenienza e la loro età, rispettivamente 40 e 61 anni al momento del loro arresto a Londra. Ettore Feraboli era nato nel 1885 a Pessina Cremonese ed era emigrato a Londra da giovane, dove era diventato uno stimato insegnante di violino, si era sposato con una giovane fiorentina, Tina Morini, anche lei musicista, ed avevano un figlia, Graziella, che nel 1940 era adolescente. Maria Serena Balestracci in “Arandora Star-Una tragedia dimenticata” (ed. Il Corriere Apuano, Pontremoli, 2002) racconta come le due donne furono informate della fine del loro congiunto: «A Londra, presso gli uffici del War Office, ubicati nei pressi di Victoria Station, nell'imponente edificio in mattoni rossi di nome Hobart House. Lì si recarono più volte Tina e Graziella Feraboli in cerca di notizie. Al terzo tentativo, le due donne si trovarono in fila con tante altre italiane, di varia estrazione, tutte in ansia. Durante l'attesa, piuttosto lunga, le donne si scambiarono notizie, supposizioni, speranze. Poi finalmente, famiglia dopo famiglia, vennero ammesse in un ufficio. Un funzionario, seduto ad una scrivania, consultava un elenco e chiedeva il nome o il numero del prigioniero. Racconta Graziella: “Ci chiese il nome e il numero dell'internato, consultò l'elenco e freddamente disse: 'Ettore Feraboli, n. 58123: missing, presumed drowned'”. Il funzionario non ebbe altro da aggiungere, ma la giovane Graziella, dopo un attimo di disorientamento, perse il controllo: “In quel momento mi sono sentita ribellare. Con tutta la rabbia che un'adolescente può provare alla notizia che il padre era scomparso, mi scagliai contro il funzionario. ‘Che cosa vuol dire questo? Che mio padre è annegato?’ gridai. ‘Lo avete ucciso voi! Perché lo avete fatto?’ Mia madre mi trascinò per un braccio. Fuori si assisteva a scene di disperazione: qualcuno inveiva, una sveniva, altre piangevano”. A settembre avrebbe avuto inizio il bombardamento a tappeto di Londra, e le due donne Feraboli, rimaste sole, avrebbero affrontato l’e- mergenza con l’aggravante di essere ‘straniere’: la polizia locale aveva imposto loro un coprifuoco, negando così l’accesso ai rifugi pubblici durante i bombardamenti notturni».
Gaetano Fracassi, invece, era un sacerdote, nato a Pescarolo il 18 aprile 1876 ed esercitava il suo ministero presso la comunità italiana di Manchester. Non aveva mai partecipato alla vita politica, però si era espresso criticamente nei confronti di Mussolini e dell'entrata in guerra dell'Italia. Viveva in ristrettezze e per questo aveva affittato un locale della parrocchia ad un gruppo di tesserati fascisti e tanto bastò perchè fosse fosse arrestato ed internato in un campo di concentramento nonostante l'età avanzata, tra le proteste della comunità italiana e dello stesso vescovo cattolico di Machester. Secondo le testimonianze raccolte tra alcuni sopravvissuti, mentre la nave stava per colare a picco, fu visto, in piedi sui piani più alti che qualcuno aveva aiutato a salire, impartire l'assoluzione e la benedizione ad uno ad uno agli uomini in preda alla disperazione. Chiuso il libro di preghiere, rimase da solo ad attendere sul ponte.
Battista Piloni era nato ad Ombriano il 24 maggio 1897, ultimo di sei fratelli. Nel 1936, con la moglie Francesca Carioni e i suoi quattro figli, insieme ai suoi vicini di casa, la famiglia Cattaneo, era emigrato a Croydon, un sobborgo a sud-est di Londra, trovando lavoro in una fabbrica di bottoni. All'approssimarsi della guerra i Cattaneo, temendo il peggio, nel 1939 erano rientrati in Italia, mentre Battista aveva preferito restare in Inghilterra. Fu rastrellato dopo il 10 giugno 1940 ed imbarcato successivamente sull'Arandona Star. I parenti di Ombriano non ricevettero altre notizie, se non che era morto annegato. Nonostante tutto Francesca e i figli, che nel frattempo erano divenuti cinque, decisero di restare in Inghilterra, dove ormai si erano inseriti, al punto che due figlie, Paolina e Gilda, ebbero persino un momento di celebrità alla TV inglese come cantanti facenti parte di un trio femminile di musica leggera.
A venti giorni di distanza dall'affondamento della nave, la notte del 22 luglio 1940, un pescatore che stava issando le reti intorno all'isola di Owey sul peschereggio comandato da Mickey O’Donnel, vide qualcosa galleggiare sulla quieta superficie del mare. Appena fu possibile, sul far del giorno l'equipaggio si avvicinò al misterioso oggetto, per scoprire che si trattava di una scialuppa di salvataggio che appena affiorava dall'acqua. Gli uomini cercarono di svuotare la lancia dall’acqua, senza riuscirci; decisero quindi di trainarla a riva e O’Donnel e i suoi uomini tirarono in secca la scialuppa, e scoprirono che lo scafo era bucato da fori di proiettili, mentre alcuni bossoli giacevano sul fondo. Ispezionando bene il relitto, i marinai si accorsero che qualcuno aveva disperatamente cercato di evitare l’affondamento, chiudendo i buchi con pezzi di stoffa, sui quali furono trovate anche tracce di sangue. Sullo scafo recuperato era scritto il nome Arandora Star, la più lussuosa nave da crociera britannica, che dal 1927 per una dozzina d’anni aveva trasportato l’upper class del Regno Unito in viaggi di piacere tra le colonie esotiche di Sua Maestà: Sud Africa, Giava, Malesia, Ceylon, India, Egitto. Poi nel 1939 la Marina britannica l'aveva ridipinta ed attrezzata per il trasporto prigionieri collocando filo spinato nei punti cruciali e armandola con cannoni.
Churchill aveva ordinato di catturate tutti i maschi italiani tra i 16 e i 70 anni. Sulla base di liste compilate dai servizi segreti britannici, già dall’11 giugno si incominciò ad arrestare i poveri italiani, tra lo stupore degli stessi, la costernazione dei familiari e l’imbarazzo dei gendarmi, che ben conoscevano quelle persone e sapevano che era gente onesta e pacifica. Si procedette in modo affrettato e approssimativo, portando via gli iscritti al partito fascista, ma anche tantissimi senza appartenenza politica o addirittura antifascisti e altri individui scappati in Inghilterra per sottrarsi alle persecuzioni razziali e ai campi di concentramento. L’obiettivo di Churchill era la deportazione dei prigionieri stranieri nelle colonie britanniche, in Canada e Australia, in previsione della scarsità di cibo che avrebbe provocato la guerra, lontano dal Regno Unito, per renderli ancora più inoffensivi. Gli arrestati furono dapprima internati in campi di detenzione provvisori. Tristemente noto per le disastrose condizioni in cui versava fu Camp Bury, nel Lancashire. Alle 4 del mattino del 1° luglio 1940, l’Arandora Star salpò da Liverpool, diretta in Canada, con a bordo 712 italiani e 478 tedeschi, oltre a 374 inglesi, tra militari di scorta ed equipaggio. Solo 86 dei deportati erano prigionieri di guerra, gli altri erano tutti civili tra i 16 e i 75 anni d’età. La nave, sulla quale fu stipato un numero di persone tre volte superiore alla sua capienza, era stata inspiegabilmente ridipinta di grigio, e non portava alcun segnale di riconoscimento sulla natura non bellica della propria missione. Rotoli di filo spinato impedivano l’accesso alle scialuppe di salvataggio, peraltro ampiamente insufficienti ad ospitare tutti i passeggeri in caso di naufragio.
Alle sette del mattino del 2 luglio, quando l’Arandora Star navigava ben visibile sulle acque a nord-ovest dell’Irlanda, un U-Boat tedesco lanciò il suo ultimo siluro, e la affondò. La richiesta di soccorso da parte della nave fu raccolta dal cacciatorpediniere canadese St. Laurent, che riuscì a raccogliere 850 naufraghi, all’incirca la metà delle persone presenti a bordo. Su un totale di circa 800 vittime, 470 erano italiani. Fu una tragedia della guerra, ma anche la più grande tragedia della nostra emigrazione. Il paese di Bardi nell’Appennino Parmense pagò il prezzo più caro, con le sue 48 vittime.
La storia della scialuppa recuperata dai pescatori di Owey è drammatica, perché sarebbe, secondo alcune fonti, la testimonianza che i militari britannici spararono contro quei prigionieri che erano riusciti a mettersi in salvo, per evitare una possibile fuga. I superstiti, riportati a Liverpool, furono imbarcati sulla nave Dunera e, una settimana dopo il naufragio, spediti in Australia dove furono detenuti sino alla fine del conflitto. Non tutti i morti ebbero sepoltura. Molti furono inghiottiti dall’oceano, altri furono ributtati sui litorali dell’Irlanda e della Scozia e riposano nei cimiteri di quei paesi. In particolare gli abitanti di Colonsay, nelle Ebridi, ancor oggi custodiscono con amore i corpi di coloro che il mare restituì alle spiagge di sabbia della loro piccola isola. Come se non bastasse la rimozione della tragedia dalla memoria delle nazioni coinvolte ed il silenzio colpevole delle istituzioni inglesi, tedesche e italiane che non vollero mai ammettere di aver mandato inutilmente a morte centinaia di persone innocenti, ai parenti delle vittime dell’Arandora Star non è mai stata riconosciuta alcuna forma di risarcimento.
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