15 novembre 2021

Gli ebrei a Crema, il ghetto nell'attuale via Manzoni. Il cimitero nelle ortaglie dietro piazza Marconi

Entrando nei chiostri del Sant’Agostino a Crema, oggi sede del Museo, si incontra sul muro di sinistra del primo chiostro, quello posto a settentrione, una lapide molto diversa dalle altre affisse nel percorso di visita. Spiccano infatti i suoi caratteri ebraici, molto curati e chiari, che attirano subito l’occhio del visitatore.

Si tratta di una lapide funeraria, posta sulla “tomba del signore generoso Aronne Mosè figlio del fu Giacobbe Levi, sia benedetta la sua memoria”, il quale “da Brescia se ne andò al suo mondo nel giorno secondo di Capo d’Anno”. “Morì a Brescia e fu sepolto a Crema nel giorno quarto, digiuno di Ghedalyà nell’anno 351”. L’iscrizione termina con la frase “Che il suo spirito sia vincolato nel vincolo della vita. Amen”.

Dobbiamo a Maria Mayer questa traduzione dell’iscrizione e alcune notizie sulla lapide, contenute nel numero 1 di Insula Fulcheria del 1962. Il manufatto era stato rinvenuto nel 1960 presso la località Cascinetto, nella zona del Moso.

Sappiamo che nella nostra città la presenza ebraica era stata in un determinato periodo storico piuttosto significativa. E sappiamo che a Crema c’era un cimitero ebraico, riservato ai defunti israeliti, dove quindi il nostro Aronne Mosè era stato sepolto. Era morto a Brescia (“se ne andò al suo mondo” era un eufemismo diffuso nell’epigrafica funeraria giudaica) ma le sue spoglie erano state trasferite al cimitero ebraico di Crema, città nella quale probabilmente aveva interessi e forse famiglia. Secondo Maria Mayer, per capire quando fosse stato inumato bisogna tenere presente che il “Capo d’Anno” ebraico cade generalmente in settembre o in ottobre; che il “giorno quarto” è il mercoledì, perché la settimana ebraica comincia la domenica; che il “digiuno di Ghedalyà” si osserva nel terzo giorno del mese di Tishri, il primo mese dell’anno ebraico, in ricordo del principe ebreo Ghedalyà, che fu lasciato da Nabucodonosor a capo degli ebrei rimasti in Palestina e che fu poi ucciso, tanto che il digiuno è un segno di lutto per questa sua scomparsa. La data 351 va intesa come 5351, che corrisponde alla nostra data del 1590-1591, più precisamente al 1590, essendo il mese di Tishri all’inizio dell’anno ebraico.

Quanto sopra secondo l’articolo contenuto nel numero 1 di Insula Fulcheria del 1962 (pp. 57-59). La targa esplicativa posta a lato della lapide offre invece ai visitatori del Museo una versione del testo piuttosto diversa. A parte le differenze minori, dovute alle specifiche scelte lessicali nella traduzione e a qualche aggiustamento espositivo, la differenza principale, veramente fondamentale per la valutazione di questa lapide, sta nella sua datazione. Si tratterebbe dell’anno “251” e non “351”, quindi del 1490 e non del 1590. Così il testo della targa al Museo: “Il secondo giorno di tishri (mese in cui inizia l’anno ebraico) corrisponde al 17 di Settembre e la somma delle tre lettere ebraiche indicanti l’anno 251 coincide con il 1490. Tale è quindi la data di morte e sepoltura di Aronne Mosè. La lapide, da sempre considerata del 1590, sarà invece da anticipare di cent’anni, come si ricava dal calendario ebraico. Aronne Mosè morì Venerdì 17 Settembre 1490, mentre la sepoltura, nel museo ebraico di Crema, venne effettuata la domenica successiva”. Seguono brevi note sulla “comunità ebraica di notevole consistenza” presente a Crema, la menzione della revoca delle loro autorizzazioni al prestito dopo l’istituzione del Monte di Pietà nel 1496 e la frase “Gli Ebrei a Crema saranno attestati fino agli anni ’70 del Cinquecento”. A parte l’evidente refuso “museo ebraico” invece di “cimitero ebraico”, posto inoltre che vari autori attestano la fondazione del locale Monte di Pietà nel 1492 e non nel 1496, colpisce soprattutto la differenza di un secolo nella datazione. In ogni caso, se la data fosse il 1590, questa lapide sarebbe la testimonianza storica più tarda della fiorente comunità ebraica cremasca.

La presenza giudaica a Crema fu probabilmente sporadica nei secoli medioevali e non esistono tracce di una vera e propria comunità locale prima del Quattrocento, anche se la mancanza di documenti o manufatti non significa necessariamente che a Crema non vi fossero famiglie di israeliti residenti. Di sicuro, nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo si sviluppa in città una comunità ben organizzata e molto attiva.

Giuliana Albini ha studiato questo aspetto e nel 1975 ha dedicato all’argomento un articolo sul numero LIX di Nuova Rivista Storica. Altri contributi sono venuti dalla tesi di laurea di Giacomina Canidio, svolta sullo stesso tema (Pavia, a.a. 1974-75, rel. Bosisio), e dall’articolo di Michela Stifani sul numero XXXVI di Insula Fulcheria del 2006, oltre che dalla sua precedente tesi di laurea (Milano, a.a. 2003-04, rel. Albini). A questi contributi, che non sono comunque gli unici esistenti a livello locale (la presenza ebraica a Crema è stata oggetto di varie esternazioni editoriali, non sempre impeccabili), si fa riferimento per maggiori informazioni in proposito. Di sicuro, a partire dall’ultimo quarto del sedicesimo secolo, mancano le fonti d’archivio per poter considerare continuativa la presenza di una comunità strutturata e ben definita in città, anche se nei registri parrocchiali cittadini non mancano a volte tracce di cognomi riferibili a soggetti di origine israelita.

Ma chi erano gli ebrei cremaschi e da dove venivano? Sappiamo di certo che intorno a Crema si erano già insediate numerose comunità ebraiche almeno dal tredicesimo secolo: Milano, Bergamo, Brescia, Pavia ne avevano di cospicue. A Lodi le lapidi simili a quella funeraria di Crema sono almeno quattro e a Cremona, dalla seconda metà del Duecento, è attestata una presenza ebraica stabile. Un esempio rilevante è quello di Soncino, molto studiato e valorizzato, data la rilevanza delle attività di stamperia ed editoria svolte dagli israeliti in quel contesto. Tra i tanti contributi nel merito, basti citare quello di Ermete Rossi del 1991, “La Menorah nella Rocca”.

È da tempo accertata, per questa parte di alta Italia, una presenza soprattutto ashkenazita e molto meno sefardita (contrariamente a quanto avvenuto per le comunità romana, anconetana e ferrarese), causata probabilmente dalle persecuzioni nei paesi mitteleuropei, soprattutto nei principati tedeschi, attuate contro gli ebrei tra la fine del tredicesimo e l’inizio del quindicesimo secolo. Molti gruppi familiari sarebbero giunti nelle nostre contrade direttamente da quei paesi oppure passando da colonie ebraiche ashkenazite createsi nel frattempo nel bacino del Mediterraneo.

Infatti anche a Crema risultano nel Quattrocento i nominativi di banchieri ebrei provenienti da Creta (“de Candia”), oltre ad altri arrivati dalle terre germaniche (“de Alemania”). A Crema giungevano dunque soprattutto ebrei ashkenaziti, di solito ben forniti di mezzi economici e dediti in genere alle attività di prestito bancario. Dalla metà del Quattrocento e nel corso del secolo successivo, una numerosa comunità ebraica esercitava in città un rilevante ruolo finanziario e, di conseguenza, anche commerciale. Le attività di prestito a interesse comportavano notevoli guadagni, che venivano reinvestiti in lucrosi commerci e, tramite compiacenti prestanome (stanti i divieti giuridici del tempo e i rischi di eccessiva visibilità sociale), in redditizie speculazioni immobiliari.

Fin dall’epoca comunale, le varie municipalità ammettevano che gli ebrei esercitassero il prestito su pegno, anche per dare impulso alle attività economiche locali e vista la necessità di capitali, resa sempre più impellente da guerre, carestie e opere pubbliche. La Chiesa lanciava i suoi anatemi ma solo con il rafforzamento degli ordini dei frati minori (gli “zoccolanti”), i loro predicatori itineranti riuscivano nel tempo a imporre ai governi cittadini dei limiti ai prestiti erogati dai banchi di pegno israeliti. La realizzazione dei vari Monti di Pietà, a partire dalla metà del Quattrocento, era un’operazione intesa a togliere agli ebrei questo monopolio finanziario. Quando gli ebrei di una città si organizzavano in comunità strutturate, concordavano con la municipalità una “condotta”, cioè un patto scritto contenente la normativa riferita alle operazioni di prestito e spesso riguardante le modalità di convivenza tra la comunità ebraica residente e la cittadinanza locale. Questo patto ufficiale era a volte contenuto in un invito che i reggitori comunali e poi signorili rivolgevano a un gruppo di famiglie e banchieri israeliti affinché si stabilissero con i propri capitali entro le mura cittadine, per sostenere l’economia del posto attraverso il prestito di somme di denaro a determinate condizioni. Un elemento essenziale del patto di “condotta” era il tasso massimo di interesse praticabile sulle cifre prestate. Gli importi erano erogati quasi sempre su pegno, vista la maggiore difficoltà a riscuotere i crediti solo chirografari, non muniti di garanzia reale. Tutto ciò senza tenere troppo conto delle rimostranze delle autorità ecclesiastiche. Tuttavia, con l’aumento del potere degli “zoccolanti”, i loro predicatori riuscivano a volte a istigare la popolazione contro le comunità ebraiche locali, spesso con esiti tragici.

Questi esiti nefasti non si verificarono a Crema, nonostante le prediche fatte in città da Bernardino da Feltre, il frate antisemita che fu tra i responsabili del maggior numero di persone uccise nelle comunità israelitiche italiane. Bernardino, al secolo Martino Tomitano, fu uno degli istigatori del supplizio dei maggiorenti ebrei di Trento nel 1475 per la morte di Simonino, il bambino dichiarato beato nel 1588 e poi escluso da tale qualifica nel 1965 a causa dell’infondatezza dell’intera vicenda. Il Roth, nella sua storia degli ebrei italiani, riporta però che Bernardino riuscì a fomentare a Crema alcuni disordini contro gli ebrei nel 1492, indignato perché certi cremaschi erano intervenuti a dei matrimoni ebraici. Di altri incidenti le fonti storiche e d’archivio non parlano, a eccezione di un tentativo di saccheggio nel 1509, compiuto in danno di alcune famiglie della comunità ebraica cittadina.

Le notizie documentate sulla presenza di una comunità israelita a Crema sono numerose, a partire dalla data del 1447, quando la Repubblica Ambrosiana di Milano conferma le convenzioni da tempo esistenti tra gli ebrei cremaschi e la locale municipalità, soprattutto riguardo ai “prestiti di denari che da essi vengono fatti” e che “sono colà necessari”. Il Barbieri, nei suoi scritti storici, data sin dal 1408 l’esistenza di una comunità ebraica cremasca, però non fornisce prova di tale affermazione.

Nel 1449, col passaggio di Crema alla Serenissima, abbiamo un altro importante documento: nei Capitoli della resa di Crema a Venezia (16 settembre 1449, giorno di Sant’Eufemia), si dice al Capo V che “tutti gli Zudei che stanno in la dicta terra de Crema siano salvi per loro persone, et per li pegni quali hanno apresso de loro, et sia de chi se vogia, et tractati come li cittadini de Crema”. In pratica, chi attacca o molesta gli ebrei rischia punizioni esemplari. Il favore di San Marco consente alla comunità ebraica cremasca di crescere in numero e in ricchezza. Non abbiamo dati certi ma si ritiene che gli ebrei superassero a Crema le 150 unità, attestandosi nei momenti di maggior presenza a quasi 200 soggetti, un numero molto cospicuo. Possiamo rilevare dalle decisioni del General Consiglio di Crema (“Sommario delle Parti e delle Provisioni”), per quasi un secolo e mezzo, diversi atti dispositivi riguardanti questa comunità. La prima “condotta” tra gli ebrei cremaschi e il governo del Doge è del 1450. Questi “capitula haebreorum” prevedono la possibilità di interessi annui fino al 30 per cento e numerose garanzie alla comunità esistente in città. I patti hanno durata teorica decennale, con previsioni di rinnovo periodiche. Non è possibile, per limiti di spazio, diffondersi oltre sulle varie revisioni nel tempo di tali “licenze di condotta” e sulle diverse situazioni, più o meno favorevoli o sfavorevoli agli ebrei locali, verificatesi nel periodo successivo. Basti dire della diminuzione progressiva del tasso di interesse pattuito, che scese fino al 20 per cento. Come già accennato, l’istituzione a Crema del Monte di Pietà, che solo dal 1586 fu posto nel palazzo situato all’inizio dell’attuale via Verdi, portò in città delle restrizioni formali, spesso disattese nei fatti, all’esercizio del prestito su pegno da parte israelita.

Dov’era il cimitero ebraico a Crema? Diciamo prima che il Canobio, nel suo proseguimento della storia del Fino, cita un’altra lapide ebraica cremasca, di cui oggi però si sono perse le tracce. Era stata rinvenuta nel 1658 durante dei lavori “lungo il Travacone” e poi conservata nel “casino di villa oltre la fiera a San Giovanni da Arcangelo Lalio”, cioè nei pressi dell’oggi scomparsa chiesa di San Giovanni, che si innalzava nel sito dove la strada allora si biforcava per Izano e Offanengo. Si trattava di “una bellissima lapide di marmo sopra cui stava in ben formati caratteri ebrei un’iscrizione”, sempre di tipo funerario. Probabilmente, dopo la soppressione del cimitero ebraico, diverse lapidi erano andate a fare da ornamento oppure da mero supporto edilizio nelle dimore di vari proprietari locali. I citati patti del 1450 stabilivano, in un latino molto approssimativo, che “quod liceat dictis ebreis et cuilibet eorum emere campum unum sive ortum unum extra terram Creme, in districtu, pro faciende sepulturas suas”.

Grazie al ritrovamento di un atto datato 1489 da parte di Michela Stifani, nel Fondo Notarile dell’Archivio Storico Civico di Lodi (rogato dal notaio Matteo Bravio il Vecchio), sappiamo che il cimitero si trovava “extra et prope porte Pontis Furi”, quindi “extra terram Creme”, cioè fuori porta, e però nelle immediate vicinanze. Da altre indicazioni rinvenute in proposito, possiamo ipotizzare che il cimitero degli ebrei cremaschi fosse collocato grosso modo nella zona dell’attuale piazza Marconi oppure più facilmente nelle aree appena retrostanti a settentrione, rimaste fino a meno di un secolo fa coltivate “a broli, orti, closi, braide, vinee”. Una stima approssimativa della data di concessione del diritto al cimitero per gli ebrei residenti è quella del 1455.

Le mura venete furono edificate, almeno per la loro parte principale, tra il 1488 e il 1509. Il perimetro murato cittadino comprendeva quindi, al momento della concessione, su questo lato a settentrione di Crema, solo l’addizione federiciana e poco più. Per cui, l’intera zona era per l’appunto fuori le mura, “extra et prope porte Pontis Furi”. Invece risultava già inglobata da tempo nella cerchia difensiva l’altra parte abitata, più a levante, del Borgo di San Pietro. Resterebbe da considerare un aspetto: con la costruzione delle mura venete, il cimitero ebraico si sarebbe trovato dentro o fuori i nuovi bastioni? Ovviamente, dipende da dove si trovava. Più probabilmente era collocato nei terreni un poco più a settentrione dell’attuale piazza Marconi. Infatti ben difficilmente si sarebbe accettata la presenza di tale cimitero dentro la cerchia muraria allargata. Inoltre, qualche notizia sullo spostamento di questo cimitero, tra la fine del quindicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo, sarebbe probabilmente pervenuta dalle fonti d’archivio. Mancano in proposito informazioni sicure e ampio spazio d’indagine resta a chi volesse approfondire queste ricerche.

Anche a Crema quindi, come altrove, si identifica “extra civitatem” un terreno per le sepolture giudaiche (a Pavia era accaduto nel 1387 e molte città lombarde avevano seguito quell’esempio); si stabiliscono i percorsi dei cortei funebri ebraici, tali da avere il minor impatto visivo sulla collettività; si recintano “extra muros” delle zone di inumazione circondate da “campi” e “orti”, talora definiti dai cristiani “campacci” e “ortacci”, di facile accesso eppure poco frequentati. La zona di piazza Marconi e delle ortaglie retrostanti, posta a ridosso del Moso, allora molto più vicino di quanto fosse nei secoli successivi, era perfetta a questi fini. Non sappiamo quando il cimitero ebraico fu rimosso. Probabilmente dopo l’assottigliarsi della locale comunità israelitica, forse nella prima metà del diciassettesimo secolo. Anche qui, mancano notizie sicure. Sappiamo solo che nel Settecento quelle zone erano mappate senza riferimenti di tipo cimiteriale.

Quando i terreni venivano destinati a usi differenti, l’autorità israelita superstite autorizzava la rimozione delle lapidi più significative e negoziava con i nuovi proprietari condizioni specifiche, come quelle di evitare arature profonde e sbancamenti edili consistenti. Sarebbe suggestivo ipotizzare che, sotto questa parte di reticolo urbano e viario, riposino ancora i resti degli appartenenti alla comunità ebraica cremasca. Di sicuro tra loro c’era Aronne Mosè, ricordato nella lapide esposta al Museo. Per questi e altri aspetti, più in generale, si veda anche Andrea Morpurgo, “Il cimitero ebraico in Italia”, del 2012.

Una concessione che la Serenissima non fece agli ebrei cremaschi fu quella di edificare una loro sinagoga. Nel 1468, in una delle periodiche rinegoziazioni dei patti di “condotta”, oltre che sui canoni annui da versare alla municipalità e sui limiti del tasso di interesse da applicare ai prestiti, la discussione andò a vertere sulla possibilità di erigere in città una sinagoga. Alla fine, la comunità ebraica accettò condizioni economiche molto gravose in cambio della previsione di un loro tempio cittadino, da erigere comunque a proprie spese. È difficile capire che cosa sia accaduto successivamente. Fatto sta che il governo dogale di Venezia, a cui spettava la ratifica, confermò le condizioni gravose a carico degli ebrei cremaschi ma rifiutò all’ultimo l’autorizzazione a costruire la sinagoga. Una vera e propria beffa. Nel frattempo, era stato deciso l’obbligo per gli ebrei residenti di un segno distintivo da portare in pubblico, sia pure con qualche eccezione. Non risultano poi, dalla documentazione pervenuta, ulteriori tentativi della comunità locale rivolti all’edificazione di un tempio in città.

Dove risiedevano gli ebrei che abitavano a Crema? Abitavano, come prevedibile, quasi tutti in una stessa zona della città, molto centrale, corrispondente grosso modo all’attuale via Manzoni e alle sue accessioni e pertinenze edilizie. Era questo, forse sin dai primi insediamenti israeliti a Crema, il Ghetto in cui gli ebrei vivevano e tenevano le proprie botteghe di cambio e prestito e dove esercitavano le loro attività commerciali, di solito riguardanti i preziosi e i lavori di oreficeria. Anche nelle immediate vicinanze, ad esempio nell’attuale via Racchetti, dimoravano e operavano delle famiglie ebree. L’esistenza del Ghetto è attestata da varie fonti, compresa la storia di Crema del Fino. Risulta che la presenza ebraica in questa zona fosse progressivamente diminuita nel corso del Cinquecento e che nel Seicento fosse ormai minoritaria. Il Canobio abitava qui e come lui, da un certo periodo in avanti, anche altri cristiani. È comunque probabile che per diverso tempo in quest’area avessero il loro domicilio, insieme ai cristiani, gli ebrei rimasti in città e vi albergassero come ospiti i loro correligionari in visita oppure residenti a Crema per periodi limitati di tempo. Infatti, nella toponomastica cittadina la zona ha continuato a essere definita come Ghetto fino al periodo napoleonico e poco oltre.

La situazione urbanistica era molto diversa da quella attuale. I fronti delle case erano molto più ravvicinati. Non si trattava, come oggi, di una via urbana ma di un semplice passaggio ristretto, solo pedonale e non carrale. Fino al 1825 era una “stretta”, che il Racchetti, nelle sue note alla storia del Fino, definisce come “un’angusta viuzza”, che era “coperta la maggior parte, da cui né carri né carrozze potevano passare”, confermando che “entro quella aveano gli ebrei il loro ghetto”. È significativo che nell’estimo delle case del 1685 questo passaggio pedonale coperto fosse definito come Stretta degli Orefici, forse a testimonianza di qualche permanenza di famiglie israelite dedite all’attività orafa. Di sicuro, chi vi teneva bottega trattava in metalli preziosi. In una mappa di Crema del 1813 del Bellati, l’area veniva ancora definita come Ghetto. Nel Sommarione dell’ing. Massari del 1814, questo passaggio tra la piazza del Duomo e le attuali Quattro Vie era censito ai mappali 447 e 449, senza indicazione viaria.

Nel 1823 la municipalità deliberava l’ampliamento e il risanamento della strettoia e una perizia del Massari proponeva le necessarie opere di acquisto di fabbricati, abbattimento, ricostruzione facciate, tombinatura e selciatura. Interessante la mappa disegnata dallo stesso Massari in quegli anni, in cui sono rappresentate le tredici botteghe e le abitazioni a tre piani che si affacciavano sui due lati del passaggio, che sarebbe risultato di un’ampiezza pari a “due braccia milanesi”, cioè a circa un metro e venti centimetri (un braccio milanese = cm 59,5). Nel 1825 l’operazione urbanistica era compiuta, dell’antico Ghetto non restava più alcuna traccia e la nuova via cittadina, ampia e ariosa, veniva definita come Contrada degli Orefici. In realtà, nel corso del diciannovesimo secolo, delle sette originarie botteghe di oreficeria ne rimasero solo due, quelle di Soldati e di Gorla. Poi, nel Novecento, ne rimase solo una, la prima. Che passò da un titolare all’altro: in successione, Baldini, Bacchetta, Maccalli e infine Perolini. Oggi anche di questa attività non resta traccia. Nel frattempo, fin dal maggio del 1873, la via aveva cambiato nome ed era stata intitolata ad Alessandro Manzoni, spentosi in quel mese. Una denominazione che questa via conserva ancora oggi.

L’attuale via Racchetti, dove pure abitavano alcune famiglie ebree, era denominata nell’estimo delle case del 1685 come Canton della Piazza ed era l’unica via di comunicazione tra la piazza del Duomo e l’asse viario della Contrada del Ghirlo. Dai primi del Settecento prendeva la denominazione di via del Cimarosto, da Antonio Cimarosto, un condottiero di origini calabresi a cui la municipalità aveva concesso la cittadinanza nel 1461. Nel Sommarione dell’ing. Massari del 1814, questa via di transito era ancora definita Contrada del Cimarosto. Purtroppo in essa avvenivano, secondo lo stesso Massari, “replicati inconvenienti”, che erano “soliti accadere nell’attuale angusto passaggio”, che era un “tortuoso e nascosto vicolo”. Anche in quest’area si cercò quindi di intervenire con operazioni di bonifica urbana. In ogni caso, sappiamo di famiglie di origine israelitica che ancora nell’Ottocento dimoravano in questa strada. Soltanto nel 1889 la via veniva intitolata alla famiglia cremasca dei Racchetti, in particolare ai fratelli Alessandro, Giuseppe, Paolo, Rocco, Vincenzo e al di lui figlio Pietro, per gli indubbi meriti da loro acquisiti in vari campi della cultura e dell’arte.

Per concludere, va detto che, mentre alcune valide studiose e ricercatrici hanno bel delineato, negli ultimi decenni, la storia della comunità ebraica di Crema nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo, manca invece ancora una vera e propria storia più completa, dai primi insediamenti a oggi, delle realtà sociali e familiari di origine ebraica nella nostra città. Ad esempio, nel corso dell’Ottocento Crema ha visto giungere e prendere dimora tra le mura cittadine dei soggetti di stirpe israelitica che si sono poi, come i loro discendenti, uniti in matrimonio con le famiglie del luogo. Sono sufficienti alcune indagini nei registri parrocchiali, nelle partite catastali e nei registri di conservatoria per scoprirlo. Ricavandone anche vere e proprie sorprese, come quelle riferite a taluni luoghi, case e cognomi di Crema. Così come, anche nel Novecento, sono noti i nomi di commercianti e imprenditori ben integrati nel tessuto sociale cittadino. La nostra epoca non è più quella delle comunità etniche e religiose chiuse e separate, bensì quella delle realtà familiari in cui felicemente coesistono, insieme alle componenti più tipiche e autoctone locali, quelle portatrici di esperienze e tradizioni diverse, aggiornate alle mutate condizioni storiche. Una di queste tradizioni è quella degli ebrei ashkenaziti, che si è forse attenuata per qualche secolo ma che non ha mai cessato di essere presente in città. Del resto, come già ci diceva nel 1925 lo Schaerf nella sua opera sui cognomi degli ebrei in Italia, viviamo in una città che porta lo stesso appellativo di un cognome divenuto negli ultimi secoli tipicamente ebraico: Crema.

nelle foto la lapide del Sant'Agostino e la zona del ghetto nel Sommarione e nella mappa del Massari

Pietro Martini


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