27 aprile 2022

Caterina degli Uberti, un femminicidio di cinque secoli fa

Era una notte buia e tempestosa. O almeno piovosa. Per la precisione, la notte del 3 aprile 1490, ancora agli inizi, poco prima della mezzanotte. Siamo in un bosco molto fitto, lontano dai centri abitati, a trecento metri da un’ansa fluviale, in una zona isolata e deserta. Già l’ambientazione è da gothic novel, diciamo pure da film dell’orrore. In effetti quello che accade è orrido, cruento, efferato. E non manca, come si diceva nei resoconti criminali del tempo, un’abbondante e devastante effusio sanguinis. La trama ci è stata raccontata da molti sceneggiatori, che nel corso dei secoli hanno scritto su questi fatti, anzi su questi fattacci, pagine di notevole impatto scenico. Le loro versioni non combaciano del tutto, però la vicenda di base resta quella di un vero e proprio femminicidio, come diremmo oggi, compiuto con crudeltà e ferocia. Come nella maggior parte dei femminicidi, l’assassino è il marito. Sempre i mariti. Cherchez l’homme. Anche se qui il colpevole viene subito smascherato perché la vittima sopravvive quanto basta per denunciarlo, in modo molto circostanziato. Infatti può rimanere in vita per molte ore dopo l’aggressione grazie a un’intercessione molto speciale. Purtroppo l’omicida riesce a fuggire e si rende irreperibile per sempre. Una cosa che aumenta ulteriormente la drammaticità della vicenda. Insomma, è strano che, dopo oltre cinque secoli, nessun regista ci abbia ancora girato un film. Certamente, se all’epoca ci fossero stati certi programmi televisivi che trasformano in show i fatti di sangue, di questo femminicidio in tutta la penisola si sarebbe parlato a lungo. Oggi potrebbe fare notevole audience nei salotti televisivi con Gianluigi Nuzzi, Federica Sciarelli, Alessandro Meluzzi e altri simili intrattenitori mediatici sui delitti, intrighi e misteri di cronaca nera. Di sicuro, non mancherebbe di dire la sua Roberta Bruzzone. Ma vediamo bene di che cosa si tratta.

I personaggi tipici per un racconto di buona presa emotiva ci sono tutti. Il padre amorevole, Bartolomeo, deceduto pochi anni prima della vicenda. La figlia casta e pia, Caterina, giunta in età da marito. Il fratello di lei, Cristoforo, perbene e generoso, forse un poco credulo. Il ribaldo, il balosso, il furfante violento, avido e già in passato omicida, falso e ingannatore, per di più foresto, Bartolomeo pure lui di nome. Basiamoci per ora sulla Historia di Crema di Pietro da Terno del 1556, un classico citatissimo in proposito, anche se altre fonti sono discordi su qualche particolare. A Crema la famiglia degli Uberti, sul finire del Quattrocento, è illustre e agiata. Da una quarantina d’anni il governo della Serenissima comprende in Terraferma veneta l’avamposto cremasco verso ponente. Gli Uberti hanno nobiltà locale, partecipando al Consiglio municipale. Risiedono in parrocchia di San Giacomo, verso Porta Rivolta, nella zona intorno alla futura chiesa di San Giovanni Battista, oggi via Matteotti.

Morto Bartolomeo Uberti, il figlio Cristoforo, responsabile dell’accasamento della sorella Caterina, acconsente al matrimonio della fanciulla con un pretendente in apparenza costumato e irreprensibile. Munisce quindi la giovinetta della cospicua dote di settecento lire del tempo. Secondo le normative dell’epoca, il termine di versamento è di due anni dal contratto matrimoniale. Lo sposo però, dopo il matrimonio, non risiede abitualmente con la moglie ma vaga per i territori limitrofi, vizioso e scioperato, dedito a loschi affari, tanto che Caterina rimane nella casa avita degli Uberti, insieme ai suoi fratelli. Ma chi è suo marito? Bartolomeo Pederbelli (o Petrobelli), detto Contallo (o Contaglio), originario della Valle Imagna, è in realtà un omicida bandito dal territorio bergamasco e un protervo delinquente senza scrupoli, presentatosi in casa Uberti sotto le mentite spoglie di un bravo giovane timorato di Dio. A un certo punto, il perfido profittatore reclama, prima della scadenza contrattuale, la riscossione della dote. Dopo qualche tergiversazione di Cristoforo Uberti, decide di porre in essere il suo diabolico piano in danno della povera consorte. Ed è qui che inizia la parte truce della vicenda.

Ai primi di novembre, “Bertholomeo di Contallo di Valdemagna bergamascho”, dice Pietro da Terno, “a Crema venne a trovar la moglie, che nela casa de fratelli anchor era, nela porta di Rivolta nela visinanza de Conti di Offanengo; et finse di essere per gratia ala patria restituto, perché bandito era da Bergamo per homicidio, et per contentezza de parenti voler la moglie a casa sua menare. Cenato che hebbino a 3 di aprile dil anno presente 1490, la moglie a piedi et lui a cavallo fuori dila porta di Rivolta vanno; et apresso la Gesa di S.to Bertholomeo, poco dalle mura distante, tolse la moglie in groppa, a hore 23; voltigiorono a volto Crema tanto che venerono ala porta di Pianengo, dove la dirita via per Bergamo si prendeva”. Ecco l’inganno, il tranello, la trappola: vieni, cara, tutto si è risolto, il mio bando è stato ritirato, finalmente ti posso far conoscere i miei, vieni, vedrai come sono contenti.

Qualche stranezza nel racconto si nota subito. Per andare verso Bergamo, partendo oggi da via Matteotti, non si percorre tutta l’attuale via Piacenza fino a San Bartolomeo, per poi invertire la marcia e risalire fuori città in direzione opposta, fino ai bastioni settentrionali, girando poi e proseguendo verso la fine dell’attuale via Cavour (dove c’era la Porta Pianengo prima delle mura venete). Oltretutto, al tempo non c’erano sensi unici o ZTL. E si andava benissimo a cavallo dall’odierna via Matteotti sino al termine dell’odierna via Cavour in poche falcate di trotto, una cosa che ancor oggi, a cavallo, si fa in due minuti, al massimo in cinque minuti se si va al passo. Per cui, stando a Pietro da Terno, i due fanno uno stranissimo itinerario. Anche perché nel 1490 le mura venete erano state iniziate da appena due anni (l’edificazione durerà poi, con i fossati e i terrapieni, fino al 1509) e quindi non era un giro largo, come si fa oggi dovendo risalire con l’attuale viabilità, ad esempio da via Diaz, ma un vero e proprio avanti e indietro in stretto parallelo, costeggiando al ritorno la cerchia federiciana allora esistente, passando poi da Porta Pianengo fino all’attuale via Mulini, dove c’era la strada per Bergamo. Infatti la Strada Vendramina, poi divenuta il viale di Santa Maria, non esisteva ancora. Sarà creata nel 1593, su iniziativa del podestà Nicola Vendramin, anche per facilitare il percorso al santuario.

E poi, anche il modo in cui i due affrontano il viaggio è molto strano. Lui davanti a cavallo, lei dietro a piedi. Lui è ormai un poco di buono accertato e conclamato. Lei è una nobile donzella di famiglia facoltosa, a cui non mancano certo cavalcature, carrozze e cocchieri. Ma i suoi familiari la fanno partire in questo modo? Una ben strana situazione. E dopo che il marito “tolse la moglie in groppa”, sarebbero andati avanti così per tutto il viaggio, con lui in sella e lei dietro, magari seduta di traverso, fino a Bergamo, in due su un cavallo solo? Una cosa del genere si può anche fare, con una seconda persona davanti sull’arcione (l’iconografia pittorica e cinematografica non manca certo) o dietro sulla groppa dell’animale, però di solito per tratti brevi, come ad esempio nelle famose sfilate alla Feria de Abril durante la Semana Santa a Siviglia, con le giunoniche señoritas andaluse in ghingheri dietro ai loro azzimati caballeros. Oppure succede in qualche film western di ottimistica interpretazione equestre, posto che comunque, da noi nel 1490, non esistevano docili quarter horse. Oppure ancora, può succedere in caso di effettiva, assoluta (e scomodissima) emergenza. Di certo, non per portare la moglie in visita ai parenti lontani una quarantina di chilometri, a Bergamo, oppure molto più lontani, se la famiglia si trovava ancora in Valle Imagna, come sembrerebbe più probabile. Non è credibile.

Ma soprattutto, c’è la stranezza di questo viaggio notturno. In quell’epoca le strade sono spesso infestate da malfattori e tagliagole. Tutte le sere a Crema e nelle città italiane si serrano le porte, non solo per motivi di dazio. La via per Bergamo passa lungo la stretta striscia di terra che unisce come un peduncolo l’enclave cremasca al territorio bergamasco posto a settentrione. È la Strada dello Steccato, che taglia aree confinarie da sempre rifugio abituale di malfattori e ricercati dalla legge. E i due partono per un viaggio di decine di chilometri proprio alle undici di sera, col buio, invece che col chiaro, la mattina dopo? Uno stranissimo orario di partenza. E questo anche calcolando i tempi di percorrenza a cavallo, ad andature tra il passo e il trotto: vuol dire scegliere di viaggiare per quasi tutta la notte, in quelle condizioni. Per di più, piove. E siamo ai primi di aprile, quindi di notte fa ancora freddo. Viene da chiedersi come sia possibile accettare una simile situazione, contraria a ogni logica. Si può pensare che Pietro da Terno possa aver imbastito una storia mal congegnata. Ma forse sarebbe un pensiero ingeneroso verso il primo storico degno di questo nome in ambito cremasco.

Se fosse un film giallo, gli spettatori avrebbero già capito che il malvagio assassino sta per colpire, che la povera vittima non brilla per acume e prudenza, che i suoi familiari non sono dei campioni di premurosità e sollecitudine nei sui confronti. Gli spettatori penserebbero che il reprobo ha evitato apposta di farsi vedere in centro e che, invece di percorrere poche decine di metri in città, ha fatto un gran giro molto alle perse per non essere notato. Che allo scellerato basta un cavallo solo perché dopo un breve tratto di strada si sarà disfatto della vittima (anzi, un altro cavallo, condotto per la lunghina, gli sarebbe d’impiccio dopo l’omicidio). Che l’ideale per compiere il misfatto è partire alle undici di sera e arrivare sul luogo del delitto verso la mezzanotte, perché col buio le uccisioni sono meno rischiose. Poi si scappa più agevolmente, in quanto da sempre le tenebre sono amiche dei criminali. Le tracce si fanno perdere molto meglio al buio che alla luce del sole. Tuttavia, anche volendo ricorrere a tutte queste spiegazioni, nelle dinamiche di questa storia permane qualcosa di poco chiaro, di non troppo convincente. Ma forse è solo un’impressione. In ogni caso, a questo punto, siamo pronti per l’avvenimento centrale del plot: l’omicidio. Un omicidio volontario premeditato. O per dirla all’americana, nel movie language poliziesco e tribunalesco hollywoodiano, un “omicidio di primo grado”.

“Per due trati di balestra alontanato da Crema, la dirita via lassa et a mano destra verso Serio si rivolgie, per la via de Noveleti (cusì dimandata) digando ala moglie che dil falar dela via si era aveduta, che quella era più cuorta; et giunto ad uno loco dove tre vie metevano capo, non molto perho dala dirita luntano si afferma, et traversando la gamba sopra il collo dil cavallo, dismonta et ala moglie che rimasta era a cavallo, disse che anchor lei dismontasse; lei veramente pensando che marito dismuntato fusse, per qualche necessità di corpo, rispose e non ho bisogno; Bertholomeo per esequire la diabolica istigatione, cum arabiati gesti, tira la moglie da cavallo et cum voce superba gli dimanda gli anelli che haveva in dito”. Sta per iniziare lo strazio della sfortunata giovane. Ma prima è interessante notare che, entrando nel bosco del Novelletto (più o meno dove oggi c’è via del Novelletto, solo che gli alberi sono scomparsi e sono cresciuti altrettanti condomini), Caterina sembra accorgersi della strana deviazione. Tuttavia, sembrerebbe credere ingenuamente alla scusa della scorciatoia. Anche quello dell’equivoco sul “bisogno” potrebbe apparire come un esempio di ulteriore ingenuità. Oppure Caterina ha ormai capito tutto e cerca solo di prendere tempo, purtroppo inutilmente. Da notare la necessità che l’assassino ha di smontare da cavallo ruotando la gamba sul collo dell’animale, invece che nel modo solito ruotandola sulla groppa, vista la presenza della moglie dietro la sella. È un modo disinvolto (anche se poco alla Caprilli) di smontare, che ricorda certe scene western oppure talune pellicole d’azione, anche di “cappa e spada”. Dopo la scena della sottrazione degli anelli alla moglie, il film a cui stiamo assistendo diventa un vero e proprio splatter movie, per usare il gergo del cinema.

“La poverella, vedendo l’impeto del marito, le tenebre dila pluviale notte, la qualità del luoco, antivedendo la misera sorte sua, tuta tremibonda, cavati gli anelli lacrijmando gli porge alo arabiato cane; quale aligato ad un arbore il cavallo, evaginata la spada, al capo dela meschinella tira”. Inizia il massacro, è il momento del grand guignol, del truculento assassinio. “Lei per difesa il brazzo destro leva, et la mano per il colpo dal brazzo gli spicca, tenendola solamenti un puoco di pelle, et il perfido gli strazho via la pendente mano, et radopiato il colpo, quelo brazzo medesimo gli spezza, fra il gumbeto e il luoco dila mano insino ale medolle; ala terza volta più che pria arabiato, la giuntura dil gumbeto crudelmente gli taglia, et tirandoli un'altra fiata ala testa, non possendo la meschina il brazzo destro più sostenere, il sinistro al meglio che può leva, et tanto fu il colpo crudele, che a un trato il brazzo et il capo gli spezza”. I colpi poi continuano: mentre Caterina invoca l’aiuto della “gloriosa Virgine”, il marito infierisce ancora sul “lacerato corpo”, menando fendenti che le spaccano “la testa in quattro parti fino al cervello” e le spezzano “il brazzo sinistro in molti tronchi”. È una scena tremenda, con sangue dappertutto e una mano rimasta spiccata sul terreno. A furia di tirare colpi, la spada si spezza. Visto l’uso abituale di queste armi, non si doveva trattare di una lama molto valida. Anche perché la spezzatura si verifica in un punto strano, verso il tratto terminale. Fatto sta che la lama si spacca. Intanto “la meschina come morta in terra cade”. Subisce in tutto “14 mortal ferite, che ciascuna era per ridurla subito a morte”. Rottasi la spada, “il perfido, non sacio anchor di tanto male” estrae il pugnale e colpisce Caterina alle spalle, per finirla del tutto. Poi monta a cavallo, fugge nella notte “et cum veloce galoppo ala dirita via si distende”. Da questo momento, di lui si perdono le tracce.

Un esame analitico e approfondito delle lesioni provocate a Caterina degli Uberti è stato svolto in un incontro del 2 aprile 2022, organizzato a Crema dall’associazione Araldo per il ciclo “Il Sabato del Museo”, sul tema “I miracoli di Santa Maria della Croce … tra scienza e fede”. Il Vice Presidente di questa associazione, Gianattilio Puerari, Dirigente Medico di Chirurgia Generale presso l’Ospedale di Crema, è stato uno dei relatori dell’incontro e ha presentato con molta competenza una relazione veramente interessante sulle lesioni da taglio inferte a Caterina e sulle sue successive condizioni patologiche prima del decesso, anche in riferimento ai fatti seguiti all’aggressione e all’inaspettata sopravvivenza della vittima fino al momento dei conforti religiosi. In modo molto equilibrato e senza voler propendere per alcuna possibile versione dell’accaduto, in senso fideistico-miracolistico oppure in senso meramente medico-scientifico, sono stati esaminati gli effetti dei colpi vibrati con la spada e infine con il pugnale e le relative conseguenze fisiche a carico di Caterina fino al momento della sua morte. Il resto dell’incontro, con un’altra relatrice specifica, Franca Fantaguzzi, verteva invece su aspetti di diversa natura, soprattutto di carattere storico, antropologico e religioso.

Torniamo al luogo del crimine, alla crime scene, con il corpo della giovane riverso a terra, mutilato e in grave stato emorragico. Caterina, moribonda, invoca ancora la Vergine. La quale allora le si presenta “in forma di una poverella donna”. La Madonna “aparve a questa meschinella” e la conforta, le infonde forza, la fa alzare e la conduce ai margini del bosco, alla casa dei Samanni, una famiglia del posto, promettendole che la sua mano, troncata, sarebbe stata ritrovata. Poi scompare. L’intervento della Madonna inserisce nella trama l’elemento divino, soprannaturale, con funzione narrativamente soterica e risolutiva. Non proprio un Deus ex machina, diciamo una Mater Dei ex machina. Si tratta del punto di svolta fondamentale dell’intera vicenda. Sia per la sopravvivenza, per quanto breve, di Caterina, sia per la successiva serie dei miracoli che portano all’edificazione della basilica, con le numerose e rilevanti implicazioni storiche, artistiche, devozionali (e pure ludiche: i cremaschi amano le fiere e le bancarelle) conseguenti a questo intervento mariano. Riprendendo il filo della storia, in estrema sintesi e semplificando molto gli avvenimenti accaduti in seguito, dopo quella dei Samanni anche la famiglia dei Mongia, dimorante in quella zona, si prende cura di Caterina. Poi la mutilata viene portata a casa di una sua sorella maritata a un Tensini. Nel frattempo la mano troncata, come promesso dalla Madonna, dopo un primo tentativo andato a vuoto, viene ritrovata sul luogo del delitto e riportata a Caterina. L’emorragia si era già miracolosamente arrestata all’apparizione della Vergine.

La moribonda intanto è riuscita a raccontare per filo e per segno l’accaduto ai presenti e poi anche al “Giudice del Maleficio”. Il colpevole è così perseguito penalmente, anche se si è reso irreperibile e risulterà quindi impunito (è una trama in cui l’assassino se la cava, con un finale non molto edificante). Caterina è sopravvissuta fino al giorno successivo a quello dell’agguato solo per poter ricevere l’estremo sacramento. La sua sopravvivenza inaspettata, il blocco della devastante emorragia, l’aver raggiunto in quelle condizioni una casa in cui essere ricoverata, l’aver descritto i fatti “cum tale memoria et chiara loquella, come se male alcuno non havesse”, sono già, in quanto tali, dei fatti miracolosi. Ovviamente, l’intercessione della “gloriosa Virgine” spiega tutto e l’intera vicenda entra subito nel novero delle situazioni rese possibili dall’intervento divino. Solo dopo la confessione, la comunione e i riti in articulo mortis, l’emorragia riprende “in tanto profluvio di sangue”. Allora Caterina, pur essendo “cum il capo spezzato, tronchato la mano, frachassate le ossa, tagliati li nervi, cascandoli le medulle et il cervello”, riesce a spirare serenamente “dopo aver ricomendato il spirto a Dio et ala gloriosa matre”. È il giorno 4 aprile, domenica degli Ulivi. Successivamente “in Sancto Benedetto fu sepolta”. Era consuetudine inumare i defunti nelle chiese e nelle loro immediate vicinanze. Anche in Crema era una pratica diffusa, tanto che sia la Cattedrale, sia le altre chiese parrocchiali o suffraganee, come del resto i numerosi edifici conventuali presenti in città o fuori le mura, avevano spazi attigui destinati a questo scopo. Fino all’editto di Saint Cloud del 12 giugno 1804, esteso al Regno d’Italia il 5 settembre 1806, era possibile essere inumati entro le mura cittadine. Ogni tanto, pure in periodi recenti, è accaduto che si rinvenissero resti umani anche nel centro storico di Crema, in genere a seguito di lavori edili o per la sistemazione di infrastrutture civili, proprio per questa ragione. Nelle realtà urbane antiche come la nostra, i cittadini camminano su un passato fatto anche di ossa umane.

I fatti sin qui riportati e gli altri avvenimenti miracolosi avvenuti successivamente nel luogo dello scempio di Caterina degli Uberti sono stati raccontati, come si è già detto, da diversi autori. Il manoscritto della Historia di Crema di Pietro da Terno, da cui si sono richiamati in precedenza alcuni brani, ha dato origine a varie edizioni a stampa, tra le quali va innanzitutto menzionata quella, molto valida, curata da Corrado e Maria Verga, Crema 1964, per la serie dei Quaderni di Storia e d’Arte Cremasca raccolti da Corrado Verga (è il nº 3), composta e stampata in 500 esemplari numerati dalla Maestri Arti Grafiche di Milano. I brani addietro citati sono alle pagine 235-238 di questa edizione. Interessante anche la riproduzione anastatica, a cura del Lions Club Crema Host, Crema 2010, con stampa di Fantigrafica Cremona, del cosiddetto “Manoscritto 7” custodito presso la Biblioteca Comunale di Crema, contenente la trascrizione manuale dal testo originale fatta da Giuseppe Salomoni, con la convalida notarile del 1739. Tutto sommato, si può dire che la Historia di Crema di Pietro da Terno e il resoconto dei fatti contenuto nelle memorie di Stefano Coldirero (o Colderero), delle quali si farà cenno poco oltre, siano le due fonti specifiche più risalenti nel tempo, alle quali poi numerosi autori hanno attinto per le loro opere su questo argomento. E ciò senza nulla togliere agli importanti contributi di vari autori successivi, in particolare a quello di Tommaso Ronna del 1824 (vedi infra).

Dopo Pietro da Terno, va citato Alemanio Fino, che fa un riassunto dell’accaduto nella sua Historia di Crema, Raccolta per Alemanio Fino da gli Annali di M. Pietro Terni, stampata in prima edizione a Venezia nel 1566 (un’edizione molto ambita dai bibliofili cremaschi), riprendendo poi il tema nelle sue Seriane, di cui abbiamo l’edizione curata da Giovanni Solera nel 1845, e in altre sue opere meno note. Ci sono poi vari testi, a partire da quello di Antonio Figati del 1596. Due scritti ritenuti anonimi da Giuseppe Degli Agosti, in edizioni del 1686 e del 1763, sono pubblicati a sua cura nel nº 4 dei Documenti dell’Archivio Storico Diocesano di Crema, Santa Maria della Croce, Crema 2001, Libreria Editrice Buona Stampa. Esiste poi in argomento un’opera di Antonio Lupis, del 1687. C’è il racconto storico di Fra Mattia di Gesù Maria, del 1705. Sembrerebbero invece scomparse le memorie inedite di Fra Isidoro di Santa Teresa, all’incirca del 1749. Di questa vicenda trattano pure Cesare Tintori, Antonio Codazzi, Ugone Cassani e altri ancora, in modo più o meno diffuso. Non mancano alcuni altri testi anonimi, di varia estensione. Cenni si trovano anche nella Storia di Crema di Bartolomeo Bettoni, il cui testo manoscritto è stato edito a stampa a cura della Società Storica Cremasca, Crema 2014, Grafin Azienda Grafica. Si deve però attendere Tommaso Ronna (1767-1828), vescovo di Crema, per avere in proposito un’opera ampia e approfondita, con in allegato documenti di sicuro interesse, Storia della Chiesa di Santa Maria della Croce, Milano 1824, Tipografia e Libreria Manini. La ricostruzione dei fatti è svolta in modo accurato e rigoroso, con alla base una ricerca nelle fonti d’archivio che può dirsi a tutt’oggi insuperata. Da questo lavoro derivano, in buona sostanza e nei loro principali contenuti, le varie opere pubblicate sull’argomento nei due secoli successivi.

Tra i vari allegati al citato testo di Tommaso Ronna, il “Documento I” è la lettera di Andrea Robati, vicario del vescovo di Piacenza, scritta il 19 maggio 1490 allo stesso vescovo Fabrizio Marliani, nella quale si fornisce la notizia del primo dei miracoli avvenuti sul luogo del crimine, in data 3 maggio 1490. La lettera è in latino. Il “Documento II” è un estratto dalle memorie di Stefano Coldirero (o Colderero), con un resoconto coevo e piuttosto puntuale di quegli avvenimenti, sia della vicenda dell’assassinio di Caterina degli Uberti, sia dei successivi miracoli collegati al luogo dell’aggressione. Lo scritto è in lingua italiana, fornisce alcune notizie in più su quei fatti rispetto alla Historia di Crema di Pietro da Terno e rappresenta quindi un testo di notevole rilevanza. Ci sono anche taluni particolari e alcune riflessioni che porterebbero a discostarsi da certi aspetti facenti parte dell’esposizione di Pietro da Terno. In fondo a questo allegato esiste un appunto, presumibilmente di Antonio Codazzi: “N.B. La presente fu fatta da altra genuina Copia esistente presso il M.to RR. PP. Carmelitani Scalzi del Convento di S. Maria della Croce. Codazzi”. Il “Documento III” riporta dei “Frammenti degli Annali di Crema di Messer Pietro Terni” e nel “Documento “IV” è contenuta, in latino, la sentenza criminale in contumacia contro l’omicida. Seguono altri undici allegati (in tutto sono quindici), pure di grande interesse. Alcuni di essi riguardano dei documenti originali contenuti nei Registri delle provvisioni e parti della comunità di Crema sotto il dominio veneto, I-XXV, 1449-1586, che sono consultabili (a determinate condizioni) presso l’Archivio Storico Comunale di Crema.

Nel racconto della nostra storia, fermiamoci per ora qui, al momento della sepoltura di Caterina degli Uberti nella chiesa di San Benedetto a Crema, il 4 aprile 1490. Sappiamo che seguiranno, quasi da subito, molti miracoli e che verrà quindi costruita la basilica di Santa Maria della Croce sul luogo del delitto. Per motivi di spazio, non è possibile trattare ora in questa sede di tali importanti avvenimenti. Questa successiva parte della storia merita un testo a parte, una seconda puntata, che farà presto seguito a questo articolo. Anche per quanto riguarda gli autori che si sono occupati di tale vicenda, sia dell’omicidio di Caterina, sia dei successivi miracoli e dell’edificazione della basilica, fermiamoci alla pubblicazione di Tommaso Ronna, avvenuta circa duecento anni fa. A partire da allora, non pochi sono stati coloro che hanno voluto scrivere su questo tema, cimentandosi con l’argomento nel corso degli ultimi due secoli. Anche di loro si darà conto nell’articolo successivo. Inoltre, rimangono alcuni aspetti che potrebbero, più in generale, riguardo all’intera storia raccontata, essere oggetto di qualche considerazione aggiuntiva. Ad esempio, in merito al movente dell’omicidio. Che in realtà, a ben vedere, non è proprio chiarissimo, per lo meno seguendo l’ipotesi della premeditazione e non quella del raptus improvviso. Per non parlare, come si è già detto, di alcune circostanze di reato riferite alla fattispecie criminosa, forse risolte più sul piano devozionale mariano che su quello giuridico penalistico. Inoltre, che fine hanno fatto le spoglie di Caterina? Trattandosi dei resti mortali di un personaggio così rilevante da essere all’origine dell’edificazione di una basilica di tale importanza per Crema, non si comprende come sia stato possibile perderne ogni traccia, senza farsi troppi problemi, da parte dei cittadini cremaschi. Comunque, anche per questi aspetti, si fa rinvio a un articolo successivo. Per ora, lasciamo il bosco del Novelletto, fitto e selvaggio, come era in quei primi giorni di aprile. C’è solo una croce, una rudimentale croce di legno, piantata nel terreno, sulla scena del crimine.

Nelle foto, cinque immagini della vicenda di Caterina degli Uberti, tratte da una serie di stampe del 1839. 

 

Pietro Martini


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti