San Valentino, festa degli innamorati. Il suo corpo potrebbe essere conservato nella cappella delle reliquie in Cattedrale (ma ce ne sono anche altri sparsi in tutta Italia)
Nella cappella delle reliquie della Cattedrale di Cremona, ogni anno il 14 febbraio, si venera un "corpo santo" autenticato dal cardinale Gaspare Carpegna, vicario di cinque papi dal 1670 al 1714, uomo di scienza e mecenate: una reliquia traslata dalla chiesa cittadina di san Francesco d'Assisi alla cattedrale nel 1777, attribuita a San Valentino. Peccato che il nostro cardinale non si facesse scrupolo nell’autenticare un numero imprecisato di reliquie a chiunque glielo chiedesse. Un altro teschio di San Valentino si trova a Roma nella chiesa di Santa Maria in Cosmedin (dove è stata posizionata anche la Bocca della Verità). Il teschio apparterrebbe in realtà ad un altro Valentino, un omonimo, a quello che l’archeologia definisce “corpo santo”. E’ una questione abbastanza confusa perché di San Valentino ce ne sono stati per lo meno due, o forse tre, e reliquie di questo santo ce ne sono moltissime, sparse in diversi luoghi del mondo, oltre alle spoglie del corpo intero di San Valentino vescovo di Terni. Anche che in Calabria, nel meraviglioso borgo di Belvedere Marittimo paese della costa tirrenica, si conservano nel Convento dei Frati Cappuccini le reliquie del Santo più noto tra gli innamorati. Altri san “Valentini” sono conservati nella chiesa parrocchiale di San Vito, sulla collina di Torino, a Rovereto, a Sassocorvaro nelle Marche. Fu il papa Gelasio I nel 496 ad istituire la festa il 14 febbraio, il giorno prima, cioè dei Lupercalia per confinarne l'importanza in secondo piano. La scelta cadde su Valentino, nato a Terni da una nobile famiglia, convertitosi al cristianesimo e divenuto vescovo poco più che ventenne. Fu arrestato in seguito, sotto Aureliano, e quindi decapitato il 14 febbraio del 273. Valentino dedicò la vita alla comunità cristiana e alla città di Terni dove infuriavano le persecuzioni contro i seguaci di Gesù. Fu consacrato vescovo della città nel 197 dal Papa San Feliciano, poi divenne il protettore dell’amore in tutto il mondo. Secondo un’altra leggenda Valentino sarebbe stato invece giustiziato per aver celebrato un matrimonio vietato dalla legge vigente: quello tra una donna cristiana, di nome Serapia, ed un legionario romano, di nome Sabino. Lei sarebbe stata malata di tisi e innamorata, e il vescovo avrebbe acconsentito a battezzare il romano per poterli unire in matrimonio, ma per le drammatiche circostanze di salute la sposa morì subito dopo la benedizione e il centurione di crepacuore subito dopo. Il vescovo Valentino era solito incoraggiare gli innamorati e spronarli al romanticismo, tanto da accoglierli per redimere le dispute, regalando loro una rosa rossa da stringere insieme per il gambo, pregando per la durata del loro amore: da qui la trazione leggendaria di regalare rose rosse. Fu così che egli divenne il santo protettore degli innamorati. La tradizione vuole che un giorno San Valentino sentì passare, vicino al suo giardino, due giovani fidanzati che stavano litigando. Allora gli andò incontro con in mano una rosa che regalò loro, pregandoli di riconciliarsi stringendo insieme il gambo della stessa, facendo attenzione a non pungersi e pregando affinché il Signore mantenesse vivo in eterno il loro amore. Qualche tempo dopo la coppia gli chiese la benedizione del loro matrimonio. Quando la storia si diffuse, molti decisero di andare in pellegrinaggio dal vescovo di Terni il 14 di ogni mese, il giorno dedicato alle benedizioni. Poi la data è stata ristretta solo a febbraio, perché in quel giorno del 273 San Valentino morì.
In tutto negli antichi documenti si trova traccia di tre diversi San Valentino collegati al 14 febbraio e non è chiaro se siano tre persone distinte, oppure racconti differenti della vita della stessa persona. Ad ogni buon conto, uno di questi santi era nato a Terni, una città di cui era poi divenuto vescovo. Un altro era un sacerdote romano e un terzo infine era un vescovo della provincia romana d’Africa. San Valentino rimase un santo tutto sommato poco interessante fino al basso medioevo, quando Geoffrey Chaucer scrisse di “antiche leggende” (probabilmente inventate da lui stesso) in cui San Valentino veniva associato a racconti che avevano a che fare con amanti o altri fatti amorosi. Insomma, Chaucer recuperava San Valentino, o almeno questa è la teoria più diffusa, per trasformarlo nel santo dell’amor cortese che proprio in quegli anni cominciava a diffondersi tra l’aristocrazia europea. A quel punto storie e leggende sugli atti di San Valentino a favore degli amanti si moltiplicarono. Grazie a Chaucher questa tradizione è rimasta legata soprattutto al mondo anglosassone. Dal Regno Unito è arrivata negli Stati Uniti, dove nel corso dei secoli è stata istituzionalizzata e commercializzata, fino a far sparire quasi completamente la figura del misterioso santo e lasciare tutto il resto.
Perché tutta questa frenetica ricerca nel dare un nome ed un volto al santo? C'è una ricorrenza pagana, ed una delle più imbarazzanti ed osteggiate dalla Chiesa, all'origine della festa degli innamorati di San Valentino, il 14 febbraio. In questo, come in altri casi, il cristianesimo ha voluto sovrapporre la ricorrenza di un santo martire ad un antichissimo rito della fertilità che si celebrava a Roma, ma che aveva radici certamente più antiche nella mitologia celtica e greca. Il 15 febbraio si celebravano nell'antica Roma i Lupercalia, presso la grotta sacra alle pendici del Palatino, chiamato il Lupercale che secondo la leggenda della fondazione di Roma avrebbe ospitato la mitica Lupa e i gemelli Romolo e Remo. Secondo la leggenda Evandro, figlio del dio Mercurio e della ninfa Carmenta, giunto sulle coste del Lazio dalla greca Arcadia sbarcò dove oggi è Santa Anastasia al Circo Massimo nel 1253 a.C. e venne ospitato da Fauno Luperco ed Evandro in una grotta ai piedi del colle Palatino dedicò un santuario a questa divinità dei Latini, discendente da Marte, con natura umana, lupina e caprina. Fauno Luperco era una divinità oracolare dal carattere disordinato e selvaggio, invocato a protezione di campi, selve e pastori, che finì per essere identificato con Pan, il dio raffigurato nell’arte come Fauno, con tanto di corna e zoccoli di capra. Cinque secoli dopo Amulio, fratello di Ascanio, il fondatore della città di Alba Longa, costrinse la figlia Rea Silvia a diventare vestale e a fare voto di castità, temendo un oracolo secondo cui i suoi figli avrebbero potuto un giorno spodestarlo dal trono. Ma il dio Marte, invaghito della fanciulla, la rese madre di due gemelli, Romolo e Remo. Amulio allora ordinò che venissero uccisi, ma il servo incaricato, non trovando il coraggio di obbedire, li abbandonò alla corrente del Tevere. La cesta contenente i gemelli si arenò sulla riva del fiume, presso la palude del Velabro, più o meno tra i colli Palatino e Campidoglio, vicina al Circo Massimo, dove Romolo e Remo verranno trovati, salvati e allevati dalla famosa lupa. È qui, nella grotta poi chiamata Lupercale, che la lupa sfamò i neonati donando loro le sue mammelle, fino a quando non vennero trovati dal pastore Faustolo che li portò in cima al Palatino, dove li allevò in una capanna con la compagna Acca Larenzia, la Madre che aveva dato alla luce i Lari dei Latini e che ora avrebbe allevato i nuovi Lari dei Romani.
Il rito dei lupercali, in onore del dio Luperco, mezzo lupo e mezzo capro, prevedeva la corsa di giovani seminudi che, coperti solo con le pelli degli animali sacrificati, colpivano con strisce di pellame le donne del Palatino per purificarle e favorire la fecondità. Il centro della festa era proprio la grotta che, narra Dionigi da Alicarnasso, contemporaneo di Augusto, si trovava ai piedi del colle e vicino al Tevere. La grotta era dunque il punto di partenza dei Lupercalia, riti di purificazione e fecondità, che venivano celebrati il 15 febbraio. La festa si svolgeva, in linea generale, così: i Luperci, giovani aristocratici identificati col Dio Lupo, o almeno suoi figli, vestiti con pelli di capra, sacrificavano nel Lupercale delle capre e un cane e offrivano le focacce preparate dalle Vestali.
Con il coltello ancora sporco del sangue del sacrificio, due giovani di alto lignaggio si bagnavano la fronte, asciugandola poi con lana intinta nel latte di capra. Quindi tagliavano le pelli delle capre in strisce per farne delle fruste, e dopo un ricco banchetto correvano probabilmente intorno al Palatino frustando chiunque incontrassero; le frustate rendevano fertili le donne e facilitavano il parto. La corsa intorno al Palatino aveva anche il significato di atto purificatorio.
Secondo altre fonti i Lupercalia deriverebbero invece dal culto di una divinità femminile: Juno Februata (ovvero Giunone purificata), invocata un tempo dalle donne in caso di febbre o per chiedere protezione durante la gravidanza, soprattutto nel critico momento del parto.
Sappiamo che questi rituali continuarono ad essere praticati anche dopo l’avvento e la diffusione del cristianesimo. A Roma, ad esempio, i Lupercalia erano ancora festeggiati nel V secolo, nonostante le accuse e i divieti mossi dal clero, comprensibilmente preoccupato dal permanere di tali usanze pagane.
Queste feste dovevano essere davvero sfrenate, al punto che non tutti le tolleravano nemmeno nell’ambito della società romana. Cicerone, ad esempio, ne dava un giudizio negativo, definendo i Lupercalia “riunioni selvagge”. Per Valerio Massimo tutto avveniva all’insegna “dell’ilarità e dell’eccesso di vino” e tuttavia i festeggiamenti avevano un loro senso, dato che ad istituirli sarebbero stati Romolo e Remo in persona, “esultanti di gioia poiché il nonno Numitore aveva loro concesso di fondare una città sul Palatino”. Ed il carattere selvaggio delle festa è confermato anche dall'etimologia del nome: Lupercalia deriva da Lupercus, e si ricollega al latino lupus (lupo), ed è strettamente legato alla cultura arcaica di tipo agropastorale.
L'origine della festa è spiegata da Ovidio, che riferisce una leggenda secondo cui al tempo di re Romolo vi sarebbe stato un prolungato periodo di sterilità nelle donne. Donne e uomini si recarono perciò in processione fino al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell'Esquilino, e qui supplicarono. Attraverso lo stormire delle fronde, la Dea rispose che le donne dovevano essere penetrate da un sacro caprone sgomentando le donne, ma un augure etrusco interpretò l'oracolo nel giusto senso sacrificando un capro e tagliando dalla sua pelle delle strisce con cui colpì la schiena delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono.
La stranezza del rituale, però, trova soprattutto origine nell'antico culto della dea Lupa, la dea Madre presso i cui templi si esercitava la ierodulia, o prostituzione sacra. Il rito italico era molto sentito nei Castelli Romani e a Roma stessa, quando era ancora agli albori. Le sacerdotesse della Dea Lupa venivano chiamate Lupe, nome che passerà poi alle prostitute profane di Roma. Poichè i templi avevano locali annessi per la prostituzione, questi locali presero il nome di Lupanare, nome usato nell'antica Roma ed anche oggi per indicare il postribolo. Poichè spesso i templi della dea sorgevano nei trivii, incroci fra tre vie, in onore della sua triplicità, essa era chiamata Trivia, ma poichè vi si esercitava la ierolulia, ne derivò poi l'aggettivo di "triviale" con un certo disprezzo. Nel passaggio da una società matriarcale ad una patriarcale vennero dimenticati gli antichi Lupercali dove, nella zona dei Castelli Romani, le sacerdotesse, vestite di sola pelle di lupo ululavano nei templi, praticando la prostituzione sacra, ei Il rito dei lupercali passò quindi a una divinità maschile, non capro nè lupo, il Dio Luperco. Il rito comunque prevedeva dunque la corsa di giovani seminudi, col volto coperto di fango, e con pelli di caprone, che colpivano con strisce di pellame le donne del Palatino: per purificarle e per favorire la fecondità. Il centro della festa era proprio la grotta che, narra Dionigi da Alicarnasso, contemporaneo di Augusto, si trovava ai piedi del colle e vicino al Tevere.
Nelle foto: la cappella delle reliquie in Cattedrale e l'altare di San Valentino nella basilica di Terni
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