9 novembre 2022

L'interesse socioeducativo per gli errori linguistici dei bambini

Anni fa, una importante rivista italiana di psicologia si è occupata degli errori linguistici, sostenendo che in molti casi, pur restando sbagli, non sono mai del tutto immotivati. C’è sempre “qualcosa” che induce a compierli. Fra i tanti esempi che proponeva, me ne ricordo due, tratti da versioni dal latino fatte da studenti ginnasiali.

La prima. Una ragazza ha tradotto con “Giulio Cesare in pubblico improvvisava dei comizi, mentre lo storico latino, credo Svetonio, aveva accennato all’epilessia di Giulio Cesare, i cui attacchi certe volte lo assalivano anche in pubblico. Qual è la ragione recondita del clamoroso errore? Nel fatto che aveva confuso con comitium la definizione di epilessia, morbus comitalis, evocando quindi un improbabile Giulio Cesare che, ovunque si trovasse, all’improvviso si metteva ad arringare la folla.   

 Ancora più divertente un’altra versione sbagliata di una ginnasiale che tradusse con Cesare i morituri ti salutano con l’uccello la frase che i gladiatori rivolgevano ritualmente all’imperatore prima di affrontarsi negli anfiteatri Ave Caesar morituri te salutant. Era impazzita o si era lasciata andare a una provocazione grossolanamente goliardica (per me con conseguenze decisamente esilaranti, per altro assai improbabile nel caso di una ginnasiale? No. Lei, a conoscenza che negli anfiteatri l’imperatore veniva salutato anche con il volo di uccelli, aveva preso questa clamorosa cantonata. Intendendo l’avverbio Ave come una declinazione del termine Avus, uccello…

Proprio perché avvenuto ai miei esordi come professore, cito un errore avente un’analoga motivazione logica. Un mio piccolo studente alla domanda della preside venuta a visitare la classe, da dove nasce il fiume Po, rispose sicuro dal Monte Faccia. Eravamo nel primo anno della Scuola Media unificata, all’inizio degli anni Sessanta, un errore ci stava. Ma come mai proprio quello? Era stato provocato da me che, dietro le spalle della preside, cercavo di aiutare il mio studente strofinandomi il viso, che però, per chi era abituato a parlare abitualmente in dialetto, era la “faccia”.

Il discorso sugli errori linguistici è estremamente complesso e ricco di spunti (un solo esempio: Gianni Rodari l’ha trattato in modo intelligente e divertente non solo nel suo straordinario libro La grammatica della fantasia, ma anche nell’altrettanto stimolante Il libro degli errori). Rodari ci dice che gli errori ci stanno, vanno capiti perché sovente insegnano qualcosa di utile e di valido, e soprattutto che a essere piena di sbagli non è la lingua ma la realtà. 

E riflessioni interessanti, valevoli, perfino perle psico-pedagogiche, contengono gli errori compiuti dai miei nipoti, quanto erano ancora bambini. Sono tutti episodi veri, come tra l’altro conferma la loro presenza nella mia corrispondenza col famoso maestro Mario Lodi su “Mondo Padano”. 

Quando T. (scrivo solo l’iniziale, perché anche i bambini hanno diritto alla privacy) aveva cinque o sei anni, l’ho fatto parlare al telefono con un’amica palermitana. Finita la telefonata, mi ha chiesto, sentendo il suo forte accento siciliano, se quella interlocutrice era inglese, straniera… Alle mie assicurazioni che non lo era, ha esclamato: “Allora è mancina!”. Un errore, certo, ma anche una sfolgorante lezione di storia linguistica e sociologica. Mancina, cioè “diversa”, così come sostanzialmente indica il significato etimologico e storico di “mancino”, “sinistro”. Termini che nella lingua italiana, così come in moltissime altre lingue, hanno assunto un significato negativo: I mancini, infatti, ancor oggi sono visti come persone a cui manca qualcosa (mancino viene dal latino mancus, cioè manchevole). E poi, anche nel vocabolario all'aggettivo sinistro o mancino vengono sempre associati significati negativi, mentre l'aggettivo 'destro' ed i suoi derivati indicano sempre qualcosa di ottima qualità. Del resto, il ladrone impenitente, nei vangeli canonici e in quelli apocrifi, è a sinistra di Gesù.

Una fonte inesauribile di “errori” linguistici dotati di grande creatività linguistica è stata invece G. di cui ricordo una meravigliosa “storpiatura-invenzione linguistica quando Recentemente, per controbattere al fratello che si vantava del fatto che fra pochi mesi sarebbe andato alle elementari, ha affermato: “No che non ci vai. Hai la “r” moscerina…”). A ben guardare, il termine “moscerina” può essere una bellissima metafora di “moscia”…   

La stessa bambina, quando era più piccola, rispondendo alla mia domanda su chi avesse danneggiato la mia auto ferma al parcheggio (eravamo in montagna), ipotizzò: “Sono stati i ladri…”, “no, è stato il lupo, ma non quello normale, il lupo marrano”, per concludere con un inaspettato “no, sono stati i vigili!”. Davanti allo stupore divertito mio e di mia moglie, ha precisato: “Sì, i vigili con i baffi”, a rafforzare. Chissà perché,  la loro identità di personaggi “cattivi".  L’origine della sua credenza stava nel fatto che spesso, in auto, io e mia moglie le ordinavamo di stare ferma e composta quando avvistavamo un vigile urbano… Lo stravolgimento semantico e concettuale di questa nobile figura di tutore dell’ordine pubblico aveva dunque origine da un nostro evidente errore educativo.  

Un’altra occasione di divertita riflessione mi si è presentata quando a mia moglie, che le spiegava che per una certa cerimonia religiosa sarebbe stata sua “madrina”, la bambina ha chiesto in modo preoccupato “ma allora, sei una strega?”. Del resto, Rodari cita il caso di un bambino per cui San Giuseppe era “il padre più cattivo” di Gesù (capita, se non si spiega il significato del termine poco familiare di  “putativo”)…Anche in questo caso, la bimba ha di fatto riproposto note teorie psicoanalitiche, per le quali l’assimilazione “madrina/matrigna” non propone solo una confusione semantica, ma importanti dinamiche psichiche inconsce, per cui la “matrigna”, che non a caso nelle fiabe è anche la “strega”, rappresenta la “figura cattiva” della madre, mentre la “fata” la versione “buona”. 

Voglio in regalo un settenano”, pressappoco nello stesso periodo mi ha detto D, il suo fratello maggiore, alla mia domanda sul dono che desiderava per il compleanno. Un settenano? Sì, perché per lui i sette nani non erano individui ben distinti tra loro, ma un genere, una tipologia di nani, come lo sono gli gnomi, i folletti… La loro identità costitutiva è quella di essere, appunto, dei settenani, e non conta la distinzione voluta da Walt Disney, che li ha dotati di una personalità e di un nome individuale. Ciascuno di loro è un “settenano” e basta, come del resto vuole l’interpretazione della fiaba di Biancaneve proposta dal famoso libro di Bruno Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe.

Un’analoga operazione logico-linguistica ha compiuto S. la sorella di T., quando, decorando la faccia della nonna (mia moglie) con trucchi e “pitturini”, quando ha proclamato: “Oggi ti faccio diventare una bella principessa vecchia”. Perfetto, secondo la sua logica, perché “bella principessa” era per lei una tipologia ben precisa di essere fatato, tale per sempre, a prescindere dalla sua età: essa è sempre  “bella principessa” da neonata, da bambina, da ragazza, da donna, da vecchia… 

Un’altra perla educativa – sì, proprio così – mi ha elargito la stessa nipotina che quando aveva sei o sette anni non ha voluto venire con me a sedersi sulle panchine del giardino davanti a casa. E mi ha spiegato: “Non vengo, perché ci sono gli sconosciuti”. Allora io le ho spiegato che la sua paura era ingiustificata, perché gli sconosciuti possono diventare persone conosciute. E gli ho spiegato che anche le sue amiche prima erano delle sconosciute, ma poi… Ma lei mi ha replicato, perentoria: “Gli sconosciuti sono solo gli adulti. I bambini non sono degli sconosciuti!”. Ragionamento dalla logica perfetta, perché per lei “sconosciuto” significava innanzitutto “persona pericolosa”: il che, poi, corrispondeva al significato sostanziale che genitori, nonni, educatori attribuiscono alla parola, nei loro consigli e ammonimenti.

Termino parlando del cosiddetto errore linguistico che i bambini, ieri e oggi, compiono. 

Non so se vi è mai capitato di far caso alle mitiche frasi tipo “Facciamo che io ero la principessa e tu eri il principe” nelle conversazioni tra bambini impegnati a giocare 

Ma da dove lo tirano fuori i bambini questo imperfetto? Come fa a tramandarsi di generazione in generazione?”.

Perché una cosa è certa: nessuno glielo insegna esplicitamente, è un uso del tutto spontaneo. Ma anche molto diffuso e universalmente noto, al punto che l’anno scorso la Rai ha trasmesso, in prima serata, un programma di intrattenimento intitolato proprio "Facciamo che io ero". 

La cosa non poteva sfuggire a un uomo che al mondo dei bambini si è dedicato anima e corpo per tutta la vita: il grande Gianni Rodari. 

Nel suo libro Grammatica della fantasia (che vi consiglio di annotarvi tra quelli da leggere), Rodari dedica una paginetta proprio a questo “verbo per giocare” 

"I bambini ne sanno una più della grammatica", scriveva 1961 in un articolo giornalistico dedicato all'imperfetto che i bambini pronunciano "quando assumono una personalità immaginaria, quando entrano nella favola, proprio lì sulla soglia, dove avvengono gli ultimi preparativi prima del gioco". Quell'imperfetto, figlio legittimo del "c'era una volta" che dà il via alle fiabe, è poi un presente speciale, un tempo inventato, un verbo per giocare, appunto; per la grammatica, un presente del passato. I vocabolari e le grammatiche, però, sembrano ignorare questo particolare uso dell'imperfetto.” (Grammatica della Fantasia, Einaudi 1973, p. 188).

Peccato che gli errori degli adulti, nel parlare e nella realtà, non producano riflessioni così lievi e propositive come quelle che ho cercato di evidenziare in questo mio scritto.

 

Gianvi Lazzarini


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