8 marzo 2021

Dante e le donne: lezioni di delicatezza

Quando pensiamo alle donne di Dante non è facile farsi un’idea della complessità dell’argomento, difficile da trattare adeguatamente persino nello spazio d’una monografia critica (com’è riuscito magistralmente al professor Marco Santagata nella sua ultima, e purtroppo postuma, fatica): e non solamente perché il numero delle donne che segnò la vita del poeta andò ben oltre l’«angiola giovanissima» celebrata già nella Vita Nova. Nonostante Mandel’štam abbia descritto i versi danteschi come «proiettili che esigono un commento futuro», un classico è anche figlio del proprio tempo, ne reca tracce ineliminabili: non c’è attualità che non si costituisca dentro la consapevolezza di una distanza. Ed una distanza siderale intercorre tra l’odierna concezione della donna e quella del XIII secolo. Dante sposò Gemma Donati, che con la propria dote contribuì al mantenimento dei figli ed all’attività letteraria del poeta; e con la propria tempra eccezionale amministrò i beni di famiglia durante l’esilio del marito, preservando inoltre sette canti della Commedia iniziati prima del 1302. Eppure ella non trovò mai posto nelle opere del Sommo Poeta (se si esclude la debole ipotesi che leggerebbe un velato ammiccamento in filigrana alla «gemma» di Pia de’ Tolomei). Ma sarebbe anacronistico accusare Dante di scarsa sensibilità, prescindendo dal residuo di indecifrabilità che ogni visione del passato porta con sé: Dante è uomo del proprio tempo, ancora lontano da quella Dichiarazione universale che nel 1789 avrebbe sancito la sostanziale uguaglianza delle persone (uomini e donne); come lontani erano i diritti sanciti oggi dagli articoli 4, 29 e 51 della Costituzione. Non si può pertanto prescindere dai condizionamenti politici ed economici che, nel Duecento, guidavano le dinamiche matrimoniali e familiari.

E tuttavia proprio Dante mostra una vibrante umanità verso le figure femminili che costellano la sua letteratura (nonostante talvolta le veli di coloritura politica e nonostante anch’egli distingua tra «donne gentili» e «donnicciole»). Non è il caso di riproporre per l’ennesima volta l’ormai ben nota e sublime immagine della donna angelicata che innalza l’anima del poeta alla contemplazione del cielo e di Dio. Vorremmo qui concentrarci piuttosto su un aspetto dell’analisi letteraria che sta inesorabilmente scemando (soprattutto nella prassi didattica) sotto i colpi della “società della fretta”, del riassunto frettoloso, della mappa concettuale. Un aspetto che esige raccoglimento, attenzione, lentezza, concentrazione: l’importanza dello stile. Non soltanto ciò che Dante ha detto delle donne, ma come lo ha detto. Francesca da Rimini, Pia de’ Tolomei o Piccarda Donati, accanto al fatto di essere presentate tutte come vittime della violenza di uomini senza scrupoli e della società del loro tempo, sono avvicinate dalla leggerezza e delicatezza con cui Dante le celebra.

L’Inferno è contraddistinto dall’intensità dello stile «aspro», eppure, quando nel canto V si arriva all’episodio di Francesca, Dante innalza improvvisamente la lingua ad una levità quasi prodigiosa. La leggerezza contraddistingue da subito la coppia che volteggia aggraziata nella violenza della bufera infernale (“paiono sì al vento esser leggieri”), ed accorre splendente come colombe in mezzo al buio (“colombe dal disio chiamate / con l’ali alzate e ferme al dolce nido”). Tutto l’episodio è trapuntato da un lessico (richiamato dalla tradizione cortese) per la maggior parte dolce e delicato: nel richiamo del poeta («affettuoso grido»), nell’umanità dell’apostrofe di Francesca «animal grazioso e benigno» (dove risuona l’antica etimologia latina di animal come «essere dotato di anima»), sino alla simmetria delle celeberrime terzine scandite dall’anafora «Amor», dove la giovane richiama il ricordo struggente dell’amore e della giovinezza sottrattele violentemente con un efferato femminicidio. Nell’ordinamento morale dell’Inferno, retto sull’Etica nicomachea di Aristotele (assieme al De officiis ciceroniano), è impensabile che la ragione possa essere dominata dal desiderio. E tuttavia la grazia dello stile rivela come Dante riesca a conciliare la rectitudo che lo obbliga alla condanna con la sofferenza per la condanna stessa.

Una delicatezza straordinaria contraddistingue anche la parentesi di Pia de’ Tolomei in chiusa al V canto del Purgatorio, a cominciare dall’apostrofe rivolta con accento quasi materno al poeta («quando tu sarai tornato al mondo, e riposato della lunga via»), seguìta dall’umile e pacato invito a conservare nel mondo la sua memoria («ricordati di me, che son la Pia»). La trasparenza e la compostezza di Pia sembrano riprodursi nell’assetto cristallino dell’unico verso che sintetizza le fasi crescente e calante della sua vita («Siena mi fe’, disfecemi Maremma»): due parti perfettamente speculari (toponimo-pronome-predicato / predicato-pronome-toponimo) sostenute dal prefisso dis che funge da chiave di volta per l’intero endecasillabo. Pia è un’altra vittima fragile e diafana, contrassegnata dall’innaturale e violento distacco dell’anima dal corpo (disfecemi), nonché da una sofferenza mite e silenziosa: l’emozione delle sue parole brevi è il riflesso della violenza patita. Ma nessun rancore e nessun biasimo sembra trasparire dall’accusa nell’ultimo verso («salsi colui che ’nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma»), nel quale si può invece ravvisare il dolce ricordo di se stessa del momento delle nozze, inanellata dalla mano di colui che la strappò alla vita. Sono soltanto due esempi in mezzo ai tanti della Divina Commedia, nei quali la pesantezza della privazione sofferta trova un contrappeso nella leggerezza e compostezza dello stile. Dante descrive le vicende delle donne, parla loro, le ascolta, le fa parlare, diversamente da quelle gentildonne che nella tradizione provenzale e stilnovista restavano silenziose figure private di una propria soggettività.

E’ questa leggerezza nella quale Italo Calvino, profondo ammiratore di Dante, ha indicato una delle sei virtù in grado di farci da guida nel terzo millennio. Ed oggi, in cui non c’è purtroppo giorno che passi senza la notizia di un delitto passionale, di una storia d’amore finita in tragedia, si può sperare che la leggerezza rarefatta di certa parola dantesca, come anche la flebile voce di una Fiammetta o la nivea delicatezza del tocco che sfiora la frangia congelata della Clizia di montaliana memoria, contribuiscano almeno un poco ad infondere ciò che più sembra in noi così anestetizzato: un minimo di pura, disinteressata, sacrosanta sensibilità.

Michele Scolari


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